lunedì 30 ottobre 2017

Quattro chiacchiere su George Young e poco più [Extra]

E' un pigro pomeriggio di domenica e fa caldo in maniera preoccupante. Il pianeta è malato: si vede, si sente. Chi non se ne accorge o finge di non accorgersene è semplicemente un cretino. Scorro svogliatamente le news "feisbuccare" e mi soffermo, come mio solito, sulle pagine musicali. Un piccolo post della rivista Metal Hammer (primo magazine musicale che acquistai, con una certa frequenza, nel 2003-2004) dà notizia della scomparsa del maggiore dei fratelli Young, il famoso produttore in pensione ed ex-musicista George. Conoscevo ben poco dei suoi trascorsi in vecchie beat band australiane degli anni Sessanta, nè immaginavo che- per ammissione dello stesso Angus -il suo apporto fosse stato fondamentale ai fini della costituzione del gruppo amato da milioni di abitanti del pianeta terra che risponde al nome di AC/DC. Ma, soprattutto, non immaginavo che addirittura Love is in the Air di John Paul Young (non erano parenti) recasse la sua firma (produttiva, si intende).

Mi ritrovo, così, a leggere qualche riga biografica su un personaggio rimasto volutamente un po' dietro le quinte nel percorso ultraquarantennale di una band di indiscutibile successo. Il rock&roll è davvero ricco di storie e personaggi di questo genere. George Young aveva già co-prodotto con il collega e amico Harry Vanda i primi quattro album degli AC/DC, quando Angus e Bon Scott decisero di allontanare il bassista Mark Evans con la scusa di "divergenze musicali" (oggi come allora, sentendo quei dischi, viene da domandare <<Ma quali?>>). Erano i giorni in cui il gruppo sfornava un disco all'anno e, quando non trovava posto in studio di registrazione, o era in sala prove o era in turnè. Così, mentre venivano fissati i provini per un nuovo bassista, fu George a prendersi la briga di suonare il basso sui pezzi che avrebbero composto Powerage, riuscito seguito di un capolavoro quale Let There Be Rock. Quando venne reclutato Cliff Williams (che sarebbe risultato accreditato come bassista in tutto l'album), il disco era già in fase di missaggio. Il nome di George come musicista degli AC/DC avrebbe trovato spazio esclusivamente in Cold Hearted Man, un brano che, da principio, sarebbe stato incluso solo nell'edizione olandese di Powerage e solo successivamente avrebbe conosciuto notorietà grazie alle ristampe internazionali su cd della Columbia (lo si sente anche in Iron Man 2), ma a lui andò benissimo così.

