IL GIGLIO INFRANTO
Capitolo III
Julian
era al primo giorno di scuola estiva. Questa era ubicata in un
palazzo che sorgeva molto vicino alla Sinagoga di Firenze. “Che
strano... Nonna odiava gli ebrei- pensò -e vado a scuola vicino alla
sinagoga...”. La professoressa Franca Saracini era nata a Rignano
sull'Arno e si era trasferita a Firenze ai tempi dell'università,
che aveva concluso a venticinque anni con una laurea sul Paradise
Lost di Milton (correvano voci
secondo le quali ella lo sapeva a memoria in lingua originale). Ora
di anni ne aveva cinquantacinque, e buona parte di questi l'aveva
spesa in Gran Bretagna, ad insegnare italiano nella fredda Newcastle.
Odiava l'America e gli americani, con la loro lingua e la loro
cultura, e qualsiasi cosa arrivasse dagli USA; tuttavia, in quella
calda mattina di fine giugno, non sembrò particolarmente infastidita
dal pesante accento dell'Iowa di Julian. Lo invitò a sedersi e gli
offrì del caffè (espresso, ovviamente); il giovane rimase stupito
da due aspetti in quella conversazione: l'inglese della Saracini era
praticamente perfetto e la professoressa stava fumando, proprio
davanti a lui, una lunga sigaretta (dalle sue parti fumare era
considerato un vizio “da vecchi”, e quella donna non era poi
chissà quanto vecchia). Gli fu spiegato che, per meglio integrarsi
con gli altri compagni, avrebbe iniziato la lezione rispondendo ad
una serie di domande poste dagli stessi coetanei, riuniti tutti in
cerchio dentro l'aula.
Un
quarto d'ora più tardi Julian Grant era sempre seduto, circondato
stavolta da adolescenti come lui, di età compresa fra i quindici e i
diciotto anni. Sudava molto, ma, almeno a giudicare dall'odore che
aleggiava in classe, non era l'unico. Ripassò mentalmente, in
maniera veloce, il conciso discorso della professoressa: “Ognuno di
loro ha preparato una domanda da farmi; bene, cercherò di rispondere
a tutti...”. Indossava una t-shirt e orrende scarpe da ginnastica
che magari dalle sue parti erano anche giudicate eleganti. Pregò che
non sorgessero problemi per la lingua, anche se gli era stato
assicurato che a quella sede solo i migliori allievi di lingua
inglese della città potevano avere accesso. La prima domanda fu
posta da una quindicenne quattrocchi, brufolosa e con un seno enorme:
-Nel tuo carattere qual'è il
tratto fondamentale?- al che Julian si grattò una tempia col dito
indice della mano destra, capendo perfettamente il quesito e
rendendosi conto che non era semplicemente una micro-intervista
scolastica, ma qualcosa di ben più profondo. Deglutì e rispose:
-Una mescolanza di genuina
felicità e di lieve timidezza.
-Qual'è la qualità che apprezzi
di più nei maschi?- chiese appunto un ragazzo dalle labbra sporgenti
e le ascelle cariche di sudore.
-La sincerità, il senso
dell'amicizia.
-E nelle donne?- soggiunse una
rara bellezza locale.
-Non saprei...- disse indugiante,
puntando quella splendida sedicenne che lo stava tenendo inchiodato
sulla sedia-Forse il sentimento materno...-
La classe scoppiò a ridere. In
particolare le ragazze erano divertite dal fatto che l'americano
vedesse in tutte le femmine, anche nelle sue coetanee adolescenti,
una giovane madre. Julian non diventò rosso e riuscì a nascondere
il suo sottile senso del disagio dietro ad una fragorosa risata. Poi
l'intervista riprese con un: -Quale capacità vorresti avere?-.
-Quella di scoprire se davvero
siamo soli nell'universo o se Dio ha creato anche altre forme di
vita...- e stavolta nessuno rise e tutti presero appunti.
