giovedì 31 maggio 2018

"Se il telefono non squilla, sono io che non ti chiamo" e un paio di elucubrazioni pre e post-bolognesi [Extra]

Dal momento del mio rientro dalla Francia a fine aprile, la vita è tornata ad assumere pieghe bizzarre e imprevedibili. La cessazione del vecchio lavoro e il mancato rinnovo del contratto come accompagnatore part-time sugli scuolabus mi hanno messo inizialmente di fronte alla fatidica domanda che cinquant'anni fa, grazie all'astuzia di Mario Merz, divenne perfino una famosa e discussa serie di sculture d'arte moderna: "che fare?", per l'appunto. Bene, tanto per cominciare, non bisogna mai smettere di studiare. Mai. Io studio continuamente, il che per una persona che ha abbandonato l'università nel 2009 è un paradosso e una fortuna allo stesso tempo. Per esempio, in questi ultimo giorni apprendo- con ampio godimento -leggendo Le vie dei canti di Bruce Chatwin. Dormo, mi trastullo, perdo tempo, vado a un paio di riunioni e sto dietro alla Festa di Liberazione 2018, che si terrà nel quartiere, come di consuetudine, dal 21 giugno al 9 luglio. Rinuncio ad andare a vedere Gilberto Gill a Perugia, medito sull'acquisto con larghissimo anticipo dei biglietti per l'unica data italiana della Marcus King Band (il loro disco è stato il mio top-album del 2016 e suoneranno a ottobre al Santeria Club di Milano), vado con Sofi a vedere Ultimo tango a Parigi restaurato e in lingua originale e realizzo, rammaricandomene, che a 48 anni sarò molto diverso da come era a quell'età Marlon Brando. Riscopro anche il piacere di ascoltare per un paio di notti piovose la colonna sonora di Gato Barbieri nello stereo di Ginetta, prima di toglierla lasciando il campo libero a Moondance, che, preso in coppia con Blowin'Your Mind (gli anziani continuano a chiamarlo T.B. Sheets, forse confondendolo con una compilation coetanea e pressoché identica per tracklist e genere) davvero mi piace più di Astral Weeks.
Mi soffermo a ricordare quando il suddetto blog si preoccupava prevalentemente di cinema, della quantità di recensioni scritte nei primi tre anni di permanenza su questa gradevole piattaforma web e di alcune altre cose. Poco più di un mese fa, ci siamo salutati con Lorenzo (che del blog curò, inizialmente, il layout) promettendosi di aggiornarci su un libro dedicato a Mad Max, ma per vari motivi non sono riuscito a raccogliere idee in merito: gusti, stili, sensibilità irrimediabilmente lontane. Al contempo, ho rinunciato a partecipare alla pubblicazione di un romanzo di fantascienza scaturito dal racconto lungo Il giglio infranto, e ho momentaneamente perso le tracce del fumetto che io e Pippo- ne sono certo -porteremo quanto prima in tipografia e da lì a Lucca, in Italia e nel resto del mondo. Perché sognare non costa nulla, e quando si sogna è inutile sognare "in piccolo". Anche Paolo Sorrentino dice più o meno lo stesso in una recente intervista dedicata alla sua ultima opera; anzi, fa pure meglio: con una soddisfazione sfacciatamente partenopea, paragona l'operazione cinematografica, il fare film, a uscire per una cena al ristorante. "Quando ero piccolo, se si andava a mangiare al ristorante, lo si faceva per mangiare tanto e bene, altrimenti avremmo potuto restare a casa". Questa frase racchiude uno dei segreti cardine del cinema di Sorrentino e condensa benissimo Loro. Tre ore e passa di alto cinema che  ambisce a fare luce (seguendo le orme di maestri come Elio Petri e Martin Scorsese più che di Fellini) su un modo di vivere e di pensare più che su una figura di potere. Chi arrivava da destra non poteva che partire prevenuto per un film simile (originalità ed elasticità mentale sono due prerogative solitamente vacanti in chi ancora si