domenica 5 novembre 2017

La Ferragni, Pierluigi Battista e un paio di buone notizie [Extra]

Tra le numerose manifestazioni della stupidità umana degli ultimi tempi possiamo iscrivere senza ombra alcuna di dubbio il fenomeno "Metallari Vs. Chiara Ferragni". Vi chiederete come possa comparire su un blog come questo il nome della influencer più bionda e potente al mondo, ma se avete seguito sul web le offese gratuite lanciate da più di una pagina Facebook in odor di purismo "arroccketato" e "metallaro" (le stesse che mi hanno fatto recapitare a casa sigari avvelenati dopo la stroncatura dell'ultimo disco dei Foo Fighters) nei confronti della Blonde Salad, capirete senz'altro. Qui regna la ragionevolezza ed è bandita ogni forma di fondamentalismo, malattia che alla musica ha finito col nuocere quanto la crisi del supporto fisico. Al contempo, Chiara Ferragni non è propriamente la mia donna ideale, nè su un piano estetico, nè su un piano empatico. In più, occupa un ruolo di rilievo in un settore (la moda) che a tratti mi incuriosisce e a tratti trovo di un'idiozia inarrivabile. Andando per metafore, si potrebbe definire la moda come una gabbia- una delle tante, nonchè, sicuramente, una delle più piacevoli -in cui l'essere umano decide spontaneamente di abitare, e, di conseguenza, Chiara Ferragni sarebbe solo la degna domatrice di un circo aperto trecentosessantacinque giorni l'anno. Fatto sta, però, che a causa della coglioneria altrui non solo sono stato recentemente costretto a dire la mia in un dibattito fasullo, perverso e privo di rilevanza, ma mi sono pure scoperto uno strenuo difensore della biondina, rea- a dire dei talebani del metallo pesante -di aver postato una foto in cui si permetteva di profanare il sacro nome delle loro divinità indossando una t-shirt dei Metallica (era ... And Justice for All). Per fortuna, è sempre dallo stesso Facebook che arriva un pensiero degno di conoscere massima diffusione, anche perchè tornerà a prestarsi altrettanto bene anche in futuro (un futuro che, affacciandosi sui social, si preannuncia sempre meno roseo e sempre più irragionevole):
Premessa numerica: con il loro centinaio di milione di copie vendute, i Metallica si collocano nella stessa lega di cui fanno parte i Justin Bieber, le Britney Spears, le Adele e molti altri, quindi i commenti rivolti alla fashion blogger in merito alla sua conoscenza o meno della band in questione suonano tanto ridicoli quanto lo sarebbero affermazioni del tipo "Togliti quella maglia di Justin Bieber che manco sai chi è...". Ma questa è solo la proverbiale punta dell'iceberg. Perché tutta la vicenda non sarebbe meno ridicola se al posto di quella dei Metallica ci fosse stata una t-shirt dei Carnage o dei Living Death o di chiunque altro. Piaccia o meno, si tratta di oggetti di merchandising in vendita per chiunque: non si tratta di oggetti esclusivi per esoterici fan club, e tantomeno è necessario affrontare particolari esami prima di procedere all'acquisto. Se davvero ci fosse in gioco una qualche forma di identità sociale, sarebbe il caso di contestare prima di tutto la scelta da parte di chi mette il merchandising sul mercato e lo vende a chiunque sia disposto a sborsare la cifra richiesta. Non è necessaria una particolare conoscenza delle leggi di mercato per comprendere che, se un oggetto è in vendita senza restrizioni, allora chiunque può acquistarlo. L'isteria di massa che segue la mera pubblicazione di una foto racconta molto di più sulla frustrazione di chi scrive e commenta in preda a rabbiose convulsioni, che non sul bersaglio di tali attacchi. Si tratta di dinamiche all'ordine del giorno tra i metal-fan, ma che in generale riguardano qualsiasi gruppo che costruisce la propria identità attraverso l'esclusione degli altri (indie, etc...). Sono quelle stesse dinamiche che fanno sì che interi blocchi di presunti fan girino le spalle a questa o quella band, colpevole di essersi venduta o altro. (Interessante, nella vicenda in questione, è come l'album raffigurato sulla maglia della fashion blogger sia anche quello che ai tempi della pubblicazione vide i fan storici accusare il gruppo di essersi venduto, reo di aver realizzato un videoclip per One). In generale, è lo stesso triste e patetico comportamento di chi sente il bisogno di (ri)affermare la propria identità denigrando questo o quello (cantante, gruppo, fan, etc...). In fin dei conti, non c'è propria nessuna differenza tra chi insulta una tizia con indosso una t-shirt dei Metallica senza essere una metal-fan e quanti offendono i fan dei Metallica perché questi avrebbero smesso di "essere metal" con la morte di Cliff Burton e così via, nel regressus in infinitum dell'orgoglio elitista. 
(dalla pagina Colonia Lunare, postato il 30 ottobre 2017)