-Quale difetto, invece, ti
dispiacerebbe di più avere?-
-La bugia...l'esser bugiardo o
anche solo il diventarlo mi terrorizzano-.
-Il tuo hobby preferito?-
-La pesca-.
-Qual'è la più grande felicità
per un essere umano, secondo te?- domandò la splendida ragazzina di
prima.
-Non avere nemici- affermò
Julian Grant con una sicurezza mai uscita fuori precedentemente.
-Quale posizione vorresti
raggiungere nella vita?-
-Mi piacerebbe lavorare al
negozio di tagliaerba di mio zio Blake, poco fuori Des Moines...- e
chissà cosa pensarono, nell'udire questa semplice aspettativa, quei
giovani italiani con la testa che era solo in grado di recitare
parole come “Liceo”, “Università”, “Specialistica”,
“Carriera”, “Dottore”, “Casta”, “Massoneria”, e
compagnia bella.
-Dove vivresti più volentieri?-
-Credo nel Tennessee. Adoro
quella regione-
-Il tuo colore preferito?-
-Il giallo-
-Fiore?-
-Orchidea nera...-
-Animale?-
-Orso bruno-
-I tuoi libri preferiti?-
-Scheletri
di King, Angeli e
Demoni di Dan Brown e Meridiano
di sangue di Arthur Miller. Ah,
e la Bibbia,
ovviamente...- e nessuno volle indagare su quell' “ovviamente”.
-La musica che ascolti di più?-
-Gli Slipknot. Sono dell'Iowa
anche loro, sapete?- ma nessuno rispose, neanche un giovanotto
grassoccio che non aveva fatto domande e che indossava proprio una
felpa del celebre gruppo di Des Moines.
-Quale scrittore americano ami di
più?
-Hemingway-
-Quale figura storica stimi di
più?-
-Lincoln e Gesù Cristo...-
-Quale figura storica disprezzi
di più?-
-Io non disprezzo nessuno-
-Il nome che preferisci?-
-Margareth-
-Qual'è il difetto che tolleri
di più?-
-Il razzismo- rispose Julian
tranquillamente. Una ragazza mulatta dette un sordo colpo di tosse e
tutti gli alunni si lanciarono veloci ma eloquenti occhiate; tuttavia
la micro-intervista proseguì.
-Il tuo piatto e la tua bevanda
preferiti?
-Pesce di lago e coca alla
vaniglia.-
-La stagione che preferisci?-
-L'autunno, o meglio l'inizio
dell'autunno.-
-L'ultima domanda: qual'è il tuo
motto?-
Julian si asciugò il sudore
sulla fronte passandoci sopra la mano per ben due volte, poi rispose
con un lungo sorriso:
-Show must go on!-
-Bene, abbiamo finito- esclamò
la Saracini scattando in piedi. La professoressa era rimasta in
disparte a leggere un quotidiano per tutta la durata dell'intervista.
Si complimentò sbrigativamente con i suoi alunni e porse a Julian
Grant un orario delle lezioni che avrebbe seguito per il resto del
mese. Il giovane buttò un'occhiata veloce al foglio, ma il suo
sguardo era indirizzato in realtà verso la ragazza che tanto lo
aveva messo in imbarazzo con quella domanda sull'universo femminile.
La vide uscire dall'aula con una borsa celeste a tracolla, e fu in
quel momento che giurò a se stesso che non avrebbe mai lasciato
Firenze senza averla avuta.
Kurt
Breckt era consapevole di essere completamente ubriaco. E la cosa non
gli dispiaceva affatto. Barcollava nel tentativo di camminare, un po’
reggendosi alla spalla sinuosa della sua ragazza, un po’ reggendola
a sua volta, visto che la bionda e procace Angela non era meno ebbra
di lui. Aveva perso il conto di quello che avevano bevuto dopo il
terzo Long Island e in quel momento non aveva una chiara percezione
di ciò che gli stava davanti.