professa- e qui pesco fra alcuni sinonimi -fascista, democristiano, liberale o conservatore nell'Italia del 2018), mentre a sinistra è piaciuto davvero poco: chi si aspettava un Caimano più cattivo e profondo (e Sorrentino, nel Caimano, compariva come capo della comune maoista dove la storia di Moretti ha inizio) ha rischiato davvero di entrare in coma e non uscirne, chi auspicava un film-denuncia sarà rimasto quantomeno sconcertato, chi ancora confidava in una pellicola "di regime" dove Berlusconi veniva paragonato a Hitler avrà avuto una cocente delusione. In verità, Loro è uno dei migliori film-inchiesta usciti nel e soprattutto sul nostro paese negli ultimi anni: un'inchiesta scevra da certe ombre ideologiche, profonda come una seduta di ipnosi, colta, acuta e feroce come solo Sorrentino ha dimostrato di essere (dal passaggio alla "maturità" de Il Divo alle avventure del Giovane Papa mandate in onda su Sky). Delle molte cose che mi hanno colpito in Loro, vorrei soffermarmi su quanto la bellezza, la sensualità, la perfezione della femmina si frantumino, alla fine, sotto i colpi della volgarità, del cafonal, delle droghe sintetiche e su come anche l'innocenza e la purezza vengano fatte appassire in nome della deformità, della corruzione e dell'orrido. Chi, come me, ha imparato in materia amorosa a disprezzare il cazzeggio e lo slang, la goliardia fine a se stessa e tutta quella lunga serie di codici "da rimorchio" stereotipati che il maschio solitamente utilizza per fare lo "splendido" apprezzerà la patina del macho coglione che riveste il personaggio di Scamarcio, e poi, in generale, l'altissimo livello della recitazione, l'uso pazzesco che viene fatto di Down on the Street degli Stooges e il sontuoso decollo che il film vive in tutta la seconda parte. Insomma, tanto per non dilungarsi(altrimenti potevo tornare a una delle mie classiche recensioni): un film che cresce e migliora nella memoria di chi lo guarda.
E' l'ultimo sabato mattina di maggio, quando carichiamo la Ypsilon di Sofi e partiamo alla volta di Bologna, dove saremo ospiti di Federico. Per strada, interrogo il Brune- storico, giornalista e da poco anche romanziere -sulle origini della città. Parliamo del suo antico e fascinoso nome villanoviano, Felsina, e del successivo Bononia, di origine incerta ma da molti studiosi ormai attribuito ai celti. Per entrambi, Bologna è la città cantata più volte da Guccini, Lolli e Dalla, socialmente e politicamente è stata un grande laboratorio divenuto vetrina, un "esempio" fagocitato dalla standardizzazione, è il luogo a cui Andrea Pazienza doveva tutto e da cui non poté fare a meno di fuggire, una fucina di idee che ormai sono divenute o banali o innocue, un posto che trovate citato in tutti quei quotidiani mainstream quando c'è da tirare in ballo una realtà "scomoda" oppure soltanto differente in cui di realmente alternativo è rimasto assai poco. Bologna è anche la città in cui avrei dovuto vedere Bob Dylan la prima volta che desiderai accorrere a un suo concerto (novembre 2005), quella da cui sono spesso passato coi mezzi di trasporto più disparati senza mai fermarmi e a cui, nell'estate del 2009, io e Nikke girammo attorno angosciati da tutti quei semafori e dal caldo torrido che, quasi dieci anni dopo, sembra non averla mai abbandonata. Bologna fu patria amata e poi rinnegata dal mio fumettista preferito: Roberto Raviola in arte Magnus, che qua nacque, crebbe e divenne famoso. Bologna, che vide dapprima il movimento studentesco piangere Francesco Lorusso (universitario e martire del '77) e poi contestare- incredibile, ma vero -un concerto gratuito dei Clash a Piazza Maggiore. Bologna martoriata dalla bomba di quel maledetto agosto 1980.
