sabato 23 marzo 2019

Mangia bene, ridi spesso, ama molto [Extra]

Si parla molto di Lawrence Ferlinghetti e di beat generation in questi giorni, o forse sarebbe più azzeccato dire che se ne straparla. Del resto, non dipende da me se a destra e a manca Ferlinghetti viene descritto tramite formule altisonanti come "l'unico sopravvissuto del movimento" o "l'ultimo beatnik" rimasto in vita (vita oggettivamente lunga, dal momento che domani compirà cento anni). In realtà, Ferlinghetti è stato editore abilissimo e coraggioso (la City Light Pocket Publisher era sua), poeta colto e autore di un anomalo best-seller (A Coney Island of the Mind è uno dei libri più venduti di tutti i tempi), ma non è mai stato un beatnik in senso stretto. E' un po' quello che tentò di spiegare lui in persona al pubblico del Politeama di Poggibonsi nel lontano pomeriggio del 12 maggio 2007.
C'era la seconda edizione del Phoenix-Arte in movimento, una rassegna che partiva prevalentemente da proiezioni cinematografiche. Per l'occasione, davano Ombre di John Cassavetes. Ferlinghetti lo conoscevo poco: di lui avevo letto qualcosa in una antologia Feltrinelli chiamata Poesia degli ultimi americani e sinceramente non mi aveva colpito. Mi erano sembrati migliori Burroughs, Kerouac, Ginsberg, Cassady. Conoscevo il mantra da lui coniato "Mangia bene, ridi spesso, ama molto", ma in quei giorni di maggio ero molto poco incline ad accogliere lo spirito beat della vita. Il passaggio da Sulla strada a La strada (che usciva in quei giorni) era stato violento e, all'apparenza, irreversibile. I giorni della ricerca dell'infinito piacere lasciavano spazio a dubbi e tormenti autodistruttivi e io non ero dello spirito di andare a vedere un film di Cassavetes o di ascoltare un reading o di inseguire Lawrence Ferlinghetti per una dedica sul libro. Non mi sarei potuto godere nulla di tutto questo e  rinunciai.
Quando un conoscente nei giorni successivi mi disse "Ma che ti sei perso! Quando pensi che ricapiterà Ferlinghetti a Poggibonsi? E poi oh, ha novant'anni! Quanto credi che possa campare ancora?", lo liquidai con l'aria di chi aveva altro per la testa e non ce la aveva fatta. Il 12 maggio, mentre Ferlinghetti parlava di beat generation a  dieci minuti da casa mia, scrissi:

La gelosia supera la verità, la delusione supera la mia voglia di andare a sentire Lawrence Ferlinghetti al Politeama stasera. Anche perché alle fiche non importa se in questo periodo della tua vita ti stai avvicinando alla tromba di Miles Davis o quante volte al giorno ascolti Beethoven o se a casa hai tutti, ma proprio tutti i dischi di Dylan. A loro cosa gliene viene? Ci pensavo anche stamani in classe, quando il prof. ci ha ricordato del Phoenix Festival e di Ferlinghetti. Avrei voluto chiederglielo brutalmente, anche solo per renderlo partecipe: Prof., ma perché studiare Apollonio Rodio- come stiamo facendo in questi giorni -e interessarsi di Ferlinghetti, quando qui la massima attitudine poetica si traduce soltanto nello spompinare un giocatore di fantacalcio?

Lawrence Ferlinghetti, Allen Ginsberg, Bob Dylan, Peter e Julian Orlovski e Fernanda Pivano a San Francisco nel 1965 (foto di Ettore Sottsass).


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