mercoledì 31 gennaio 2018

Boogie senza fine di gennaio [Exra]

Benchè il 2018 sia iniziato in modalità risparmio, mi sono già scritto e ho stampato un memorandum lungo quattro pagine di dischi da comprare nell'arco dei prossimi mesi. Roba che già conosco o che vorrei conoscere, roba che non ho più, roba che mai avrei pensato di desiderare ma che stuzzica la mia curiosità. Cantautori italiani, folksinger degli Appalacchi, chansonnieres francesi, classici brasiliani, e, in maniera massiccia e assoluta, il rock. Perchè se negli ultimi due anni della mia vita gli acquisti sono stati mediamente indirizzati al jazz e alle sue mutevoli, meravigliose diramazioni, sento che nel 2018 avrò tanto bisogno di ricordare che a me piace o'rock. Crescendo, mi accorgo di sopportare sempre meno l'1-2-3-4, il tump tump tump, il tunz tunz tunz. Per carità, anche a me piacciono il sudore e le luci stroboscopiche, ma pure le storie del Delta, i testi poetici, i lunghi assolo strumentali. C'è chi gode e si diverte ascoltando ritmi e melodie fini a se stessi, mentre io mi scopro felice di sfogliare continuamente nuove pagine di un libro lungo, variegato, dal finale ancora incerto, di immergermi nell'ignoto, di notare i controtempi di basso e batteria, di comprare un determinato disco confidando in quella imprevedibilità che rende la vita un po' più simile a una bella avventura; al contrario, c'è chi vuol confrontarsi solo con ciò che inizia e finisce nello stesso modo. L'ironia della sorte sta tutta in un fatto: io a questa gente non rompo i coglioni, loro a me sì e lo fanno nelle forme più fantasiose. Capisco che la televisione e i media in generale abbiano un effetto devastante sulla cultura popolare, imponendo determinati modelli al di fuori dei quali le persone più deboli intellettualmente si sentono come escluse e vi si appiattiscono, ma gli inviti promozionali delle discoteche che intasano la mia home di Facebook meriterebbero di essere oggetto di studio in certi pesanti tomi di antropologia (sempre ammesso che già non lo siano). Il concetto più profondo che traspare a una rapida occhiata è <<Noi semo gente che ride!>>, mentre il resto è tutto un <<Porta il tuo sorriso nel locale x!>>, <<Si sboccia al club y!>>, <<Vieni a fa' banda al k!>> (quest'ultima è proprio una formula tipica delle mie zone). Lo stesso mi capita scorrendo programmi di concerti dove si susseguono formazioni alternativissime, indipendentissime e dai nomi altisonanti. Ci sono giorni in cui mi sembra che l'unica differenza in grado di intercorrere fra chi si è innamorato dell'indie e me è che chi si è innamorato dell'indie sa solo dirmi <<Non sai cosa ti perdi...>>, mentre io so benissimo cosa ho scelto di perdermi. Capisco che questi non siano tempi facili per nessuno, ma certi atteggiamenti e certi discorsi non avrebbero senso neanche come dialoghi di un film con Sasha Grey. Perciò, non vedo perchè il problema dovrei essere io, indeciso se acquistare o no l'omonimo Fleetwood Mac nell'edizione definitiva uscita il 19 gennaio. Del resto, le deluxe edition di certe opere che uno già possiede sono ormai indispensabili per vivere.
Una decina di giorni fa, scambiavo impressioni su una popolare cover-band zeppeliniana locale con uno scorbutico signore che ha 63 anni ma se ne sente addosso (e spesso li dimostra pure) 83. Andavo a ruota libera, sciorinavo nomi, cognomi, date, paragoni e ho vissuto in diretta il suo disagio: lui, del resto, era tutto contento che esistesse un gruppo di quarantenni che avesse scelto di prodigarsi con un repertorio destinato- sempre a suo modo di vedere le cose -a dei sessantenni e composto, in origine, da gente che oggi ha 70 anni, e del resto gli importava anche una sega. Io, di contro, cercavo solo di separare gli aspetti positivi da quelli negativi ragionando su iniziative nostalgiche come queste. Mi si è allora insidiato un interrogativo di discrete dimensioni: un nostalgico è colui che ascolta Jimi Hendrix, i Led Zeppelin, Bob Dylan o i Beatles o è colui che ricerca Jimi Hendrix, i Led Zeppelin, Bob Dylan o i Beatles in ogni cosa nuova che ascolta e spesso, magari, senza sapere granché dell'originale? Posso capire che ci siano persone nostalgiche per mera autodifesa psicologica, ma ne conosco davvero troppe che- assimilato quanto visto, letto, ascoltato fra i 13 e i 18 anni -di lì non si sono più schiodate. Tanto per non farmi rimuginare, alcuni giorni dopo, non le televisioni o le radio, bensì i social network hanno dato la notizia dell'imminente uscita di un "nuovo" album di Jimi Hendrix. Premesso che la deriva poetica e il naufragare verso determinati sentimenti sono d'obbligo quando si leggono certe novità e che Jimi resta sempre un approdo sicuro, di fronte a Both Sides of the Sky perfino io mi ritrovo ad avere delle perplessità del tipo <<Ma questa Mannish Boy dove l'ho già sentita?>>. Ovviamente, nell'immensa raccolta Blues. Certo, qualche ritocco, un missaggio diverso, ma alla fine quella è (e neanche 'sta gran cosa, fra l'altro). Aggiungo che se Valleys of Neputne era da incorniciare e People, Hell and Angels già somigliava a una minestrina riscaldata ma ancora sfiziosa, questa imminente compilation di inedite rischia di essere un salto nel grande buio del risentito. Esce il 9 marzo.