La città in cui giungiamo attorno alle 11, con un ritardo di mezz'ora sulla tabella di marcia, invece è quella dove si sta consumando lo psicodramma del permesso negato dalla sovrintendenza al concerto gratuito proposto dagli aborigeni membri de Lo Stato Sociale. Non ricordo altre occasioni (almeno nella storia della nostra repubblica) in cui una sovrintendenza avesse avuto più ragione di adesso. E' chiaro che il ridimensionamento di certi spazi culturali sia un problema in molte località italiane, ma lasciarlo in mano alla cricca di Lodo Sguenzi è davvero troppo! Troviamo inspiegabilmente parcheggio a pochi metri da casa di Federico, molto vicina al centro ma a suo modo appartata in una via tranquilla, con le case dai profili più bassi rispetto al circondario. Parchimetro caruccio. Posiamo i borsoni, espletiamo i bisogni fisiologici e siamo pronti a conquistare la città. Vagabondando sotto i portici, noto subito che le innumerevoli falci e martelli, le stelle delle BR e i loghi riconducibili allo squatting si confondono armoniosamente con lo swoosh della Nike, il pentacolo delle Converse Chuck Taylor, l'ondina delle scarpe Vans. Non è vero che viviamo in un'era post-ideologica, ma Bologna contiene la perfetta scenografia per illudere il forestiero con questa bugia. E' mezzogiorno passato da poco, ma ci fermiamo comunque a bere un caffè in una bottega molto particolare, dove lo macinano sul momento e ti garantiscono, per qualche centesimo in più, un'esperienza davvero gustosa. Di lì a poco passiamo a visitare il comune della città in Piazza Maggiore, dove rimaniamo per un quarto d'ora, giusto il tempo di veder celebrati tre matrimoni a fila. Tutta l'architettura è solennemente papale: Bologna, al contrario di numerose "cugine" toscane, non è mai stata città dove le signorie potessero trovare una loro stabilità. Ci provarono i Pepoli, nel Trecento, e poi i Bentivoglio, nel Quattrocento, ma preti e cardinali riuscirono sempre a ordire tranelli e congiure nei loro confronti, fino ad assumere il totale controllo del territorio e a far annettere la città allo Stato della Chiesa, potendo anche contare su un'aristocrazia di commercianti e avvocati i cui legami col clero sarebbero sopravvissuti fino all'Ottocento.
Oltre a essere punto di incontro della vita cittadina e il luogo dove Claudio Lolli aveva visto "degli zingari felici ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra", Piazza Maggiore ospita anche l'affascinante e largamente incompiuta chiesa di San Petronio. Il Brune, zainetto in spalla e American Spirit pendente a un angolo della bocca, sciorina nomi e date e ci racconta che, secondo il progetto definitivo, il duomo avrebbe potuto essere più grande della stessa San Pietro. Da alcuni anni, il Comune ha chiuso al traffico buona parte del centro, quindi riusciamo a goderci con calma e tranquillità anche la splendida fontana del Nettuno e i negozi di via Indipendenza. Federico è un asso nel girare, valutare e conoscere i posti dove mangiare in un determinato luogo. Sa districarsi fra i meandri di Tripadvisor e, soprattutto, ha occhio, gusto e senso della misura. Sei anni a Roma e un altro a Torino hanno fatto il resto. Inoltre, trovare un buon posto di sabato in centro a Bologna senza incappare nel trappolone turistico è un'ardua impresa. <<Vi porto a Buca Manzoni, è qua dietro...>>, dice lui. C'è sicurezza nella sua voce, sappiamo di essere in ottime mani e poi c'è già stato coi genitori. Il ristorante è davvero in una "buca", o meglio in uno scantinato trecentesco. Dietro il banco una signora in carne molto cordiale, il personale di sala cortese e pacato. Niente tv, niente radio. Scavallate le una e mezza, non c'è troppa gente. Ordiniamo spuma di mortadella, tigelle fritte, parmigiano reggiano, tortelli agli asparagi e tortellini scolati e saltati in padella, il tutto accompagnato a  un litro di rosso della casa, un vino leggero e semplice che qua sono soliti servire freddo. Fra antipasto e primo, scattiamo un selfie.
