giovedì 17 maggio 2018

L'edizione da edicola di "Anima Latina" e altri racconti [Extra]

Mi fermo dove sono solito riempire la pancia della Ginetta, al benzinaio Ala. Mentre la pompa inietta il prezioso liquido nel serbatoio, lancio un'occhiata oltre l'area self service, verso la cassa dietro cui un distinto signore, sulla quarantina, siede con disinvoltura e mi sorride. Penso con quante tipologie di persone dovrà vedersela durante il giorno e quasi lo compatisco. Sarà che mi rivedo in una situazione analoga (fino a febbraio ho lavorato all'ufficio relazioni col pubblico del mio comune), ma la voglia di confrontarsi, di fare due parole ci sarebbe tutta. Rimando alla prossima occasione e mi butto sulla prima strada di campagna che trovo: il ritorno verso casa deve essere dolce e accompagnato dal giusto paesaggio, oltre che da un'adeguata colonna sonora. Non è un caso se in momenti come questi mi accanisco e bestemmio, skippando di continuo i brani dell'iPod (a proposito, ho finito i 160 giga disponibili) senza trovare pace. Sfinito, naufrago su Ram di Paul (e Linda) McCartney. Manciate di secondi per scegliere cosa ascoltare, e alla fine cado su un ex-Beatles! Too Many People discioglie qualunque accenno di negatività, mi annebbia i sensi, mi lascia ormeggiare in un porto sicuro. Reo di essere uscito fra la fine dei baronetti e la partenogenesi degli Wings, Ram fu accolto malamente dalla critica musicale dell'anno di grazia 1971, che dal canto suo espresse giudizi che fanno rabbrividire. Rolling Stone- da sempre sul pezzo quando si tratta di far cacare i maiali-non mancò di sfoggiare quel "campione" di Jon Landau: "incredibilmente incoerente e completamente inadeguato", ebbe a scrivere. Sarà che mi rispecchio narcisisticamente in questa definizione, ma avercene di musica così incoerente e inadeguata, specie in questi tempi di dibattiti pipparoli post-Concertone:
Alla sera, raggiungo il mio paese natale per raccattare un paio di biglietti per un concerto. Al Politeama si esibisce il Giulia Galliani Mag Collective: praticamente, una eccezionale cantante con dietro di sé il meglio del meglio della scena musicale della zona, e quindi d'Italia. Scopro che comprare in anticipo i biglietti mi costerebbe ben sei euro in più rispetto all'acquisto diretto la sera stessa del concerto. Mi assicurano che le prenotazioni non sono molte e che non si rischia nessun tipo di esaurimento, e accetto queste condizioni. Porto Francesca con me: ha quindici anni, si interessa di musica, la suona, la respira, la percepisce in un modo che io a fatica ricordo (beata lei!) e che, alla fine, è l'unico modo che conta e con cui val la pena viverla. Questo sestetto jazz presenta uno spettacolo che ho già visto due anni fa: dieci brani di Joni Mitchell riarrangiati al meglio e appartenenti alla prima decade di carriera della canadese, ossia alla sua fase migliore. Song to a SeagullLadies from the Canyon, Blue, Court and Spark, Heijira, The Hissing of Summer Lawns, Don Juan's Reckless Daughter e, seppur in maniera ridotta, Mingus sono quei dischi che, a fasi alterne, hanno percosso prepotentemente le mie corde, mi hanno avvolto e sedotto, mi hanno fatto prigioniero e liberato allo stesso tempo, mi hanno svuotato e arricchito, hanno ridato un senso alla mia condizione terrena. Insomma, Joni Mitchell mi piace da matti. Nei momenti in cui mi abbandono a euforici sbilanciamenti culturali, arrivo perfino a definirla la mia cantante preferita. L'idea di gruppo di questo Mag Collective è molto particolare, nel senso in cui potrebbe somigliare moltissimo alla band della Mitchell a cavallo fra il 1978 e il 1979: il sax tenore di Giovanni Benvenuti che è secondo, per rilevanza, solo alla voce della Giulia, un funambolico basso elettrico che Marco Benedetti sporadicamente alterna al contrabbasso, l'incredibile sezione di batteria/percussioni nelle preziose mani di Andrea Beninati, il ricco comparto tastiere di Matteo Addabbo in cui spicca, inevitabilmente, l'Hammond. Unica sostanziale differenza rispetto alla formazione che incise Mingus: la presenza della chitarra solista di Andrea Mucciarelli, che a momenti sembra seguire le orme di Gary Lucas pur mantenendo il suo magniloquente tocco di lead guitarist dall'ispirazione bluesy. Ciò che scaturisce dal vivo è una musica libera ma mai sopra le righe, difficilmente etichettabile (e questo la accomuna ad almeno due, tre album della stessa Mitchell), pulita, coinvolgente, vera. Fra un pezzo e l'altro, nella sala minore del Politeama, serpeggiano i nomi di vari generi musicali per descrivere ciò a cui il pubblico si trova di fronte: sorrido solo quando, dalla fila davanti, una ragazza sussurra qualcosa a un'altra- catturata più dal proprio smartphone che non dalla magia della musica -e l'aggettivo progressive mi giunge alle orecchie. D'obbligo, una volta usciti, l'acquisto dell'album Song to Joni (Dodicilune Dischi, 2018).