La serata del primo novembre è stata notevole. Hugo Race e Michelangelo Russo a Bottega Roots hanno ipnotizzato una sala stracolma con il repertorio di John Lee Hooker riletto come una sorta di lungo poema blues del Delta australiano. Ho ancora in bocca il sapore pungente della buona musica, quando, nella pausa pranzo del giorno seguente, mi imbatto in una storia di giornalismo di livelli infimi. Aneddoti simili, oltre a farmi bestemmiare in un paio di lingue, mi riconfermano che Gaber, anche in questo caso, aveva tutte le ragioni del mondo.

Antefatto: il prestigioso editore newyorchese Simon&Schuster decide di pubblicare il discorso del Nobel  di Bob Dylan sottoforma di pamphlet edito in cento copie e di metterlo in vedita alla assai poco modica cifra di 2.500 dollari. Dylan, felicemente in tour e con il tredicesimo volume della sua Bootleg Series in uscita mondiale l'indomani, dà l'assenso senza neanche dare alcun risalto- come suo solito -alla suddetta pubblicazione sui suoi canali ufficiali.
 
A margine: il premio Nobel per la letteratura del 2017 è andato a un romanziere giapponese di cui non importa una beatissima sega ad anima viva e sapete perchè? La risposta nella sezione Il fatto.
Il fatto: perchè tutti sono troppo impegnati a scrivere del discorso del Nobel di Dylan, messo in vendita a una cifra tanto folle quanto- a dire di alcuni -disonesta.
Le conseguenze. Si prenda un giornale di merda italiano a caso (la scelta non manca): il Corriere della Sera. Nel cuore della notte, a Milano, viene fatto risvegliare dallo stato di ibernazione in cui è costretto dalla fine del secolo scorso, l'ex-vicedirettore del quotidiano più venduto d'Italia, ossia Pierluigi Battista. Nessuno osa impartirgli alcun ordine, ma un fattorino si limita a esporgli velocemente la notizia, non mancando di aggiungere che: a) siamo nel 2017; b) parlar male del Nobel di Dylan è passato di moda. Purtroppo, Battista, a causa del ghiaccio che ha lievemente intaccato le funzionalità del suo apparecchio Amplifon, recepisce solo la prima delle due preziose informazioni e, con ancora l'accappatoio addosso e una tazza di tè fumante fra le mani, si mette a battere a macchina l'articolo per il suo giornale. Racconta così un'assurda storia secondo la quale un  avido ebreo ("di merda", annota mentalmente senza scriverlo, lui che è memore degli insegnamenti di babbo Vittorio, impavido repubblichino e dirigente del Movimento Sociale Italiano) del Minnesota ha convinto- non è dato sapere con quali mezzi -il proprio editore affinchè questi pubblichi un volumetto di poche decine di pagine ad un prezzo criminale. 
Considerazioni: leggere frasi che si riferiscono al più grande musicista di tutti i tempi adottando formule quali "il menestrello armato soltanto di una chitarra e di un'armonica, il cantautore dell'altra America che ha aperto un'era di libertà e di critica alle meschinità segnate dal culto del denaro e del potere" mi fa vergognare non in quanto appassionato di una certa materia di competenza (la musica, per l'appunto) e di un determinato artista (lo stesso Dylan, che amavo e avrei continuato ad amare anche se non avesse vinto un premio ipocrita e pretestuoso come il Nobel), ma in quanto (relativamente) libero cittadino italiano. E dato che gli esempi con cui scongiurare le teorie del sangue, della razza e di tutte queste cazzate non sono mai troppi, ne approfitto per dire che io non voglio avere in comune manco mezza emoglobina con chi, su un quotidiano nazionale, scrive "Bob Dylan si sta dimostrando, attraverso il Nobel per la letteratura che gli è stato conferito l'anno scorso, un attentissimo amministratore dei suoi beni materiali, beato lui". E' ovvio- almeno per chi ha letto fino a qua -che la critica a un simile articolo è del tutto inutile poichè l'enunciazione della notizia stessa è una bugia mascherata da mezza verità e perfino condita con sottili ammiccamenti antisemiti, ma per onore di cronaca (una cronaca alternativa, come cerca di essere alternativo questo blog) me la sento di ricondividere a mia volta un punto di vista che sta già trovando ospitalità su altri quotidiani, altri siti, altri blog (tutti, inevitabilmente, migliori del Corriere) al fine di screditare l'articolo di Battista. E di questo parlo nella sezione Conclusioni.
 