Via Manzoni sfocia in via Galleria, una strada notevolmente più silenziosa rispetto ad altre del centro. Ne percorriamo solo un pezzo prima di riavvicinarsi a Piazza Maggiore per dirigerci verso le Due Torri. Come in molti altri luoghi d'Italia, dopo l'anno Mille le famiglie benestanti iniziarono a fare a gara a chi ce l'aveva "più lungo" (in province come la mia questa usanza è sopravvissuta fino a oggi, seppur con modalità differenti) e si misero a commissionare torri su torri, ma non di certo per abitarle: queste protuberanze verticali posizionate sopra o di fianco alle case dei signori fungevano infatti da attestati di potenza o, nei momenti più bui, da roccaforti militari. A ricordo di questa gara fra ricchi boriosi, sono rimaste soltanto la Torre degli Asinelli e la Torre Garisenda, che pende in maniera a dir poco inquietante. Se sul versante dell'offerta culturale a Bologna sembra davvero difficile scegliere nel mucchio, dall'altra desta stupore scoprire che l'attuale Amministrazione abbia letteralmente rinunciato all'assessorato alla cultura per investire tutto su quello al turismo. Il turismo, specie quello incolore e massificato dei nostri tempi, rende e dunque via: si aprono i rubinetti e ogni quaranta abitanti si apre un ristorante! Francamente faccio fatica a rivedermi in politiche di questo genere, nonostante esse palesino al meglio gusti e tendenze del millennio in cui chi oggi ha quasi trent'anni è cresciuto, ha studiato, è maturato, ha avviato un determinato percorso e vive (o sopravvive). Decadenza e oscurità sono i due grandi pilastri su cui me la sento di poggiare due terzi dell'esistenza sociale mia e dei miei coetanei: la crisi non c'entra niente. Le ultime cose che mi interessano, da sempre, sono il profitto e la posizione sociale. La mia consapevolezza di giovane adulto sarà aumentata solo tiepidamente, ma il mio menefreghismo nei confronti di questi due fattori non è mai venuto meno. Giunti in via Rizzoli, ci separiamo: Sofi e il Brune vanno a visitare la Pinacoteca, mentre io mi inoltro con Fede in via Zamboni, per una visita alla temuta e leggendaria zona del "quartiere universitario", quello raccontato in Pentothal e Cannibale dal Paz, eccessivamente mitizzato dalla letteratura fricchetton-collettivista della città (Wu-Ming, Luther Blissett, ecc.) e definitivamente ridicolizzato grazie a film come Lavorare con lentezza o Jack Frusciante è uscito dal gruppo.
Le scritte sui muri che partono da via Zamboni e arrivano a piazza Verdi meriterebbero un libro a sé, una sorta di saggio fotografico camuffato da guida per un turismo alternativo e irriverente. Fra i migliori che leggo: "Dai tornelli ai tortelli", "Vi piscio nei risvoltini", "Gandhi Fascio" e- capolavoro assoluto -"Se il telefono non squilla, sono io che non ti chiamo". La tradizione della scritta murale bolognese è materia antica, risalente ai primi anni '70 e già notevolmente affrontata dallo stesso Pazienza nelle opere del periodo universitario. Piaccia o no, lo scenario freak che mi si para di fronte è talmente carico e pesante da sembrare artefatto, vuoto, privo del dinamismo che ho percepito fino a poco prima. Una facciata aromatizzata all'hashish con timidi sentori di progressismo. Avevano ragione i Gang (anche loro forestieri non-bolognesi) quando a inizio Millennio cantarono- forse con la consapevolezza di certi grandi poeti intenti a regalare alla letteratura italiana il loro hapax legomenon -"Bologna non c'è più/ se l'hanno presa loro/è un cumulo di noia che spendi e paghi caro". La frattura fra PCI e movimenti extraparlamentari non solo non si è mai chiusa, ma qua sembra essere divenuta una falla vera  e propria, un fossato sicuro e accogliente, una lunga oasi che attraversa la città e in cui molti hanno finito col trovarsi a proprio agio, vivacchiandoci e sonnecchiandoci placidamente, a intervalli regolari nell'arco degli ultimi quarant'anni. Peccato solo che fuori ci sia il Mondo. Risulta infine difficile, oggi, pensare che dall'ennesimo murale dipinto sotto uno di quei loggiati fosse arrivata l'ispirazione per il titolo di uno dei massimi punti di arrivo del cantautorato italiano di tutti i tempi: Disoccupate le strade dai sogni, diario privato destinato a una rivoluzione collettiva nata già morta.
