martedì 23 ottobre 2018

Greta Van Fleet, "Anthem of the Peaceful Army" [Suggestioni uditive]

Greta Van Fleet,
Anthem of the Peaceful Army
(Republic Records, 2018)

















Ho trascorso l'ultimo ferragosto a rileggere La casa degli spiriti e ad ascoltare From the Fires, l'EP di tali Greta Van Fleet. Sentendo Highway Tune ovunque, li avevo liquidati, snobbati e presi per il culo sia nella vita reale che sui social. Poi ho promesso di dare loro una seconda possibilità e per pochi spiccioli mi sono accaparrato questo dischetto tanto dibattuto, un prodotto trasversale, con una copertina accattivante e un logo studiato a tavolino per destare gli interessi sia dei fans di Stranger Things che di vecchi rockers arrocchettati nel loro piccolo mondo antico.
Costruiti attorno alla coppia voce-chitarra dei fratelli Kiszka, i Greta Van Fleet si formano nel 2012 come cover band attenta a richiamare, nell'attitudine e nel gusto, gli anni '70. Nonostante una gavetta che li ha velocemente proiettati al di fuori dal natio Michigan e, in tasca, un contratto discografico con la Republic, attraversano i primi anni di attività stentando a costruire un proprio stile e un proprio repertorio. Le canzoni arrivano, non sono molte eppure, commercialmente, funzionano. Seppur con concerti che spesso non superano i sessanta minuti, i Greta Van Fleet si imbarcano in un paio di tour e contemporaneamente pensano a un vero e proprio album di esordio, qualcosa che vada oltre l'EP con cui si sono affacciati sul mercato nel 2017. Anthem of the Peaceful Army dovrebbe rappresentare la concretizzazione di questi loro sforzi. Non è un capolavoro, né tenta di spacciarsi per tale, perché oggi, a ogni modo, la priorità dell'industria discografica è rincorrere i talent e reperire il fenomeno mediatico prima dell'artista in senso stretto. Perciò, non c'è da meravigliarsi se questo album vuol limitarsi a somigliare a un fratello cresciuto di From the Fires, ma non riesce a superare lo status di un'opera prima monocromatica e, a più riprese, insoddisfacente.
Age of Man, tanto per cominciare, sembra una sigla di un brutto anime degli anni '90. The Cold Wind, al contrario, si segnala come un mancato singolo di forte impatto, rumoroso e condito da un buon assolo di chitarra. When the Curtain Falls ci tormenta da un paio di mesi sotto varie forme, e chi non si è accorto della scopiazzatura di In the Evening farà bene a cambiare spacciatore. Watching Over riuscirebbe anche a mettere in scena un efficace dialogo fra il cantato disturbante di Joshua e la strumentazione semi-acustica adottata dalla band, ma il serpeggiante effetto sitar ricreato al computer appare parodistico e finisce col mandare tutto in vacca. Molto meglio Lover, Leaver (Taker, Believer) a questo punto: Jacob spinge sul pedale del blues, la batteria funziona e tutto il pezzo assume una sua mistica, magari unidimensionale, ma molto godibile. You're the One e The New Day emanano una gran puzza di bruciato oltre a far riflettere. Più che altro, dimostrano che se nel 2018 hai una casa discografica relativamente solida alle spalle, un buon addetto marketing e una tua canzone scelta per quella pubblicità o finita in quella serie tv, avrai comunque la strada spianata e potrai pubblicare quante canzoni di merda vuoi. Tuttavia, Anthem of the Peaceful Army ha ancora un paio di momenti medi da regalare: intanto, Mountain of the Sun, che non sarà nulla di nuovo (anzi, anche questa regala déjà vu a palate e purtroppo CSNY non c'entrano niente) ma rotola via brioso e spontaneo. In Brave New World la voce di Joshua sembra voler coprire un'imbarazzante latenza di idee e il pezzo (di cinque minuti) riporta tutto l'album verso i terreni del disastroso. Anthem è il migliore dei quadretti para-hippie che i Greta Van Fleet hanno incluso qua dentro: speriamo solo che i millenials (non c'è recensione che non parli di questa musica come del "rock per i millenials", così mi adatto), qualora dovessero gradire queste atmosfere gnomiche, corrano a fare incetta di dischi della Incredible String Band, dei Pentangle o dei Fairport Convention. L'album si chiude così, con molte canzoni opache e qualcuna francamente orrenda. Succede, quando la musica dal vivo è troppo spesso riconducibile a tribute band buone solo a sfociare nello scimmiottamento di arcaiche divinità pagane e quando l'analfabetismo musicale amplificato dalla visione dei tv-.shows e il disinteresse appiattente delle "radio ruock!1!1!" generaliste regnano incontrastati senza lasciar intravedere a chi si affaccia sul panorama musicale valide alternative.

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