Sto incontrando non poche difficoltà sul sito degli Archives di Neil Young. Lento, pesante, vuoto: tutti difetti che cerco di far emergere in una fanpage gestita- credo -da degli appassionati romani. Uno spazio su cui si leggono cose molto buone, intelligenti e interessanti ma anche delle solenni boiate (tipo che The Visitor è uno dei migliori album del Loner fra i pubblicati negli ultimi 15 anni o che Sky Trails di David Crosby, come scritto dagli amministratori stessi, è "un ottimo album"). Probabile che io abbia un computer obsoleto e una connessione non eccessivamente performante, ma ciò non toglie che- venendo ai contenuti -neilyoungarchives.com si stia rivelando l'ennesima umiliazione perpetrata da Neil Young ai danni del pubblico che lo sostiene, un pubblico in cui mi metto in prima fila. Fra Pono, autobiografie dispersive, dischi di mediocrità palese (non li elenco, che sono davvero troppi), concetti il cui più profondo è <<Non devi bere il caffè da Starbucks sennò mi arrabbio!>>, versioni deluxe rubasoldi che neanche in un universo parallelo varrebbero i salassi richiesti (vedi A Letter Home) oppure cofanetti antologici parimenti prediposti per succhiar via quattrini a una schiera di fans fin troppo fedeli (e anche qua mi rimetto in prima fila). Salta fuori la prevedibile frase fatta <<Nessuno ti obbliga a seguirlo né a comprarne i dischi!>>: bene, ma io adoro Neil Young, e questo non significa necessariamente seguirlo in maniera acritica e dissoluta come farebbe una qualsiasi groupie. Al contrario, preferirei essere trattato con rispetto, comprando prodotti di valore e non concepiti per prendermi per il culo. Comunque, pare che entro marzo usciranno l'attesissimo live al Roxy di Los Angeles datato 1973 e una cernita comprendente il meglio del meglio (audio e video) dell'Alchemy Tour (2012-2013), che a ora resta l'ultima parentesi di lucidità aperta dal Loner negli ultimi anni, ossia prima di imbarcarsi coi brufolosi Promise of the Real. Restiamo in ascolto.
Neil Young in concerto al Roxy di L.A. con i Santa Monica Flyers (1973).
Ultimamente sto facendo una fatica enorme ad alzarmi la mattina. Non so dire se è una questione di sonno arretrato, di clima (l'inverno è preoccupantemente benevolo) o di testa, ma ho bisogno di almeno due sveglie prima di buttarmi giù dal letto, spiare attraverso le tapparelle per vedere se c'è il sole, analizzarmi l'anima, fare il caffè e tutta quella trafila cui la maggior parte di noi è sottoposta ogni giorno. Accompagno mia sorella al liceo e filo via lungo la strada delle Lellere, recentemente deturpata da un nuovo benzinaio-bar sorto lungo l'unico rettilineo che essa ospita. Il più delle volte questa lingua di asfalto sembra quasi godere di un'elegante vacuità: forse sarà il mio lato emo che affiora, ma solo attraversando tanta desolazione ricomincio a sentire i sensi risvegliarsi e il sangue circolare. Niente uova, pancetta, marmellata, biscotti, spremute: mi bastano un caffè, la strada che si srotola sotto il sedile e magari la musica giusta che fuoriesce dalle casse. Il torrido blues di John Lee Hooker mi accompagna affettuosamente da casa all'ufficio già da un paio di giorni. Endless Boogie (1971) si è aggiunto tardi alla mia personale collezione di Hook. Prima conoscevo solo una minima parte della tracklist e non avevo mai dato il giusto peso allo straordinario back-up comprendente, fra gli altri, Jesse Ed Davis e Steve Miller, nè mi ero mai soffermato più di tanto sulla perfetta produzione di Bill Szymczyk, personaggio che di lì a qualche anno sarebbe stato seduto dietro la console di un gruppo denominato Eagles. Dicono che la prossima settimana potrebbe nevicare, ma ci credo poco.