Lui
e Angela erano arrivati da Amburgo due giorni prima e, per essere due
fidanzati ventiduenni alla loro prima vacanza all’estero in coppia,
fino a quel momento si erano comportati abbastanza bene. Ma quella
sera, dopo essere usciti con un gruppo di tedeschi in vacanza come
loro, avevano leggermente esagerato. Mentre rideva sguaiatamente e
cercava di ricordare quando si erano separati dagli altri, vide,
attraverso una specie di nebbia, lui e Angela che attraversavano una
strada e passavano in mezzo ad un gruppo di alberi. Angela gli passò
le braccia intorno al collo e lo baciò con passione; lui, pur
ricambiando, con la coda dell’occhio si guardò in giro, e, tra i
fumi dell’alcool, notò, in mezzo agli alberi, un ampio spiazzo con
al centro una fontana.
Far
girare i pochi ingranaggi del suo cervello liberi dal rum e occuparsi
contemporaneamente di una ragazza ubriaca e focosa non era
esattamente semplice, ma Kurt, con la schiena appoggiata ad un
albero, alla fine riuscì a capire dov’erano finiti: i Giardini
della Fortezza da Basso. La sua geografia di Firenze non era
perfetta, ma da quanto ricordava dalle cartine, il loro albergo era
poco lontano. E visto il modo in cui Angela cercava di infilare le
mani sotto la sua camicia, era una fortuna che la distanza fosse
poca.
Accarezzando
delicatamente la guancia della ragazza le sussurrò:- Ti ho già
detto che ti amo?
-
Non serve…lo so già!- gli rispose, baciandogli languidamente il
collo.
Il
giovane accostò la bocca all’orecchio della fidanzata e sussurrò:-
Il nostro albergo è qui vicino. Mi sembra il posto migliore dove
concludere la serata…
Angela
sorrise maliziosamente:- Ottima idea!- e lo accarezzò in modo
lussurioso.
A
Kurt venne voglia di prenderla lì, all’aperto, sotto le stelle.
Tanto il parco sembrava completamente vuoto. Ma aveva sentito troppe
brutte storie sull’Italia; anche nella sbornia si ricordò del
famoso “Mostro di Firenze”, e decise che, con un letto a poche
centinaia di metri, non valeva la pena di correre il rischio. Ma
prima di dirigersi verso l’albergo, c’era una piccola questione
da sistemare: era impossibile bere quanto lui quella sera senza
pagare un piccolo prezzo.
-
Dammi un minuto, piccola.- disse – Devo…beh, devo cambiare
l’acqua al canarino!
Angela
rise:- Sbrigati! E non maltrattarlo, stasera mi sento animalista!
Ridendo
a sua volta, Kurt si addentrò nel boschetto; dopo pochi passi, sparì
nell’oscurità.
Kurt
inciampò tre o quattro volte prima di trovare un punto che gli
piacesse. Si appoggiò con la spalla sinistra ad un albero e, con una
certa fatica, si tirò giù la cerniera dei jeans. L’idea di una
Angela eccitata che lo aspettava lo spingeva a sbrigarsi, ma i suoi
canali sembravano in piena inondazione, e ci misero un bel po’ a
finire di svuotarsi.
Tra
questo, i pensieri erotici e la sbornia, nessuna parte del suo
cervello era rimasta disponibile a concentrarsi sullo scricchiolio di
rami spezzati ed erba calpestata dietro di lui. Era ancora preso dal
tentativo di richiudere la lampo quando qualcosa di grosso si stagliò
alle sue spalle nell’oscurità. Non vide una forma fendere
fulmineamente l’aria, ed aveva ancora la testa abbassata quando
questa gli venne staccata dal corpo.