Quando ci ritroviamo, sono da poco passate le 18:00. Io e Federico abbiamo compiuto un giro molto lungo, le calorie dell'abbondante pranzo in perfetto stile bolognese sono state tutte bruciate, siamo usciti dal perimetro delle mura e rientrati, abbiamo fatto scalo in un paio di negozi (per fortuna, non a Disco d'Oro in via Galliera, ché mi sarei rovinato), visto uno scorcio del Reno nella suggestiva via delle Moline e andati verso il luogo dell'appuntamento: Macondo, ossia il miglior cocktail bar della città. Ubicato al numero 22 della celeberrima via del Pratello, Macondo è un locale piccolo, con dentro un po' di sedie di plastica e cuscini e qualche tavolo sotto la loggia all'esterno. La temperatura oscilla fra i 28 e i 30 gradi, l'arsura assale, ma per adesso non siamo in molti. In fatto di gin, whisky e rum questi ragazzi sembrano essere davvero molto ben forniti. Le bevute della casa oscillano fra i 4,50€ e gli 8€, non fanno servizio al tavolo, così prenotiamo al banco. Il Brune, caso limite di scrittore allergico al gin, ordina uno screw-driver rivisitato, mentre per me, Fede e Sofi tre gin tonic fatti con un gin a loro piacere. Ci fa qualche domanda sulle nostre preferenze in fatto di distillati. <<La solita vecchia diatriba fra aromatici e secchi!>>, penso dentro di me. La scelta cade su un gin giapponese dai sentori floreali ma non troppo zuccherini. Mi sta bene: io sono a favore di tutto ciò che è molto, molto dry e, mentre Fede si fa versare un bicchiere di acqua frizzante a parte, chiedo che al mio venga aggiunta una scorza di lime. Sprofondiamo sulle poltroncine. Se la rivoluzione scoppiasse adesso, temo che dovrei chiedere cinque minuti di pazienza.
Rincasiamo distrutti, con qualcosa come 11km sul groppone, le magliette cariche di sudore e la smania di bere un litro d'acqua fresca a testa. Doccia a turni, visione di un programma chiamato Camionisti in trattoria condotto dal famigerato Chef Rubio: puro trash accompagnato dai carboidrati. Sofi passa al vaglio un paio di ristoranti, alcuni dei quali già pieni. Prenotiamo al Rovescio, una osteria biologica di via Pietralta, per le 21:00, che qua è un orario quasi da aperitivo. Buffo che una città così esposta a nord conservi dei ritmi quasi partenopei. Ci pressiamo nella Mini di Federico e partiamo. Facciamo un giro panoramico spingendosi fino al parco dove si svolge la Festa dell'Unità più grande d'Italia. Vediamo l'Estragon, i centri sociali, l'Unipol Arena e, in generale, il quartiere dove Federico lavora e passa buona parte della sua settimana, dopodiché ci riavviciniamo al centro. Trovare parcheggio si rivela difficile, varchiamo la ZTL dopo aver consultato il sito del comune in materia degli orari di attivazione del varco, facciamo due volte il giro dell'isolato, usciamo, rientriamo e alla fine riusciamo a posteggiare a 700 metri dal ristorante. Il locale è piccolo e confortevole, il menù ridotto ma ben congegnato. Sofi ordina della pasta, mentre noi maschietti carnivori propendiamo per le tartare di bufalo. Ci portano una bordolese di vino della casa: un robusto mix di cabernet e barbera senza solfiti. La cena fila via spettacolarmente, dopodiché paghiamo e usciamo. Il tour notturno ci porta su fino alla zona dei colli appenninici. Bologna ha la particolarità di confinare con molti di essi, fra cui quello della Guardia, che si estende fino a 290 metri di altezza e sulla cui cima trova spazio il santuario mariano della Madonna di San Luca. Io e Fede pisciamo in un cespuglio, mentre Sofi scatta, dalla strada, un paio di foto notturne.
