Apex Predator- Easy Meat
(Century Media, 2015)
★★★½
I Napalm Death hanno sempre scritto più canzoni di quelle che il mercato poteva assorbire, ma finchè i dischi contenevano una buona selezione di quanto di meglio la band inglese stesse producendo in quel momento, non c'erano recriminazioni da parte di critica e pubblico. Però, a partire da Inside The Torn Apart (1997), per un bel pezzo, i conti non sono più tornati. Una volta che il gruppo presentava dal vivo pezzi intensi e sanguinari, il disco che usciva di lì a poco cominciava a sembrare poca roba, neanche paragonabile alla carneficina grindcore degli anni Ottanta e alle contaminazioni death e industrial degli anni Novanta. Ci sono voluti un cambio di etichetta (dalla Earache alla Century Media) e l'egida dell'illuminato produttore Russ Russell per riportare i Napalm Death a degli ottimi livelli, e tutto ciò che è venuto da The Code Is Red... Long Live The Code (2005) in poi non somiglia più all'equivalente culturale di una scarica di elettricità statica e non c'è niente a giro a cui paragonarlo.
Il sedicesimo album dei Napalm, Apex Predator- Easy Meat, non fa parte di alcuna tendenza del momento ricollegabile al grindcore. Gli Impaled, i Brutal Truth, gli Aborted o i Carcass pensano a soddisfare pubblico e critica, ma i risultati sono magri. I Napalm Death lavorano nell'oscurità, tengono le cose nascoste e se ne saltano fuori, a neanche tre anni dal precedente Utilitarian, con quattordici canzoni che rappresentano la cerimonia di questa oscurità, una conversazione desolata, di poche parole, fra Mark Greenway e lo Spirito della Carne, condotta sull'orlo della fine del tempo. Non è un materiale per un tour mondiale di genere, ma un lavoro purissimo, dove non è sopravvissuto alcuno strascico di influenza groove o death. Ogni canzone corre veloce dall'inizio ala fine, la produzione è lineare, diretta, senza sbavature. La title-track funge da intro perfetto all'universo nichilista descritto dai Napalm: un cosmo regolato da fondamentalismi e schiavitù, urla e distorsioni, fruste e alberi spogli che affondano le radici in discariche abusive, una tribù post-apocalittica che canta in coro. Tutta roba a cui ci hanno abituato sin dai tempi di Scum (1987) e che negli ultimi tre, quattro dischi hanno saputo tratteggiare con incredibile minuzia di particolari. Smash A Single Digit (disponibile, su YouTube, il video) è una fucilata allo stomaco di un minuto e mezzo. How The Years Condemn è un'invocazione per far concludere le invocazioni. Se negli anni Ottanta fu proprio Scum ad annunciare, nel mondo del metal, la morte dell'Anima oltre a quella della Carne, oggi i Napalm Death ribadiscono che lo Spirito di entrambe è morto mille altre volte e mille altre volte è rinato, e che ogni sua scomparsa è una catastrofe a sè stante. I testi di tutto Apex Predator somigliano a uno di quei sogni in cui si vorrebbe fuggire e le gambe non si muovono. L'incomprensione del mondo coincide con l'ostilità di un determinato sistema, e sta solo all'ascoltatore decidere se i fantasmi del passato riaffiorano casualmente o sono frutto di un preciso piano della società odierna. Anche se, come dimostra beffardamente la bellissima conclusione di Adversarial/ Copulating Snakes, nessun male di quelli che incombono sul presente verrà spazzato via.
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