Pochi film usciti negli ultimi tempi possono fare affidamento su un soggetto interessante come quello offerto da Stephen Amidon col suo romanzo Il capitale umano (Mondadori, 2008). Anche "adattando" la trama e l'azione alla Brianza bigotta, razzista e spietatamente ricca (ma meno ricca di una volta), le idee e i contenuti rimangono gli stessi. Un fuoristrada investe un ciclista, e attorno a questo spiacevole incidente si costruiscono- scandite in "capitoli" e andando a ritroso -le vicende di due famiglie, quella aristocratica dei Bernaschi e quella medio-borghese e rampicante degli Ossola: il nucleo della prima è composto dallo speculatore Giovanni (Gifuni), dalla accomodante e "accomodata" moglie Carla (Bruni Tedeschi) e dallo stupido figlio liceale Massimiliano (Pinelli), quello della seconda dall'immobiliarista in rovina Dino (Bentivoglio), dalla sua seconda moglie Roberta (Golino) e dalla sensibile figlia Serena (Gioli), a sua volta legata al Bernaschi Junior.
Peccato che Paolo Virzì sia un mediocre in un mondo di pessimi, perchè da un soggetto simile ci si poteva davvero tirare fuori un gran buon film. Peccato anche che gli attori italiani non ce la facciano: vero che non siamo in un film di Neri Parenti (Gifuni, Bentivoglio, l'esordiente Gioli e il ritrovato Gigio Alberti sono veramente la forza del film), ma le interpretazione della Golino, di Lo Cascio e della Bruni Tedeschi abbassano notevolmente la qualità della pellicola e i toni del dramma (la scena di sesso fra la signora Bernaschi e il romantico professorino di provincia farà rimpiangere la mitica accoppiata Moretti-Ferrari in Caos calmo). A questo proposito, so che sto per scrivere una banalità, ma la scrivo ugualmente: basta con questi attorucoli da due soldi che arrivano dalla televisione e si portano dietro le incapacità che comporta il fare televisione oggi. Certo, anche negli anni '60 succedeva, ma Tognazzi e Volontè non venivano dalla casa del Grande fratello, ma da una televisione diversa e d'avanguardia, perchè questo era la RAI di allora.
Il finale morbido, bipartisan e piacevole è la riprova che in Italia nessuno ormai riesca a fare un cinema popolare che non sia anche un cinema populista (peccato, perchè il quartetto La bella vita, Ferie d'agosto, Ovosodo e Baci e abbracci con cui il regista livornese aveva aperto la carriera lasciava ben sperare), e che la critica pura e velenosa verso chi ha il potere (e il personaggio di Giovanni Bernaschi, una merda d'uomo che "ha scommesso sulla rovina di questo paese e ha vinto"- per citare un dialogo del film -, è uno di quelli verso cui indirizzare critiche molto precise) non va di moda. Una regia generalmente di poco gusto e pensata più per la televisione che per il cinema testimonia come il cinema di Virzì sia al servizio di produzioni incapaci di dare al film perfino un ottimo apparato tecnico. <<Tanto chi se ne frega?>>, dicono loro. <<Il 70% degli spettatori sono persi fra le cazzate del mondo, a comprare macchine e telefonini e al cinema ci vanno solo il pomeriggio di Natale. Il 30% restante che va a vederlo tanto è formato dai soliti quattro o cinque comunisti di merda...>>.
Insomma, caro Virzì, hai una casa di produzione, hai i soldi, trombi (?) la Ramazzotti, perchè non lasci questi ottimi soggetti in mano a chi ha un po' più spina dorsale di te nel mostrare certe terribili verità dell'Italietta di oggi? Verità che, alla fine, non sono nulla di nuovo rispetto a ciò che il grande Lucio Fulci (un vero regista e un maestro) mostrava, col sorriso, già nel lontano 1975 in Il cav. Costante Nicosia demoniaco ovvero: Dracula in Brianza.
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