Leggere la rubrica posta di certe riviste di cinema rincuora e fa ben sperare nel futuro: spesso capita che a scrivere siano giovani che hanno meno di diciotto anni, liceali un po' incoscienti ma che, con tanto cuore, chiedono a redattori più competenti di loro quali manuali, libri o siti web è meglio consultare al fine di apprendere i rudimenti e le basi tecniche del mestiere del cinematografo.
Da oggi, chi risponde a queste lettere con pazienza e speranza potrà consigliare a questi giovani appassionati la visione di Tutta colpa di Freud, ultima commediola "made in Medusa" firmata Paolo Genovese. E potrà consigliarlo non di certo perchè si tratta di un buon modello, ma perchè nel futuro, per il bene di tutti, sarà importante che questi aspiranti, nuovi registi non abbiano mai voglia di girare un film simile. Perchè Genovese- mestierante le cui doti sono accostabili a quelle di Parenti e Vanzina ma convinto di raccogliere un bagaglio culturale che arriva fino alla "commedia amara" di Risi e Zurlini -insegna davvero molto con questo film: come non scrivere un film, come non dirigerne la fotografia, come non far interpretare gli attori, come non scegliere la colonna sonora (salvo, in corner, la canzone di Daniele Silvestri Nel giardino di Psiche).
La trama è orribile. Francesco (Giallini) è uno psicologo con quattro clienti: tre figlie che in tre non fanno un cervello (interpretate da Vittoria Puccini, Laura Adriani e Anna Foglietta) e Alessandro (Gassman), architetto cinquantenne che lavora in una sorta di Ikea dei poveri (la catena si chiama Ovvio, e, ahimè, esiste davvero, non è inventata e il film poteva durare quaranta minuti meno senza product-placement di cattivissimo gusto). Tutto parte da Alessandro, che da mesi si scopa Emma, la figlia diciottenne di Francesco, a sua volta innamorato di una donna col cane che solo più avanti scoprirà essere Claudia (Gerini), moglie di Alessandro. Lo psicologo non vuole che la figlia sia trombata da un 50enne in crisi di mezz'età e lo invita a fare terapia da lui. Allo stesso tempo, anche le altre due figlie più grandi danno molti problemi al padre professionista, che dal canto suo ha molto tempo libero, visto che cura solo quattro pazienti. Marta ha una libreria a Campo de'Fiori, vive in un mondo tutto suo (un mondo di merda, ma questo il film non lo dice e ce lo fa solo vedere), nessuno compra UN libro nel suo negozio, ma lei riesce comunque a pagare affitto e tasse, a fare colazione in bar che nella realtà non esistono (almeno, non in quel modo) e a potersi permettere di essere derubata da Fabio (Marchioni), un sordomuto tenebroso e affascinante che lavora al teatro dell'opera e di cui lei si innamora perdutamente. E poi la situazione più imbarazzante: quella di Sara, figlia maggiore che per i primi dieci minuti del film vive a New York, dove non si sa cosa faccia (ha trentadue anni, ma va bene così) a parte andare a giro in bicicletta e avere una "travolgente" storia lesbica con Jody (spero che l'ARCIGAY denunci la produzione per la scena della dichiarazione amorosa in metropolitana, e lo dico da persona diffidente di certe proteste talvolta un po' forzate). Poi Jody la manda in culo, Sara molla l'appartamento da barbona coi soldi (loft posto di fronte al ponte di Brooklyn, forse sub-affittato dalla figlia di Veltroni) e torna in Italia, dove decide di innamorarsi degli uomini. Ah, Sara quando si innamora starnutisce.
Basta. Anzi, no: "spoilero" (che verbo di merda, figlio del suo tempo) con orgoglio un'ultima cosa, scrivendo che il suicidio della Gerini è una delle scene di maggior cattivo gusto degli ultimi vent'anni.