Il resto della serata, una volta tornati a valle, prosegue da una piazza all'altra, di loggia in loggia. Tentiamo di ordinare al Senza Nome, un bar interamente gestito da persone sordomute dove primeggia il linguaggio dei segni. Un'esperienza unica che vorrei approfondire, ma la ressa è insopportabile, l'attesa snervante e il caldo regna sovrano anche a quest'ora tarda della sera. Mi giro verso il Brune: sembra Martin Sheen mentre, sulla barca, studia il report riservato riguardante Kurtz tirando avanti a cognac e Winston. Ripariamo, assetati più che mai, in piazza San Francesco. Intercetto un pakistano che vende abusivamente birre Moretti da 3/4 di litro a 2,50€: la spunto con uno sconto di 50 cent. e lo saluto. Sofi e Fede riparano dentro un locale dall'eloquente nome di Alto Tasso. Io e il Brune restiamo fuori a parlare di Solo, che entrambi dobbiamo ancora vedere. Resto allibito dalla quantità di persone che occupano, rigorosamente sedute sul selciato e sull'asfalto, tutta la piazza.
Rincasiamo che sono quasi le 2:00. Prima di crollare, leggo le prime pagine de La vita fino a te di Matteo Bussola, che ho regalato a Sofi un paio di settimane fa. Il mattino seguente, dormo fino a metà mattinata, facciamo il caffè e usciamo a visitare l'Archiginnasio. 3€ per vedere due stanze. Da lì, ci spostiamo nella bellissima piazza Santo Stefano, che i bolognesi chiamano affettuosamente "delle Sette Chiese". Ci domandiamo perchè, visto che di chiese ne vediamo solo tre. La storia di questa basilica "minore" si perde nel tempo e assume un alone leggendario: addirittura, fino a tutto il III Secolo, nel punto dove oggi si trova la chiesetta dedicata i martiri Vitale e Agricola, era stato possibile celebrare il culto a Iside in un apposito tempio, logicamente scomparso sotto strati e strati di marmo, mattoni e cristianesimo. <<Bologna, diciotto secoli fa, era una città meravigliosa!>>, direbbe Nanni Moretti. Veniamo fotografati in uno degli splendidi chiostri che portano da una chiesa all'altra.
Pranziamo a casa di Fede, che improvvisa delle ottime penne alle melanzane e un'insalata di cetrioli perfetta per fronteggiare la calura esterna. Per digerire, tentiamo inutilmente di raggiungere un parco cittadino, ma l'afflusso di automobilisti della domenica da tutta la città ci riporta nuovamente sui Colli. Torniamo a San Luca, stavolta con la luce del giorno e la possibilità di visitare il monastero. Francamente, sembra un caotico luna-park tenuto pure maluccio. In generale, è una zona collinare imparagonabile a quelle che sovrastano Firenze o Torino. Poco male, comunque. Scattiamo un selfie e ci prepariamo a salutare Fede e la città. So long, Bologna.

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