martedì 13 maggio 2014

[Recensione] La sedia della felicità

Carlo Mazzacurati se ne è andato il 22 gennaio, nella sua Padova. Ho avuto il piacere di conoscerlo, Mazzacurati: insieme a Roger Corman è l'unico regista famoso a cui ho stretto la mano. L'occasione si presentò nell'inverno del 2007, quando al Politeama di Poggibonsi presentarono La giusta distanza, uno dei suoi film più tragici e belli. Nel piccolo buffet che seguì la proiezione ebbi modo di presentarmi e, non sapendo mai cosa dire in questi momenti, mi limitai ad un <<Maestro, complimenti davvero... e grazie per Il toro!>>. Sorrise e tornò al suo piattino di crostini. Un paio di anni dopo, era di nuovo da queste parti per girare La passione. Alcuni compaesani finirono anche fra le comparse, e forse anche per questo motivo il film ebbe un buon successo, almeno nelle mie zone: corremmo a vederlo, ma a me piacque meno di altri. L'ho un po' rivalutato di recente, riguardandolo al suo primo passaggio in televisione, senza sapere che di lì a pochi mesi sarei andato a vedere l'ultimo film di Mazzacurati, perlopiù uscito postumo.
Di ritorno nella sua terra d'origine, quella che più di altre ha fatto grande il suo cinema, il regista padovano abbraccia di nuovo la provincia veneta (il film è ambientato nella desolata periferia di Jesolo), dove la carcerata malavitosa Norma Pecche (Katia Ricciarelli) muore confessando a Bruna (Ragonese), la ragazza che viene a farle le unghie in carcere, che in una sedia a forma di elefante ha nascosto un tesoro. La caccia ha inizio: la giovane estetista sogna di poter pagare i propri debiti, e coinvolge il proprio "vicino di attività" (i due lavorano in un desolante centro commerciale del luogo), il tatuatore svampito e in via di divorzio Dino (Mastandrea). Sulle tracce della sedia della felicità troviamo anche Padre Weiner (Battiston), l'avido parroco del carcere indebitato fino al collo a causa del vizio del videopoker. Le ricerche faranno incontrare ai tre i personaggi più incredibili (gemelli giocatori di ping pong, maghi che si esibiscono a convention di gelatai, eccentriche medium, pescivendoli che collezionano sedie, orsi, cinghiali, montanari dalle ambizioni pittoriche, ristoratori cinesi), nel corso di un'avventura divertente e caustica (come tutte le commedie di Mazzacurati) che dalla Laguna risale su fino alle Dolomiti.
Più che a leggere un "testamento", sembra di trovarsi al cospetto di un riuscito compendio professionale e umano di un autore sempre adombrato da colleghi considerati meno "provinciali"; vediamo scorrere di fronte ai nostri occhi i suoi attori più iconici (Albanese, Orlando, Bentivoglio, Ricciarelli, Vukotic, Balasso, Cremona, Marzocca, Citran, ecc.), tutti eccezionali, tutti perfetti nei loro ruoli, ognuno dei quali protagonista di una microstoria ulteriore. Il nordest di Mazzacurati finisce quasi col somigliare ad un Twin Peaks nostrano (la suora nana basta e avanza a ricordarcelo), popolato di quella umanità variegata e tenera, amara e anche un po' assurda. Il finale si tinge dei toni della fiaba popolare (l'orso e il prete che giocano a carte), l'immagine della Ragonese a cavallo del ciuco appartiene maggiormente ad un'iconografia da processione rionale che non ai grandi affreschi delle cattedrali cittadine. Dipingendo questo microcosmo che ha ormai dovuto rinunciare al proprio status di isola del benessere, Mazzacurati gira fondamentalmente una commedia sul destino, o meglio ancora sulla fortuna: la messa è finita, il prete gioca d'azzardo, le pensionate grattano molto e vincono poco, e anche per gli eterni Peter Pan è giunta l'ora di pagare le tasse. Il senso di incertezza cresce e le ambizioni calano, ma non per questo la felicità viene meno. Come succedeva già ne La lingua del santo, i personaggi di Mazzacurati somigliano alla sua idea di cinema: sono piccoli losers dal cuore grande, protagonisti stellari di una commedia italiana di alto livello, che non ha mai avuto bisogno di finire con una pizzata in compagnia a base di Birra Moretti o di fare pubblicità agli ultimi modelli automobilistici maggiormente di moda. Un film che nella sua rinuncia al "culo di fuori" manifesta una superiorità indiscutibile.

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