Alla fine del 1978, Angus e Malcolm si dissero oppressi dall'autorità del fratello maggiore e pregarono la Atlantic di intervenire, ponendo così fine alla partnership "a conduzione familiare" su cui avevano costruito tutte le fortune iniziali. La premiata ditta Vanda&Young, per sua sfortuna, non potè godere degli ingenti guadagni ricavati dalle vendite dei best-sellers per antonomasia del gruppo. Highway To Hell, prima, e Back in Black, dopo, avrebbero posto il sigillo sulla direzione musicale di Robert John "Mutt" Lange, che col gruppo realizzò una trilogia discografica degna di essere riportata sia negli annali del rock che nei manuali universitari di marketing. Intanto, George si addentrava nei territori della new-wave australiana, lanciando gruppi, producendo dischi di ordinaria, rassicurante pop-music e mantenendo ottimi rapporti con le rock-band oceaniche (i celebri Rose Tattoo poterono contare su di lui come manager per diversi anni). Forse dipese dall'assenza di idee decenti, ma se, da una parte, i mediocri dischi registrati per buona parte degli anni Ottanta fra Australia, Europa e tropici e partoriti sotto l'egida della stessa band non scalfirono il successo degli AC/DC, è altresì vero che sicuramente palesarono un netto impedimento di Angus e Malcolm nel vestire il ruolo dei produttori della propria musica. I nomi di Harry Vanda e George Young sarebbero ricomparsi su un album del gruppo esattamente dopo dieci anni da Powerage, rispetto a cui quel Blow Up Your Video da loro registrato e prodotto nel 1988 appariva come una pallida copia, pur vantando dei singoli che ne avrebbero decretato vendite eccellenti, addirittura le migliori dai tempi di For Those About to Rock. Il disco compattò non poco l'immagine del gruppo e riavvicinò i fratelli, che per le sessions avevano scelto di ritirarsi per un mese in Provenza, dove registrarono ben sedici pezzi, lasciandone fuori alcuni dal risultato finale. George avrebbe dato l'addio alla musica un decennio più tardi, mentre gli AC/DC si erano definitivamente tramutati in un fenomeno globale, un gruppo destinato all'immunità che negli anni Novanta si adattava alle nuove esigenze di mercato e gestiva senza problemi un business di un miliardo di dollari fra dischi, concerti, merchandise. La stesura delle canzoni di Stiff Upper Lip iniziò già nel 1997 con Angus e Malcolm intenti a buttare giù idee e registrare demo strumentali di chitarra e batteria. I piani della band erano semplici: dopo i dissapori emersi dalla sgraziata collaborazione con Rick Rubin e la freddezza con cui pubblico e critica avevano accolto il tanto chiacchierato Ballbreaker, gli AC/DC erano ben lieti di tornare a farsi produrre da Bruce Fairbairn, che però morì nel 1999, quando un numero cospicuo di demo era già stato approntato in Canada. George Young ricomparve allora nella vita del gruppo, selezionò dodici delle diciotto canzoni registrate fino a quel momento e Stiff Upper Lip approdò nei negozi di dischi di tutto il mondo il 28 febbraio 2000, all'alba del nuovo Millennio. Era la prima volta che il suo nome compariva da solo su un album degli AC/DC e sarebbe stata anche l'ultima. Trasferitosi in Portogallo con la famiglia, si congedò dalla musica con questo disco, che, in tutta franchezza, non era nè carne nè pesce e commercialmente si rivelò nettamente inferiore alle aspettative. Un vero peccato.
The Young Brothers
Senza troppo dilungarmi, vorrei ora parlare di un cantante a cui voglio bene ma che ultimamente mi riserva grosse delusioni: Robert Plant. Lullaby and... The Ceasless Roar (2014) era un disco posticcio e confusionario, lontano dai polverosi, mistici sentieri che l'ex-Zep aveva più volte affrontato nel corso della lunga carriera solista. Di contro, il nuovissimo Carry Fire, sulla carta, sarebbe dovuto tornare alle atmosfere di quelli eccellenti dischi incisi nei primi anni Duemila con gli Strange Sensation. Dreamland (2002) resta uno dei punti cardine dell'universo post-Zeppelin, mentre Mighty ReArranger (2005), all'epoca, fornì l'occasione a me e Nikke di sognare- sognare, badate bene -di andare fino al Mandela Forum per vedere Plant dal vivo. Certo, è difficile per un settantenne sfornare con discreta cadenza dischi come quelli citati sopra, mezzi capolavori come Raising Sands (i duetti con la Krauss, da avere a tutti i costi) o perfino opere riuscite solo in minima parte (lo stesso Lullaby), ma Carry Fire è proprio lontano da tutte le premesse e le buone intenzioni. Rincuora solo sapere che dal vivo Plant sia ancora una forza della natura, perchè i risultati attuali lasciano molto a desiderare.