Conclusioni: va bene. Mettiamo, per assurdo, che Battista abbia scritto la verità  e non una marea di stronzate invidiose. Diamo poi per buono che Simon&Schuster sia un editore magnanimo e decida di devolvere la totalità degli incassi della vendita del costoso libretto al suo autore, ovvero allo Stesso Dylan. Il 100% del ricavato del discorso del Nobel andrà al cantante. Ammettiamo poi che tutte e cento queste copie riescano a fare breccia nei cuori degli appassionati e dei collezionisti e finiscano così per andare vendute velocemente: l'editore, a questo punto, dovrebbe a Dylan la bella cifra di 250.000 dollari. Non mi sono sbilanciato e ho scritto "bella cifra", perchè per me, per molti miei coetanei e per milioni di italiani 250.000 euro sono quelli che andranno pagati- spesso con un mutuo ventennale e tramite una massiccia dose di fatiche e frustrazioni bibliche -per avere un tetto sopra la testa. Ma una rockstar queste cifre le fattura velocemente, le raggiunge in qualche giorno di incasso di diritti d'autore o con le vendite online di tutto il materiale discografico e promozionale messo a disposizione da chi ne cura l'opera e l'immagine. Nello specifico, 250.000 equivalgono al cachet che Bob Dylan riscuote in due serate con uno spettacolo di durata variabile e compresa fra i novanta e i centoventi minuti. Va bene che anche Dylan sui soldi non ci sputa, ma buttare la faccenda in una caciara macchiata solo dal verde dei dollari è davvero eccessivo e poco professionale.
Il punto della situazione: ma quale professionismo possiamo mai pretendere da chi, nel 2017, scrive ancora "Patty Smith"?
Sopra, Pierluigi "La banalità del male" Battista.
Il week-end si prospetta pieno di uscite interessanti. Con lieve anticipo sul tempo, passo a ritirare il mio regalo di compleanno (The Bootleg Series Vol. 13- Trouble No More 1979-1981) e raggiungo il punteggio utile per un cd omaggio. Mi scervello un attimo, perchè posso portarmi a casa un'altra novità. Alla fine, la scelta cade sul nuovo Bidin' my Time di Chris Hillman. Me ne hanno parlato molto bene; a detta di alcuni è addirittura uno dei dischi migliori usciti in questo 2017 ed effettivamente un paio di bei pezzi sul Tubo, in maniera magari un po' frettolosa (come sul Tubo faccio sempre), ho avuto modo di ascoltarli. Del resto, siamo di fronte a Chris Hillman, uno che la strada la conosce bene e la solca senza timore dal lontano 1963. In quanti possono vantarsi di aver militato nei Byrds, nei Flying Burrito Brothers e nei Manassas? E poi è l'ultima opera in cui Tom Petty (qui produttore e chitarrista) ha avuto modo di partecipare prima di andare a suonare la sua V-Factor ai bordi delle autostrade siderali. L'unica riserva che ho nei confronti del lavoro di Hillman è che a me il country puro e crudo tende a stancarmi: ho sempre e comunque bisogno di una massiccia di dose di rock attraverso tutte quelle chitarre acustiche, quei violini e quei banjos. Non a caso considero la fase outlaw uno dei momenti più alti che il country abbia mai raggiunto, e non mi riferisco soltanto alle splendide liriche fiorite grazie ai cantastorie di quel periodo, ma proprio al modo in cui i brani venivano suonati e registrati. Hillman è stato uno dei quattro inventori del country-rock, questo è innegabile, ma la sua carriera solista è generalmente votata ad un tradizionalismo piuttosto noioso e lontano dalle atmosfere di Sweetheart of the Rodeo e, in generale, dal genio della musica cosmica americana. Bastano tre canzoni per fugare ogni dubbio: Bidin' my Time è davvero un bel disco, meno interlocutorio dei lavori più smaccatamente country che Hillman ha inciso per buona parte degli