Angela
si era trascinata fino ad una panchina e vi era crollata sopra;
l’eccitazione era scomparsa insieme a Kurt; si sarebbe
probabilmente riaccesa con il suo ritorno, ma per il momento era
subentrato lo sfinimento. Non si rese neanche conto di quanto tempo
il ragazzo ci stesse mettendo per fare pipì: crollò presto in un
sonno pesantissimo.
Aprì
gli occhi ancora intontita: sul momento credette che a svegliarla
fosse stato il delicato tocco di Kurt; bastò un’occhiata per
capire che non era stato il suo ragazzo. La nebbia regnava ancora
sovrana nella sua testa, e non riuscì ad identificare l’enorme
forma irregolare che torreggiava su di lei, ma vide che si muoveva, e
che due protuberanze si erano tese dietro la sua schiena, come a
raccoglierla. La sola cosa che la sua mente riuscì a distinguere
prima di collassare furono due grandi cerchi, nella parte superiore
della figura, che nella luce della luna rilucevano dei colori
dell’arcobaleno. Poi fu solo buio.
La
gente dormiva, e non c’era nessuno in giro in quella zona, nessuno
a Firenze che sentisse l’urlo di Angela Liszt.
Julian Grant si trovava in Italia
da poco più di quarantott'ore, e già stava inseguendo una donna. Un
estro donnaiolo era risaputo essere uno dei tratti fondamentali della
famiglia Grant, tant'è che Othis B. Grant, vissuto ai tempi della
Guerra di Secessione, disertò proprio a causa della figlia di ricchi
proprietari terrieri che, fuggiti dall'Unione, ripararono a
Filadelfia; il bisnonno Louis, invece, era un incallito collezionista
di amanti, tant'è che divorziò quattro volte e riprese altrettante
mogli, di cui l'ultima a settantasei anni. Fu con l'arrivo della
nonna, Maureen Farrell, irlandese e fervente cattolica, che la
famiglia Grant subì una brusca sterzata in direzione di una certa
morale: e infatti anche i genitori di Julian erano la tipica coppia
sposata da American Dream, e a lui tutto ciò non arrecava
alcun problema; meno convinto di queste teorie patinate e cariche di
ipocrisia e falsità risultava però il fratello maggiore, William,
che appena raggiunse la maggiore età si battezzò con rito
protestante (da questo fatto derivò una delle più furiose liti che
lo stato dell'Iowa ricordi) e, nel giro di alcuni mesi, partì verso
ovest alla ricerca di donne e divertimento.
Julian
aveva in mano alcuni elementi a suo favore, il che lo rassicurava
enormemente già in partenza: la ragazza parlava un inglese
eccellente e, inoltre, si era mostrata curiosa di conoscere aspetti
lievemente più profondi del giovane rispetto agli altri compagni di
classe. Insomma, egli aveva avvertito la domanda sull'universo
femminile più come un invito ad uscire allo scoperto, a vedere di
cosa potesse essere capace nei confronti del gentil sesso.
Già
dal secondo giorno di scuola, il martedì, egli si fece trovare con
un bicchiere di caffè in mano a dare il buongiorno a quella
deliziosa ragazza, e lei rispose ogni volta con risatine, occhiolini
e lievi rotazioni degli occhi. Passarono circa dieci giorni dal loro
primo incontro, e Julian Grant già accompagnava a cena fuori Serena
Costantini. In una mail indirizzata al fratello la descrisse nel
seguente modo:
L'ho
notata appena ho messo piede nell'aula, e ti assicuro che è la più
bella ragazza che abbia mai incontrato. Ha gli occhi verdi ed i
capelli castani, ed è alta poco meno di me. Una cosa di lei che
sicuramente non ti piacerebbe è il fatto che non ha le tette grandi,
ma ti assicuro che per me, in questo momento, è l'ultimo dei
problemi.
La mail continuava con una
descrizione della città, della scuola e di altri piccole e grandi
esperienze di cui Julian era stato protagonista fino a quel momento;
ma William era troppo occupato e non poté rispondergli.
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