Sa cucinarlo bene perchè lo ha visto fare molte volte, sa con che tipo di carne ha a che fare, conosce le spezie e gli altri ingredienti con cui rendere questa ricetta eccezionalmente buona e sfiziosa. Però sa anche un'altra cosa: che prima di aggiungere tutte queste cose, il cinghiale va fatto marinare. Altrimenti saprebbe di merda.
Il cattivo cinema, al contrario della buona cucina, è povero di nonne attente e doviziose che conoscono bene le basi di ciò che portano in tavola. Ed è questo il motivo per cui secondo me Stuart Deattie, sceneggiatore australiano da poco passato alla regia, non ha mai visto un film sul personaggio di Frankenstein. Forse ha letto del personaggio, ma- badate bene -nemmeno nel romanzo di Mary Shelley (a leggerlo, quel libro, ci pensò il buon Kenneth Branagh nel 1994), bensì in un fumetto di tale Kevin Grevioux. Così, con l'aiuto dei produttori di Underworld (altra saga-stronzata che ai suoi tempi poteva arricchire, al massimo, qualche cenciaio fiorentino a cui avanzavano metri di pelle nera), va in porto questa ennesima versione cinematografica sul Prometeo Moderno. Peccato che in questo ridicolo action-fanta-horror ogni scena non sia nè moderna, nè tantomeno post-moderna (anche se uno degli intenti, vista l'ambientazione, vorrebbe essere quello), ma solo desolante. Il fatto poi che I, Frankenstein sia ridicolo, stupidamente scritto, mal recitato (Aaron Eckhart in primis è un cane) e assolutamente caciarone è soltanto un surplus. Tutto deve somigliare ormai per forza ai cinefumetti, ma dobbiamo avere la consapevolezza che, con simili premesse, il cinema di intrattenimento non andrà da nessuna parte: già Stephen Sommers con l'orrendo Van Helsing aveva dimostrato di non essere in grado di fare niente, nè un buon action-movie, nè un buon fantasy, nè tantomeno un buon film horror. E anche questo Deattie non è che sia messo tanto meglio in quanto ad idee: I, Frankenstein non ha lati positivi. E' soltanto un dimenticabile blockbusterone dove esplode tutto e che dopo venti minuti rompe i coglioni.
Però la società civile mi ricorda che molto probabilmente questo senso di noia è un mio problema: d'altronde, sono io quello che ancora si sente dire, con un velato disprezzo, <<A te piacciono i film lenti>>.
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