sabato 12 marzo 2016

Di quella volta che disegnai Keith Emerson (R.I.P.) [Extra]


Nella primavera del 2007 disegnai quattro pagine (e un frontespizio) di un delirante fumetto intitolato Il teatro del Cardinale Richelieu o la descoverta dell'omertà. Il soggetto e i testi, per una volta, non erano miei e dunque il rischio di venire accusato dell'assunzione di avanguardistiche sostanze psicotrope poteva considerarsi scongiurato. 
Il primo ascolto...
La trama era semplice: Richelieu, violento cardinale di una comunità montana e appassionato di teatro, decide di tirar su uno spettacolo e indice delle audizioni. Accorrono persone di ogni credo, razza e colore e, alla fine, arriva La Morte, che beve un tè col cardinale e promette di raccontargli una storia. Una storia che neanche noi ci preoccupammo mai di inventare: Il teatro del Cardinale Richelieu morì al suo primo episodio.
Mi è tornato alla mente oggi, leggendo del presunto suicidio di Keith Emerson, che in quel fumetto era il primo degli aspiranti attori a partecipare all'audizione. Fu divertente farlo passare come il classico virtuoso progressive sborone e pieno di sè. Era un anno in cui, almeno io, stavo abbandonando del tutto l'ascolto di ELP, King Crimson, Yes, Pink Floyd e Van Der Graaf Generator e il lancio di quel "pantagruelico syntetizzatore" sulla testa del povero Keith voleva essere la metafora di un ulteriore passo in avanti nell'accrescimento della propria cultura musicale. 
Keith Emerson con Marco Masini,
uno dei punti più bassi nella carriera del tastierista inglese.
Che poi a me gli ELP piacevano sì, ma non tanto quanto altre band acronimate (CSNY, per dirne una), nè al pari dei Crimson o dei Van Der Graaf. Avevo Pictures At An Exhibition (comprato tempo prima assieme al Made In Japan dei Deep Purple, entrambi in super-economica) e me lo facevo bastare, ma su una cosa non c'erano dubbi: Keith Emerson era il Dio del rock progressivo. Perchè era un tastierista e nell'immaginario colletivo gli strumenti da tastiera erano il fulcro, il nucleo attorno a cui il progressive era sbocciato e si era ramificato. E perchè mentre sui grandi chitarristi o sui grandi cantanti progressive potevano sorgere discussioni infinite e odiose preferenze,  sui grandi tastieristi non succedeva: Keith Emerson era in partenza il più grande di tutti. Lo era stato con i Nice (la prima e la migliore band con cui egli abbia mai suonato), lo era stato con gli ELP e avrebbe continuato ad esserlo anche da solo, perfino negli studi di RAI 1, dove nel gennaio 2013, ospite a I migliori anni di Carlo Conti, ebbi modo di vederlo live l'ultima volta, dapprima alle prese con una Honky Tonk Train Blues tiepiduccia e infine raggiunto, on stage, da Marco Masini. Brutti momenti per un virtuoso che ha composto alcune delle migliori musiche che la razza umana sia mai riuscita a creare e che negli ultimi anni ha tirato fuori nuove perle, rimaste comunque debitamente nascoste. 
... e l'ultimo ascolto.
Il progetto Three Fates (portato avanti con Marc Bonilla e Terje Mikkelsen), che ha visto luce su etichetta Edel Records quattro anni fa, ha rappresentato l'ultima occasione in cui ho avuto modo di sentire nuovo materiale a firma Keith Emerson. Musica suprema, in tutto e per tutto, tanto vicina agli antichi fasti progressive quanto felicemente aperta al benefico influsso del jazz, magistralmente suonato con quel "pantagruelico syntetizzatore" che gli avevamo scaraventato in testa anni prima.


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