Lunedì mattina mi sveglio alle 6. Piove, fa freddo e ho un appuntamento tre ore dopo. Spero di riprendere sonno, ma è tutto inutile. Leggo qualche pagina da un volumetto monografico edito da Castelvecchi nel 1995 stampato in ricordo di Jerry Garcia. Mi piace il sottotitolo: Riflessioni e illuminazioni della chitarra magica dei Grateful Dead. In fin dei conti, è un'antologia economica col meglio del meglio tratto dalle interviste al Papà-Orso migliore del mondo, un libello fuori catalogo da almeno vent'anni e trovato per caso su eBay. Sono circa quindici giorni che questo cielo grigio e pesante preme sugli abitanti di questo spicchio di mondo. Nemmeno a novembre l'umidità penetra così a fondo. Alle 8 trascino stancamente Ginetta sulla rampa del garage, sfilo dal lettore Them Again (ho un debole per i "secondi dischi" e sono spesso riluttante verso gli esordi, seppur con le dovute eccezioni) e inserisco Bone Machine di Tom Waits. Il mio universo stamani ha i colori della copertina di Bone Machine, i contorni fuori fuoco di quella orrorifica fotografia di Jesse Dylan. Scendendo per via XXV aprile incontro tutti i personaggi di Earth Died Screaming: incrocio Rudy a metà strada, intravedo Giacobbe dentro la sua tana, osservo la scimmia sulla scala e il Diavolo che spala il carbone, butto gli occhi al cielo proprio mentre passano quelle tre cornacchie grandi come aereoplani e infine, alla rotatoria, quello spelacchiato del leone tricefalo. Piovono sgombri, piovono trote, e il mio atteggiamento nei confronti di questa giornata muta nel solo volgere del ritornello.
Certi pensieri mi sfibrano, cado su alcune insicurezze e contemporaneamente ne spazzo via molte altre. Una su tutte: l'ipotetico acquisto di una di queste docking station con cui molti coetanei stanno riempiendosi gli appartamenti. Una ventina di giorni fa, nella sua casa nel cuore di Poggibonsi, Stefania mi ha fatto ascoltare Tracy Chapman su uno di questi affari. Funziona così: lo smartphone collegato a Spotify o YouTube o- se si è maggiormente fissati -a una libreria multimediale viene connesso, tramite tecnologia bluetooth 4.2, a queste scatolette poco più che tascabili. Nella fattispecie, il modello marca Fresh N'Rebel (nome strambo e, a mio gusto, dallo scarso appeal) richiama, nel design, la tela dei vecchi amplificatori (a me vengono in mente certi Vox), sprigiona una potenza di 20 watt ed è perfino dotato di un laccio in pelle sintetica che lo rende trasportabile anche addosso alla propria persona. Il volume è regolabile direttamente dalla periferica tramite dei suggestivi tasti in rilievo luminosi, e lo stesso vale per la sequenza dei brani, la pausa, il rewind. Caricato tramite USB, ha un'autonomia di 15 ore e costa 99 euro, prezzo che rende Fresh N'Rebel fortemente competitiva nei confronti di storici leader del settore dei diffusori acustici come Bose, JBL e Trevi. Perfino Google si è lanciata sul mercato con prodotti di bassa lega venduti a cifre stracciatissime, mentre B&O ha perseguito il pensiero opposto: docking station all'avanguardia disponibili ai consueti prezzi da gioielleria. <<Funziona bene questo aggeggio, vero?>>. Questo aggeggio funziona abbastanza bene, è innegabile, ma è  poco più di una radiolina. Un orpello da esterni, ottimo se si vuole partecipare a un picnic senza rinunciare ad un equo accompagnamento musicale: termini come "pile", "ricarica", "autonomia" saranno un lontano ricordo e questa diavoleria assolverà egregiamente ai suoi compiti. Per una casa ci vuole ben altro. Tanto per mettere i punti sulle "i": qualsiasi "compattone" prodotto da Panasonic, Sony o Philips fra anni '90 e 2000 diventa uno strumento hi-fi in confronto a queste docking station. Il problema, ovviamente, è alla fonte, ma questo discutibile comfort multimediale delle iperconessioni è una frottola che ha attecchito agilmente e certa fuffa audiotecnica viene fatta passare per rivoluzionaria, quando le rivoluzioni, in questo campo, sono ben altro.