Tempo fa, caddi prigioniero dell'esordio su larga scala dell'australiana Courtney Barnett, quel Sometimes I Sit and Think che tanto si prestava a piacere alla marmaglia indie (a cui, in effetti, piacque terribilmente) ma che finì comunque col fare breccia nel mio cuore bluesy. Non necessariamente un must have, ma comunque un disco di cui conservare memoria. Purtroppo (per lei e per noi) Courtney è recentemente finita nelle grinfie di Kurt Vile, classico personaggio su cui è di gran moda spendere voti alti e spandere litri di inchiostro. Vile ricorda un po' il monaco shaolin del duo comico dei Soliti Idioti, ossia il Paraguru. Odio Kurt Vile da quando mi fece buttar via quasi venti euro per B'lieve I'm Goin'Down, parodia musicale di scarso livello, e lo odio ancora di più ora che è riuscito nell'intento di rovinare il discreto materiale di partenza del nuovo Lotta Sea Lice. Courtney non è la stessa del disco di due anni fa, la sua voce è continuamente sacrificata in nome di questo coglione, ma sono convinto che sarà in grado di rifarsi e che i brani di Lotta Sea Lice dal vivo potranno solo migliorare. Ovviamente, se lei sarà sola.
Sabato 28 concerto al Tortuga di un quartetto dal nome curioso: Gozzilla e le Tre Bambine coi Baffi, attivi dalla fine degli anni Novanta, provenienti da Aprilia, tre album all'attivo. Questi riottosi e rissosi punk-rockers hanno pensato bene di fare scalo in quel di Poggibonsi con la loro proposta musicale sgangherata e sopra le righe. Al di là dell'ora sempre più balorda in cui questi gruppi vengono fatti salire sul palco, della partecipazione senz'altro picaresca ma non nutritissima del pubblico e del fatto che avrò colto un decimo di quello che ha esclamato per un'ora buona il cantante Svociato (un omone con una panza da esibire dopo un Oktoberfest a mo' di trofeo di guerra), la serata può senz'altro essersi detta riuscita. Canzoni come Sono il più vecchio bastardo in città, Sporchi, marci e ubriaconi o Fatti una bevuta, il Vaticano brucia dovrebbero essere oggetto di ascolto nelle scuole, ma non si può pretendere troppo dal ministro Fedeli (nè tantomeno dal governo che rappresenta). Liricamente, un gruppo che nella prima mezz'ora è spassoso, nella seconda diverte, nella terza può anche annoiare (a meno che non si sia ubriachi fradici o si tendano a categorizzare alla voce "musica" anche i cori da stadio più biechi), ma che, musicalmente, suona in maniera davvero convincente: in particolare, tale Jack Cortese alla Stratocaster (lo stesso suona e canta pure in un gruppo che si chiama Bone Machine e dunque solo per questo andrebbe invitato a suonare in mezza provincia) fa la sua porca figura. Assoli tirati e distorsore rovente, tutto perfettamente a metà fra "Fast" Eddie Clark e l'hillbilly preso in prestito ai bifolchi degli Appalacchi e trapiantato nella provincia laziale. Roba che, dalle mie parti, ha meno probabilità di attecchire rispetto ad altra (non sempre migliore, purtroppo), ma è un esperimento dell'organizzazione che va premiato a prescindere da ogni esito.
Esternamente, continuo a essere bombardato da notizie su X-Factor che non vorrei apprendere ma di cui, purtroppo, vengo a conoscenza e in seguito alle quali, inevitabilmente, bestemmio. Su tutte, la colossale figura di merda fatta in merito all'attribuzione della paternità de La canzone dei vecchi amanti, spacciata da non so bene quale dei quattro merdoni "brano di Franco Battiato". Con tutto l'affetto per le covers di Fleurs e con la stima mista ad antipatia che nutro per Battiato, cerchiamo di riportare l'universo sulle giuste coordinate, va':
Fra le cose che, invece, fanno bene al cuore si segnalano, in ordine sparso: il concerto di Hugo Race e Michelangelo Russo previsto, a meno di due chilometri da dove abito, per la sera del 1 novembre. E che boogie sia (ovviamente nel nome di John Lee Hooker e del loro recente, ottimo tributo in salsa italo-australiana)...
... e infine l'imminente, nuovo album di Mickey Hart, che dopo oltre quindici anni nel ruolo di leader del gruppo a lui intitolato ha pensato bene di tornare al solismo con un progetto ambizioso e carico (forse troppo) di ospiti, un'opera dal sapore fortemente trasversale- stando almeno a quanto sentito in anteprima sul Tubo -e che forse proprio per questo potrebbe destare alcune perplessità. Tuttavia, di questo Ramu se ne parlerà non poco e per più motivi: intanto, per la copertina (fantastica), poi per il fatto che tutte le liriche portano la firma dell'instancabile Robert Hunter, e per il susseguirsi di nomi come Babatunde Olatunji, Steve Kimock, Oteil Burbridge e Jason Hann. Il disco esce il 10 novembre ed è già ordinabile online.

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