lunedì 19 giugno 2017

Chuck Berry, "Chuck" [Suggestioni uditive]

Chuck Berry,
Chuck
(Decca Records, 2017)
★1/2















Iniziava il 2010 e sullo stereo della mia Volkswagen Lupo girava a ripetizione una cassetta di R&R anni '50. Una compilation redatta dal sottoscritto. Niente Elvis, però: piuttosto, si susseguivano divinità autentiche, gente del calibro di Eddie Cochran, Bo Diddley, Jerry Lee Lewis, Buddy Holly, Bill Haley & His Comets, gli Everly Brothers e, ovviamente, Chuck Berry. Era un periodo in cui mi stavo riprendendo da una grossa sbornia per il brit-pop e, in generale, per i gruppi inglesi, perciò, con quelle canzoni da due minuti secchi e la sezione ritmica precisa come un bisturi, la Cassia diventava una statale di qualche ridente cittadina "tutta rugby e cheerleader", la mia macchinina a diesel si tramutava in una Cadillac di grossa cilindrata, e io, di colpo, mi trovavo ad abitare poco fuori Chicago o St. Louis. Erano canzoni che descrivevano una società mitologica, un'era irripetibile, per molti versi perfino contraddittoria: tutto il rock è ormai un qualcosa che si nutre di un'epica destinata all'immortalità, ma quello degli anni '50, così selvaggio, eccitante e inconsapevole, è un qualcosa che continua a fare storia a sè.
Chuck di Chuck Berry- album che chi segue la musica aspettava da molto prima che il suo autore ci lasciasse lo scorso marzo -mi riporta a quei giorni e a quelle emozioni. E' l'opera finale di un genio della chitarra che seguiresti ancora in capo al mondo, con la passione e l'ingenuità di un quattordicenne. Dieci brani per trentotto minuti scarsi di musica. Le canzoni sono belle, intense, vissute, gli arrangiamenti essenziali, nudi, energici. Qualche fraseggio di armonica e pochi tocchi di pianoforte qua e là. La voce di Chuck ricca di cuore e di anima, come non si sentiva dagli anni '60. I pezzi che preferisco sono i più oscuri: il jazz di You go to my Head, il blues di Darlin', Dutchman, Eyes of Men e, ovviamente, Big Boys. Ospitati in un angolo, giovani leoni come Gary Clark Jr. o Nathaniel Rateliff (a cui mi sono avvicinato recentemente, scoprendo un talento davvero notevole) se ne stanno buoni, al soldo (è proprio il caso di dirlo, dato che anche il disco in questione è prodotto da lui medesimo) di un semidio come Chuck. 
Saltando i convenevoli e lasciando che sia la musica a parlare, posso dire che siamo al cospetto di un artista che anche da morto mette tutti in fila, sempre e comunque. Chuck è un bel sentire per noi e un bell'andare a ritroso per chi lo ha pensato, suonato, cantato e perfino prodotto: un viaggio nei suoi giorni verdi, in un universo utopistico popolato da teenagers forti, ottimisti e forse anche un po' ingenui. Un disco da ascoltare in macchina guidando verso l'orizzonte di questi primi giorni estivi belli afosi.


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