anni Novanta e pieno di tutto ciò che di buono possono offrire, nel 2017, artisti quali Roger McGuinn, David Crosby, Benmont Tench, Steve Ferrone e Mike Campbell. Songs che riprendono lo stile più tardivo dei Byrds, covers di dichiarata matrice folk (l'album si apre con Bells of Rhymney di Pete Seeger), ballate intense, chitarre marchiate Heartbreakers debitamente in vista ma mai sopra la meravigliosa voce di Hillman, che si limita a strimpellare il mandolino e, in Here She Comes Again, ad abbracciare lo strumento che lo vide fiorire come rocker, ovvero il caro, vecchio basso elettrico. Da avere.
La storia che invece passo a raccontare adesso riguarda un gruppo italiano; anzi, per molti è il gruppo italiano per eccellenza, la nostra Band, i nostri Grateful Dead. L'unica differenza è che questi ultimi non sono più insieme da molto tempo, mentre i Nomadi- sì, di loro si parla -suonano ancora, a volte bene, altre male. Incidono dischi, fanno turnè, partecipano a Festival musicali e televisivi, vantano un seguito che copre senza fisime tre generazioni e officiano i loro rituali senza troppo accusare il peso degli anni. Io non sono un fan della storica band emiliana, ma neanche uno di quelli che, "da quando non c'è più Augusto...", hanno gettato la spugna ritenendo offensiva la scelta da parte degli altri componenti di proseguire un'avventura avviata nel lontano 1964. Al contrario, ho un ottimo ricordo di un concerto che il gruppo tenne a Chiusdino una decina di anni fa: la formazione a due voci (Danilo Sacco e Massimo Vecchi) funzionava alla grande e il disco Con me o contro di me, a discapito dell'orripilante nome (ma i dischi dei Nomadi post-1993 vantano, tristemente, alcuni dei più brutti titoli della storia della musica), non era dei loro peggiori. Dopo quella volta, sono stato più volte invitato a rivedere il gruppo, che nel frattempo perseverava nell'effettuare ulteriori rimpasti di formazione: ma la deriva centrista (quando non direttamente parrocchiale) delle liriche di Sacco prima e il successivo arrivo di Cristiano Turato mi hanno sempre dissuaso sia dal semplice ascolto che dal seguirli in concerto. Non credo di essermi perso alcunché, ma recentemente ho sentito in radio un nuovo singolo, Decadanza, con una voce che non ero in grado di riconoscere ma che ero certo non fosse quella di Turato. Grazie a Google, scopro che quest'ultimo non è più un membro del gruppo da un anno e mezzo e che al suo posto è subentrato il giovane Yuri Cilloni, la cui voce ricorda quella di Augusto senza però incappare nella trappola del tribute-artist. Il resto della band sembra muoversi su fascinose coordinate rockiste che non venivano percorse- a memoria del sottoscritto -dai tempi de La settima onda. Contatto il Brune, sicuro che lui o il fratello avranno sicuramente acquistato il disco e lo prego di farmene una copia prima possibile. Mi dispenso da ogni commento sul titolo (Nomadi dentro) e sulla copertina dalla lontana ispirazione u2iana, ma non siamo di fronte a uno di quei casi in cui l'abito non fa il monaco (per fortuna). Tutto il disco è, per così dire, di buona fattura. Alcuni pezzi risentono di qualche ridondanza, troppo simili fra di loro, ma se si vuol trovare un difetto ai Nomadi è quello di aver sempre dato in pasto all'industria discografica troppi dischi e a velocità eccessiva. Ma forse val la pena ricordare che abitiamo in un paese in cui X-Factor viene percepito come un qualcosa di vero. Ne consegue che un album come Nomadi Dentro sia una delle cose più belle e rigeneranti di ciò che il rock italiano è stato in grado di regalarci negli ultimi tempi.

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