martedì 22 marzo 2016

Ave, Cesare! [Recensione]

Bizzarro destino quello del cinema dei fratelli Coen.
Prolifici sin dagli albori della loro carriera e strenui difensori della teoria di Raymond Chandler secondo cui "tutta l'arte di qualità è intrattenimento", hanno dovuto attendere cinque, sei film prima che qualcuno davvero notasse il loro smisurato talento di sceneggiatori, montatori e registi.
Analogamente a John Ford, Orson Welles, Stanley Kubrick, Robert Altman o Clint Eastwood, i Coen hanno sempre saputo fare cinema di qualsiasi genere, con qualsiasi mezzo e budget fosse messo loro a disposizione. Eppure, fino agli anni Duemila in pochi, specie in patria, si sono degnati di trattarli al pari dei giganti sovracitati. Ma ai Coen tutto questo non interessa. Per loro, il mondo (e dunque anche il Cinema) è soltanto un caos venato di misteri e ironie e la grande macchina cinematografica è solo una piccola parte di esso. Una macchina che può anche fare soldi, ma che, innanzi tutto, deve produrre pellicole.
C'è da meravigliarsi che il film dei Coen che ha incassato di più sia (solo) un remake (Il Grinta) e che nel nostro paese vengano ancora considerati poco più che registi di genere (action, thriller o black comedy). Del resto, all'infuori di capolavori come Il grande LebowskiFargo o Non è un paese per vecchi, ben poche altre sono le loro opere ad avere assurto al rango di cult movies. Mister Hula Hoop, Prima ti sposo e poi ti rovino e il recente A proposito di Davis potrebbero passare in prima serata in tv senza che nessuno li noti, eppure sono film dei fratelli Coen, e allo stesso modo Burn After Reading, Crocevia della morte, Fratello, dove sei?, Arizona Junior e L'uomo che non c'era (uno dei preferiti di chi scrive). 
Il punto del nuovo Ave, Cesare!- già flop clamoroso in USA -è che non si pone soltanto come una minuziosa ricostruzione di ciò che succedeva negli studios MGM o Warner di West Hollywood negli anni '50 e dei film che vi venivano girati, ma come un secondo atto di Barton Fink, ambientato però nel cuore pulsante e dorato dell'industria cinematografica. Cosa resterà di questo 1951 fatto di star viziate, peplum che ricordano Quo Vadis? o La tunica (forse più La tunica, a pensarci bene), musical marinareschi (il film a cui lavora Channing Tatum è ispirato a Un giorno a New York) e pure sottomarini (la Johansson ci regala la sua Figlia di Nettuno), western di seconda categoria e sceneggiatori comunisti che- per quanto imbranati come rapitori-hanno già compreso il legame tra ideologia e capitale?
Come in Arizona Junior e diversamente da Il grande Lebowski, la figura della vittima degli eventi (lo schlimazel, secondo il teatro yiddish) subisce il rapimento in vista di un riscatto. La superstar Baird Whitlock (Clooney)- l'ennesimo idiota dell'universo coeniano -diviene, parimenti ai film che interpreta, materia di scambio, di commercio. In Ave, Cesare! il denaro torna a umiliare l'etica, insinuandosi perfino dentro all'ideologia: un'idea che da sempre sta alla base sia delle storie dei fratelli Coen che di certi sistemi economici e sociali. Ma stavolta non c'è un "Drugo" Lebowski che attraversa questa realtà cinica con quel fare zen, pacato, leggero, positivo utile a decostruire, uno ad uno, i miti americani (in Ave, Cesare! tocca al mito di Hollywood). Al massimo, l'unico che davvero sembra capirci qualcosa è il grande Eddie Mannix (Josh Brolin), un produttore esecutivo ben inserito nel sistema ma molto diverso dai bizzosi attoroni a cui deve fare da balia. Alla stregua del Llewylin Moss (sempre interpretato da Brolin) di Non è un paese per vecchi, Mannix, superbo ibrido di differenti stereotipi hollywoodiani in questa nuova commedia sfacciata e sarcastica , si rivela il solo a cogliere l'impossibilità di uscire dallo stato delle cose controllando il proprio destino e quello degli altri. E che non esiste una regia dell'esistenza. Neanche se si lavora ad Hollywood.

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