Steve McQueen (nato a Londra nel 1969) è un regista britannico che non ha mai girato un film (lungometraggio) brutto. Nell'arco di appena tre anni abbiamo visto infatti due capolavori come Hunger e Shame, entrambi firmati da lui e interpretati da Michael Fassbender, ed entrambi incentrati su temi ben precisi: le forme di schiavitù, lo svilimento dell'essere umano, l'oppressione, lo sfinimento fisico (Hunger) e psicologico (Shame) della persona. E così, anche il più recente 12 anni schiavo, candidato a ben nove statuette e già vincitore del Golden Globe come migliore film drammatico, affronta gli stessi argomenti, ma da una prospettiva diversa e in maniera ben più ampia e "storica". McQueen trae il soggetto del film dal romanzo autobiografico 12 Years A Slave (1853) di Salomon Northup (Ejifor), virtuoso violinista newyorchese di colore che nel 1841 fu attirato in una trappola infernale: giunto dalla sua Saratoga a Washington come uomo libero per tenere dei concerti, fu in realtà incatenato e ridotto in schiavitù, gli venne cambiato nome e fu venduto al proprietario terriero "buono" della Louisiana William Ford (il grande Benedict Cumberbatch). Peccato però che il senso di ribellione sito nell'animo dell'uomo libero Northup fosse direttamente proporzionale all'imbecillità dei sorveglianti della tenuta in cui lavora, in particolare a quella insita nel cervello del razzista Tibeats (Paul Dano, come sempre talmente bravo nel rendersi insopportabile da essere costretto a chiudersi in casa per anni dopo l'uscita di un suo film, e chi lo ricorda nel ruolo del fanatico predicatore del Petroliere sa di cosa parlo): a quest'ultimo, infatti, fu tolta la frusta di mano dal suo stesso schiavo, che lo punì- seppur in minima dose -per le pene inflitte ai neri fino a quel momento. Graziato, per un pelo, dall'impiccagione (una delle innumerevoli scene da incubo, fra l'altro), Northup venne rivenduto allo spietato magnate del cotone Epps (un Fassbender tanto bravo nell'essere il debosciato di turno, quanto un po' troppo ancorato ad una certa "schematicità" del proprio ruolo), presso il quale passò molti anni all'insegna di qualunque privazione e di atroci punizioni corporali e morali.
Sembra un pelo che abbiamo visto una certa realtà nel Django Unchained di Tarantino, e McQueen, nel dipingere la sua tela (impressionista, come impressionisti sono quelle albe e quei tramonti sulle paludi e sulle foreste sudiste, magicamente filtrate dalla fotografia di Sean Bobbitt) offre una visione analoga a quella dell'autore di Pulp Fiction sullo schiavismo, non tanto come pagina di un manuale di storia (se vi piace questo approccio, il cinema spielberghiano ne è zipillo), quanto come un ritratto degli uomini che lo schiavismo lo hanno portato avanti e lo hanno subito. Che sia il padrone Fassbender, a sua volta schiavo della moglie gelosa, della sessualità violenta e malsana e dell'alcool, o che sia il gretto sorvegliante Dano, lo schiavista è una figura sociale stupida come un bambino che non capisce assolutamente nulla. Il razzismo viene raccontato con una crudezza e una rabbia raramente riviste in altre pellicole e viene trattato per la piaga sociale che è: i razzisti (di ieri o di oggi poco cambia) sono davvero tratteggiati- senza vergogna o sterili buonismi da film per famiglie -come dei ritardati, gente che non capisce, non "ci arriva", ma che comanda e ha il potere in un determinato periodo storico e in quello che, praticamente, era un paese diviso in due nazioni molto diverse da loro (il Nord e il Sud). E chiunque delinea la propria vita anche in base alla razza, per McQueen ma anche per chi scrive, è una persona imbecille e priva di dignità.
Alla luce della schietta sincerità che continua a impregnare tutta l'opera del regista, della straordinaria prova di attore di Chiwetel Ejiofor (in molte locandine del nostro paese, stupidamente "adombrato" dai volti giganti di Fassbender e di un grande Brad Pitt "illuminista", che compare meno di dieci minuti in tutto il film), delle magiche atmosfere sudiste che mi hanno fatto tornare in mente più Walter Hill che Quentin Tarantino, delle fredde musiche originali composte da Hans Zimmer e dei più "umani", meravigliosi canti delle piantagioni al cui ascolto ci aveva già introdotto quella "vecchia volpe" di Scorsese con The Blues- From Mali To Mississippi (2003), 12 anni schiavo è un film potente, forte, privo di pietà per chi lo interpreta e per chi lo guarda, ma con una capacità di trasmettere emozioni totalmente fuori dalla media di questa nostra epoca della solidarietà fasulla e patinata. Un film magistrale.
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