sabato 19 settembre 2015

Keith Richards, "Crosseyed Heart" [Suggestioni uditive]

Keith Richards,
Crosseyed Heart
(Universal Music, 2015)
★★★½














Quando i Rolling Stones si sciolsero a metà anni Ottanta, Keith Richards dette la colpa ai suoni "sintetici" di Dirty Work e al fatto che Mick Jagger andasse "troppe volte in discoteca". Dal canto suo, Jagger affermò che gli Stones erano ormai "una palla al piede" e rischiavano di ostacolare la sua fulgida carriera solista (i cui frutti, chissà come, erano in tutto e per tutto identici ai dischi sfornati dalla band dal 1979 in poi). Il principe e il pirata, la popstar viziata da una parte e il chitarrista tossico dall'altra: immagini e luoghi comuni che sono sopravvissuti fino ad oggi e su cui il pubblico più facilone si è sempre diviso. Ma del resto la storia è stata più o meno quella: Jagger avviò una carriera parallela di grande successo, riempiendo stadi e piazzando singoli nelle più elevate posizioni della classifica e video in heavy rotation su MTV (e, soprattutto, continuando a suonare parecchi classici dei Rolling Stones), mentre Richards "si limitò" ad assemblare una band di grandi musicisti, a darle il nome di X-Pensive Winos e a incidere un eccellente esordio recante il titolo Talk Is Cheap (1988). Seguì un tour da cui sarebbe stato tratto l'ottimo e introvabile Live At The Hollywood Palladium (1991) e un secondo, scialbo disco chiamato Main Offender (1992) e registrato con un'altra band, i Wingless Angels.
Il punto è: quanto vale Keith Richards come cantante e autore completo? Secondo me, moltissimo. La sua carriera al di fuori della band è stata strampalata e discontinua, ma di tutt'altra caratura rispetto a quella dei compagni. Chi ama le canzoni dei Rolling Stones cantate da lui e le sue collaborazioni esterne (Pay, Pack And Follow, l'album di John Phillips dove Keef suona, canta e produce, è un capolavoro), ama per forza ciò che ha sfornato come solista, almeno coi Winos.
Crosseyed Heart arriva a ventitrè anni dall'opera solista precedente e a ben dieci da A Bigger Bang degli Stones. E' molto diverso dal pregevole Talk Is Cheap: più maturo, più commovente e, a momenti, perfino più cinico, ma- nell'essenza globale -niente affatto diverso dalle grandi canzoni di Keith (You Got The Silver, Happy, Before They Make You Run o T&A). Il  brano che dà il titolo all'album è un breve frammento acustico messo in apertura, pieno di quel dolore e di quel disappunto che gli Stones hanno irrimediabilmente perso nella loro versione post-muro di Berlino. Heartstopper scivola via, facile facile, mentre Amnesia, con quel riff che ricorda un po'Complicated Shadows di Elvis Costello, non ha bisogno di verbosità, suoni roboanti e cripticità contenutistiche. Robbed Blind è la chicca del disco, una delle canzoni più belle che Keith Richards abbia mai scritto: anzi, a livello di ballad, è in assoluto la migliore. Una riflessione matura sull'essenza lirica del country, un altro assaggio di quell'immaginario album che il chitarrista degli Stones sognava di incidere con Gram Parsons e che solo l'eroina potè ostacolare.
Il singolo di lancio, Trouble, trova posto come quinta traccia del disco ed è sostanzialmente bruttino. Lo stesso non si può dire di Love Overdue, cover di una vecchia hit reggae firmata da Gregory Isaacs, e di Nothing On Me, efficace e radiofonica. Suspicious è un lento che convince dalla prima nota e dal primo verso, la voce di Keith si fa profonda e delicata, come quella del miglior Tom Waits. Un altro ruggito inaspettato è Blues In The Morning, dove il sax del compianto Bobby Keys, la batteria da garage di Steve Jordan e il martellante piano di Ivan Neville creano un fantastico connubio di nervi, sangue e fuoco. Insopportabile- come i coretti che la introducono -è invece Something For Nothing. Nella pregevole Illusion le spazzole di Jordan e la voce di Norah Jones disegnano un'atmosfera notturna di grande fascino e la canzone risulta una delle migliori di tutto il disco. Just A Gift è un'altra ballata, rovinata però da troppe sovrincisioni e dai soliti, maledetti cori, mentre Goodnight Irene (estrapolata dalle liriche di Leadbelly e incisa pure da Mississippi John Hurt, uno dei miti di Keith) è un capolavoro asciutto, un racconto del mondo che fu. Sarebbe stata la chiusura perfetta, ma Crosseyed Heart non finisce così. Substantial Damage rispolvera stili più elettrici e aggressivi e infine ci conduce a Lover's Plea, nenia malinconica e disincantata.
Al contrario delle due vecchie prove soliste di Keef, Crosseyed Heart somiglia ad un album di appunti istantanei raccolti in un ampio lasso di tempo e messi in ordine solo da poco. Queste quindici canzoni sono belle o ignobili prese una ad una, ma ascoltate in sequenza vanno a comporre l'autentico codice genetico di Keith Richards, che qua, prima del rock, canta i sentimenti. E li canta consapevole dell'autorevolezza delle rughe che gli solcano il viso, visto che a ognuna di esse corrisponde un'esperienza (musicale, oltre che umana) da tramandare ai posteri, ai quali consegna quella che, pur non essendo la sua migliore prova solista, suona in maniera vincente. Crosseyed Heart è divertente e spontaneo, leggero e romantico, ben suonato e ben prodotto. Non risente delle ingiurie degli anni, specie nelle ballads, e ha perfino un punto in comune coi dischi dei Rolling Stones degli ultimi venti anni: troppe canzoni.
Insomma, si possono esaltare certi brani e denigrarne altri, ma il problema resta lo stesso: dovremmo iniziare a preoccuparci di che razza di mondo lasceremo a Keith Richards.

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