"Ferruccio, ecco la lista dei vinili di Paolo. Mi sa che qualcuno ti possa interessare...": così si apre una mail datata 24 gennaio 2018 indirizzatami da babbo. Di solito risponderei con un "Grazie, dad, ma lo sai, sono in un periodo tirato e non voglio spendere, il contratto a lavoro è agli sgoccioli, devo tenere i soldi da parte ecc.". Inoltre, ogni volta che capito nei due, tre negozi da me bazzicati e mi ritrovo di fronte alla sezione vinilitica, vengo colto da lievi attacchi di riso: per quanto il vinile (inteso come materiale, in questo caso) sia di qualità superiore a trenta o quarant'anni fa, per quanto il packaging venga effettuato a regola d'arte, per quanto il cartoncino appaia semi-indistruttibile e i colori di certe pregiate edizioni siano ammalianti e appetitosi, cifre che oscillano fra i 29 e i 46 euro per un supporto oggettivamente scomodo come quello degli LP sono fuori da qualsiasi logica. Se contiamo poi che già dal gennaio 2016 il mercato del vinile è tornato a essere in perdita dopo un decennio di cauti successi e discreti incrementi commerciali (fattori che hanno portato l'Occidente a organizzare, fra le altre cose, i discussi Record Sotre Day e a far tornare nei negozi di elettronica generica giradischi, testine e puntine di varie marche e qualità), spendere certe somme per delle semplici ristampe da 180 grammi somiglia sempre di più a un hobby elitario: sport che meritano- nel migliore dei casi -di essere praticati da un'enclave di vecchi collezionisti o- nel peggiore -da hipster benestanti che, di quando in quando, interrompono la connessione a Spotify e mettono un 33 giri sul piatto.  Ma il fatto che gli LP provengano dalla collezione del carissimo amico Paolo stuzzica non poco le mie fantasie musicofile. Il perchè è presto detto: Paolo magari neanche se lo immagina, ma ha avuto un ruolo fondamentale nella mia storia di appassionato di musica. Nell'autunno del 2003- mentre la mia "dieta" era banalmente composta da pane, nutella e Iron Maiden con brevi interludi (già allora) dylaniani -fu Paolo a regalare ai miei genitori un paio di compilation contenenti grandissima musica. Grazie a lui incontrai per la prima volta lungo il mio cammino Neil Young, Jackson Browne, i C.C.R., i Bee Gees, Scott McKenzie, Bonnie Raitt, Harry Nillson, Eva Cassidy, gli unici U2 che avrei mai apprezzato (quelli di Achtung Baby) e molti altri. Se oggi amo Crazy di Patsy Cline più dell'originale di Willie Nelson, se sono arrivato a Bob Seger passando da un romanticissimo duetto fra Kenny Rogers e Sheena Easton in We've Got Tonight e a John Hiatt attraverso la Have a Little Faith in Me di Joe Cocker, in qualche maniera lo devo a quei due cd-r masterizzati da Paolo. Perciò, adesso che sta vendendo la sua collezione di 33 giri, mi sembrerebbe una grossa mancanza di rispetto non dare neanche una spulciata alla suddetta lista di uno che- lo so per certo -di musica se ne intende parecchio. Non ho ambizioni collezionistiche, nè considero il vinile superiore ad altri formati (anzi, ho accumulato abbastanza esperienza per poter serenamente affermare che- a parità di fonti originarie e di una buona masterizzazione di partenza-il cd sia migliore in tutto e che le suggestioni legate ai vecchi LP sono, appunto, solo suggestioni), ma i titoli di Paolo sono troppo splendidi, troppo indissolubilmente legati al mio vissuto per poterli far finire nelle mani di qualcun altro. E poi io e Sofi stiamo assemblando, pian pianino, un nuovo hi-fi e il giradischi rappresenterà un acquisto irrinunciabile, un oggetto da sfruttare al meglio, come sono abituato a fare con tutto ciò per cui spendo soldi. Così, faccio una cernita davvero stretta di dieci vinili (per la cronaca, Desire e Infidels di Dylan, Nebraska di Springsteen, Late for the Sky e Running On Empty di Jackson Browne, Hasten down the Wind di Linda Rostadt, e la triade Warren Zevon, Excitable Boy e Bad Luck Streak in the Dancing School di Zevon) e chiedo un "preventivo" per quella. Il prezzo è basso, l'occasione è di quelle che non ricapitano: do il mio assenso, vado a prenderli (300 metri da casa mia) e il gioco è fatto.

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