A parte gli scherzi. La cosa che mi terrorizza è come un film simile non riesce, o peggio ancora non vuole rappresentare nulla che sia lontanamente reale. <<Ma siamo davvero in Italia?>>, mi sono chiesto. <<E' una città italiana, quella che vedo?>>. <<E se lo è, in che epoca siamo?>>. <<Siamo nella Terra di Mezzo?>>. <<Ma che cazzo di film escono, ragazzi?!>>. Argomenti comunque di spessore, interessanti come il mondo degli "eterni Peter Pan" vengono appiattiti; il discorso sull'identità sessuale viene ridotto ad un volgare cambio di gusti a intermittenza, manco l'amore o la sessualità siano portate del menù di qualche ristorantino romantico. E poi fosse stato un cortometraggio di quattro minuti: no, dura due ore e dieci. Tutta colpa di Freud prospetta la demenza di quel tipo di cinema italiano contemporaneo che vorrebbe essere brillante senza neanche avere i presupposti per risultare tale.
Negli ambienti dove si insegna a scrivere una sceneggiatura viene sottolineato spesso (e a ragione) che i protagonisti di una storia, dall'inizio alla fine, devono per forza compiere un percorso di cambiamento: è un presupposto obbligatorio, un assioma utile a sancire che la storia c'è, esiste e può diventare qualcosa di più (un film, un fumetto, un testo teatrale, una puntata di una sitcom, ecc.). Ma allora com'è possibile che gente come Genovese giri un film dove, a conti fatti, non succede nulla?
Basta davvero. Ormai sono andato oltre. Concludo dicendo che il cinema è saturo di Tutta colpa di Freud e compagnia bella, di film stupidi con un paio di belle tette di decoro, ricolmi di canzoncine in inglese riarrangiate da musicisti di terza categoria (ma un film dove Somewhere Over The Rainbow e What A Wonderful World sono presenti a pochi minuti di distanza, cantate da Arisa, sarà un film vedibile, secondo voi?), con Vinicio Marchioni che fa il sordomuto e riesce a fare peggio di Sean Penn ai tempi di Mi chiamo Sam, eccetera. Ormai è roba vecchia, ha fatto il suo tempo. E' un cinema stantio. Basta.
Da oggi, chi risponde a queste lettere con pazienza e speranza potrà consigliare a questi giovani appassionati la visione di Tutta colpa di Freud, ultima commediola "made in Medusa" firmata Paolo Genovese. E potrà consigliarlo non di certo perchè si tratta di un buon modello, ma perchè nel futuro, per il bene di tutti, sarà importante che questi aspiranti, nuovi registi non abbiano mai voglia di girare un film simile. Perchè Genovese- mestierante le cui doti sono accostabili a quelle di Parenti e Vanzina ma convinto di raccogliere un bagaglio culturale che arriva fino alla "commedia amara" di Risi e Zurlini -insegna davvero molto con questo film: come non scrivere un film, come non dirigerne la fotografia, come non far interpretare gli attori, come non scegliere la colonna sonora (salvo, in corner, la canzone di Daniele Silvestri Nel giardino di Psiche).