Il 15 maggio partecipo al funerale del nonno di una delle mie più care amiche, nonché di una degli abitanti di questo pianeta che conosco da più tempo. Pomeriggio mesto, umore sotto pressione, insicurezza scaturita dalla parola "futuro" ai massimi livelli, situazione socio-politica disastrosa. Perdo tempo a parcheggiare, arrivo a cerimonia già iniziata, la chiesa è gremita e resto fuori, quando inizia perfino a piovere. Mi sento una comparsa del video di November Rain. Esce il feretro, incontro persone con cui ci vogliamo bene da tutta la vita e che non vedo da molti, troppi anni. Mi emoziono, eppure sono troppo ripiegato per elaborare un pensiero degno di questo nome e quindi di assolvere dignitosamente al macabro rito delle condoglianze. Non ce la faccio a seguire il corteo fino al cimitero, mi scuso e riprendo la strada di casa. Piano piano ritorno in me e ricordo che devo passare dall'edicola per i giornali. Una fila di giocatori di grattaevinci occupa buona parte della mia visuale. Do un'occhiata ai libri a fumetti: roba costosa per cui in questo momento non posso permettermi di spendere. C'è il terzo volume dell'opera omnia di Robert Crumb che mi tenta non poco, ma 25,50€ sono più che sufficienti a farmi rientrare in carreggiata. Lì vicino, sulla destra, trovano spazio sia le riviste musicali (sempre meno e sempre più rivolte al passato, al collezionismo, al voyeurismo e ad altre pieghe poco piacevoli di questa grande passione) che le collezioni di cd che molti periodici continuano a mandare nelle edicole. TV Sorrisi e Canzoni sta curando in questo periodo sia quella dei Doors che quella, rimasterizzata, di Lucio Battisti. La formula è la stessa da almeno quindici anni: prima uscita con cofanetto in regalo e a prezzo ridotto, le seguenti a cifre che difficilmente raggiungono i dieci euro. La grande comodità di queste iniziative editoriali è che, al contrario di altre, non sei obbligato ad acquistare anche il settimanale che le indice. Vuole il caso che questa settimana sia il turno di quello che- nell'immaginario mio e non solo mio -sia uno dei principali contendenti al ruolo del più grande disco italiano di tutti i tempi, ossia Anima Latina. Cosa penso di Battisti e della sua musica l'ho ampiamente spiegato in un post di cinque anni fa, da cui mi limiterò a prendere in prestito le poche righe dedicate al disco in questione: "con Anima Latina Battisti si supera, fonde il progressive rock coi ritmi del Sud, non rilascia alcun singolo, azzera i ritornelli, tiene bassissime le tracce vocali, fa trionfare il proprio genio compositivo". Può bastare questa come presentazione, ma voglio aggiungere che alla cifra con cui, nell'arco di una giornata, si fa colazione al bar e si prende un aperitivo, ci si porta a casa una spettacolare mappa di viaggio verso un pianeta di musica intensa, ricca, audace e spavalda. Prima di cena, il temporale finisce e le nuvole nere svaniscono: anche se il sole sta scomparendo, è comunque fonte di un minimo sollievo. Non vedo la campagna, ma ormai posso percepirla persino attraverso metri e metri di cemento. E me la immagino, mentre dallo stereo, dopo due minuti e ventidue secondi dall'inizio della title-track, Battisti quasi sussurra:
Scende ruzzolando
dai tetti di lamiera,
indugiando sulla scritta
"Bevi Coca-Cola".
Scende dai presepi vivi
appena giunge sera...".

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