giovedì 10 marzo 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot [Recensione]

Che Lo chiamavano Jeeg Robot sarebbe stato un film di richiamo era già chiaro (almeno per me) dalle reazioni in sala di fronte al suo trailer. Chiaro almeno quanto il fatto che, in una società cinematograficamente trasformata da incessanti visioni cinefumettare e supereroistici affreschi pluriennali che rispondono agli acronimi (e alle multinazionali) più disparati, l'idea del "ragazzo di vita" Enzo Ceccotti (Santamaria) che dopo un bagno nei rifiuti tossici del Tevere si trasforma in un fortissimo difensore dell'estrema periferia romana sarebbe stata vincente a prescindere dagli sforzi promozionali messi in campo per comunicarla. 
Parimenti, Lo chiamavano Jeeg Robot non è stato pensato come una "risposta" italiana ai cinecomics statunitensi (di fatto, non è tratto da alcun fumetto, sebbene sia uscito, in contemporanea, un albo promozionale allegato alla Gazzetta dello Sport e scritto da Roberto Recchioni) e per più motivi. Il primo, è che non ne ha semplicemente bisogno: scritto, diretto e interpretato meglio del novantanove percento delle pellicole "di genere" che arrivano da Oltreoceano, porta avanti non tanto una trasposizione romanesca del manga di Go Nagai (anche se ognuno dei personaggi principali trova il suo corrispettivo in uno di quelli del Jeeg originale), nè tantomeno un'operazione nostalgia (a quelle minaccia di pensarci, ahimè, Fausto Brizzi nel venturo Forever Young). Il secondo è che Gabriele Mainetti, quarantenne regista, attore e- quasi a perseguire l'ideale della tradizione carpenteriana -compositore di colonne sonore dei propri film, porta avanti da anni la sua idea di cinema senza curarsi di fare sfacelli o di mettere in pericolo budget stellari. E se in Basette (2008), Mastandrea diventava Lupin, stavolta, Santamaria diventa Jeeg; se in Tiger Boy (2012) l'ago e il filo del piccolo Simone Santini tessevano la maschera del wrestler "Er Tigre", stavolta ci pensa la schizofrenica Alessia (Ilenia Pastorelli) a creare, a maglia, il buffo travestimento del supereroe che lei per prima ha riconosciuto nel criminale Enzo.
Un cinema neorealista di maschere, travestimenti e omaggi, quello di Mainetti, che porta a casa una pellicola encomiabile da tutti i punti di vista e che non prende niente in prestito niente e al massimo fa tesoro di alcune regole d'oro (non ultima, quella che per un supereroe che si rispetti, ci vuole un grande antagonista). Divertente, ma anche terribilmente crudo e drammatico, Lo chiamavano Jeeg Robot è al suo terzo weekend di programmazione, ha già recuperato il milione e settecentomila che è costato alla RAI e alla Goons Film dello stesso Mainetti e già si parla del seguito, richiesto a gran voce perfino in quei riscontri di critica e pubblico che nulla hanno da invidiare ai grandi autori più anziani della scuola romana (Moretti, Sorrentino, Sollima, Rosi). Uno dei più bei film degli ultimi tempi.

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