La trama è orribile. Francesco (Giallini) è uno psicologo con quattro clienti: tre figlie che in tre non fanno un cervello (interpretate da Vittoria Puccini, Laura Adriani e Anna Foglietta) e Alessandro (Gassman), architetto cinquantenne che lavora in una sorta di Ikea dei poveri (la catena si chiama Ovvio, e, ahimè, esiste davvero, non è inventata e il film poteva durare quaranta minuti meno senza product-placement di cattivissimo gusto). Tutto parte da Alessandro, che da mesi si scopa Emma, la figlia diciottenne di Francesco, a sua volta innamorato di una donna col cane che solo più avanti scoprirà essere Claudia (Gerini), moglie di Alessandro. Lo psicologo non vuole che la figlia sia trombata da un 50enne in crisi di mezz'età e lo invita a fare terapia da lui. Allo stesso tempo, anche le altre due figlie più grandi danno molti problemi al padre professionista, che dal canto suo ha molto tempo libero, visto che cura solo quattro pazienti. Marta ha una libreria a Campo de'Fiori, vive in un mondo tutto suo (un mondo di merda, ma questo il film non lo dice e ce lo fa solo vedere), nessuno compra UN libro nel suo negozio, ma lei riesce comunque a pagare affitto e tasse, a fare colazione in bar che nella realtà non esistono (almeno, non in quel modo) e a potersi permettere di essere derubata da Fabio (Marchioni), un sordomuto tenebroso e affascinante che lavora al teatro dell'opera e di cui lei si innamora perdutamente. E poi la situazione più imbarazzante: quella di Sara, figlia maggiore che per i primi dieci minuti del film vive a New York, dove non si sa cosa faccia (ha trentadue anni, ma va bene così) a parte andare a giro in bicicletta e avere una "travolgente" storia lesbica con Jody (spero che l'ARCIGAY denunci la produzione per la scena della dichiarazione amorosa in metropolitana, e lo dico da persona diffidente di certe proteste talvolta un po' forzate). Poi Jody la manda in culo, Sara molla l'appartamento da barbona coi soldi (loft posto di fronte al ponte di Brooklyn, forse sub-affittato dalla figlia di Veltroni) e torna in Italia, dove decide di innamorarsi degli uomini. Ah, Sara quando si innamora starnutisce.
Basta. Anzi, no: "spoilero" (che verbo di merda, figlio del suo tempo) con orgoglio un'ultima cosa, scrivendo che il suicidio della Gerini è una delle scene di maggior cattivo gusto degli ultimi vent'anni.
A parte gli scherzi. La cosa che mi terrorizza è come un film simile non riesce, o peggio ancora non vuole rappresentare nulla che sia lontanamente reale. <<Ma siamo davvero in Italia?>>, mi sono chiesto. <<E' una città italiana, quella che vedo?>>. <<E se lo è, in che epoca siamo?>>. <<Siamo nella Terra di Mezzo?>>. <<Ma che cazzo di film escono, ragazzi?!>>. Argomenti comunque di spessore, interessanti come il mondo degli "eterni Peter Pan" vengono appiattiti; il discorso sull'identità sessuale viene ridotto ad un volgare cambio di gusti a intermittenza, manco l'amore o la sessualità siano portate del menù di qualche ristorantino romantico. E poi fosse stato un cortometraggio di quattro minuti: no, dura due ore e dieci. Tutta colpa di Freud prospetta la demenza di quel tipo di cinema italiano contemporaneo che vorrebbe essere brillante senza neanche avere i presupposti per risultare tale.
Negli ambienti dove si insegna a scrivere una sceneggiatura viene sottolineato spesso (e a ragione) che i protagonisti di una storia, dall'inizio alla fine, devono per forza compiere un percorso di cambiamento: è un presupposto obbligatorio, un assioma utile a sancire che la storia c'è, esiste e può diventare qualcosa di più (un film, un fumetto, un testo teatrale, una puntata di una sitcom, ecc.). Ma allora com'è possibile che gente come Genovese giri un film dove, a conti fatti, non succede nulla?
Basta davvero. Ormai sono andato oltre. Concludo dicendo che il cinema è saturo di Tutta colpa di Freud e compagnia bella, di film stupidi con un paio di belle tette di decoro, ricolmi di canzoncine in inglese riarrangiate da musicisti di terza categoria (ma un film dove Somewhere Over The Rainbow e What A Wonderful World sono presenti a pochi minuti di distanza, cantate da Arisa, sarà un film vedibile, secondo voi?), con Vinicio Marchioni che fa il sordomuto e riesce a fare peggio di Sean Penn ai tempi di Mi chiamo Sam, eccetera. Ormai è roba vecchia, ha fatto il suo tempo. E' un cinema stantio. Basta.
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