domenica 21 agosto 2016

Summer days, summer nights are gone... [Suggestioni uditive]




"... Summer days and summer nights are gone", "i giorni d'estate e le notti d'estate sono finiti", diceva una grande canzone consegnata ai posteri l'11 settembre 2001, quasi quindici anni fa. Il protagonista è un contadino che vive sulla cima di una collina, con i maiali che sguazzano nel fango e una donna dai lunghi capelli e nelle cui vene scorre sangue reale indiano. Summer Days non è una canzone estiva, ma una canzone di mezza, se non di fine estate. Lo stesso si può dire dei dischi di cui voglio scrivere.
Nel mondo della musica rock si raccontano tante storie su hits perdute, album dimenticati, demo rubate, nastri bruciati, cartelle Pro Tools smarrite nel cyberspace, dischi annunciati e mai pubblicati. Già più rari sono però quei dischi mai annunciati, mai fatti uscire, mai menzionati e, tuttavia, effettivamente registrati e rifiniti a quasi tutti i livelli. Potrebbe apparire quasi ovvio che una mosca bianca- anche in questa occasione -si sia rivelata essere Bob Dylan. Al giorno d'oggi, ormai, complici internet, i biografi, gli amici, i parenti e i colleghi, siamo in grado di ricostruire abbastanza bene cosa (e quanto) della carriera di Dylan sia rimasto fuori dai canali di pubblicazione ufficiali. Come sanno anche i sassi, il cantautore e la CBS, nel 1991, hanno creato una collana su misura per tutto ciò che di inedito, alternativo e mai udito prima era rimasto tagliato fuori dai circuiti più o meno legali, e la Bootleg Series promette di durare ancora a lungo, oltre ad essere un qualcosa che continua sempre a soddisfare tutti e a rivelarsi una fonte inesauribile di interesse, capolavori, belle canzoni e sorprese. 
Ma la vera sorpresa, in quest'estate, non l'ha tirata fuori lo stesso Dylan con la sua casa discografica, bensì la piccola, olandesissima Rattle Snake, nota ai dylaniani per essere stata la prima, nel 2001, ad aver pubblicato le registrazioni dal vivo al Gaslight. After The Empire (Rattle Snake Records, ) non è la millesima raccolta di alternate takes, outtakes e pseudo-inedite non ufficiale, costosa e inascoltabile, nè un bel soundboard curato e mixato con dovizia da qualche tecnico specializzato, ma un vero e proprio disco con dodici canzoni inedite di cui nessuno- pare -aveva mai saputo nulla. 
Bob Dylan intervistato per Rolling Stone (1986)
Sembra infatti che nella primavera del 1985, con Empire Burlesque fresco di stampa e di stroncature più o meno gratuite (con questo non voglio assolutamente farlo passare per un bell'album, perchè non lo era all'epoca e non lo è manco oggi), Bob Dylan abbia già del nuovo materiale  a disposizione. Non dice niente ad Arthur Baker, il produttore pop con cui ha condiviso la console negli ultimi mesi, nè alza il telefono per contattare i grandi nomi con cui ha passato gli ultimi anni in studio (da Knopfler a Ringo Starr, passando per Ron Wood, Mick Taylor, Sly&Robbie, ecc.). Prenota i Cherokee Studios ad Hollwood, un paio di turnisti R&B per la sezione ritmica (Vito San Filippo al basso, Raymond Lee Pounds alla batteria), le fidate Queens Of Rhythm ai cori e dei musicisti "in attesa di identificazione" (si stima che alla sei corde trovi spazio Mike Campbell e dunque tutto questo materiale inedito altro non potrebbe esser stato che una lunga prova per il tour del 1986 con gli Heartbreakers). A Los Angeles prendono forma dodici canzoni le cui registrazioni si protraggono per tutta l'estate e parte dell'autunno. Settanta minuti di musica mai udita prima e sulla quale lo stesso Dylan non ha battuto ciglio, permettendone la diffusione senza render conto di questo disco perduto e a cui è stato affibbiato un titolo semplicistico e approssimativo (da bootleg, per l'appunto). 
After The Empire non è un secondo Empire Burlesque, nè un ulteriore riassunto dell'abbandono religioso progressivamente intrapreso dopo il 1982. Anzi, al massimo poteva essere un quarto album gospel senza però la componente cristiana. Rifare qualcosa che ha già fatto è insopportabile per Bob Dylan, eppure i "rinnovanti" esperimenti synth-pop cui è approdato lavorando con Baker non hanno dato i frutti sperati. Sono anni bui, quelli del disgelo. Non dimentichiamoci che in Chronicles vol. 1 Dylan per primo fissa l'inizio della sua depressione proprio a metà anni Ottanta. Una graduale perdita di ispirazione e fiducia in se stesso che sarebbe culminata nei pessimi Knocked Out Loaded e Down in the Groove e nella disgraziata turnè coi Grateful Dead (chi l'avrebbe mai detto?). Ma sorprendentemente, in questo bootleg, non c'è traccia di depressione. Di certo non è un album facile e gioioso (ma quale disco di Dylan, alla fine, lo è?), ma non soffre della freddezza, del distacco e della disomogeneità tipici di quel periodo. Baby Coming Back From The Dead è uno strepitoso, lungo rockabilly che con qualche limatura qua e là sarebbe potuto passare tranquillamente alla radio o su MTV, La presenza delle Queens può essere equiparata a quella della voce principale e non manca qualche ammiccamento al blues vecchia scuola: Bring It Home to Me rappresenta un netto miglioramento delle atmosfere che avevano contraddistinto pezzi come Groom's Still Waiting at the Altar, che odora quasi di lato B di quella hit datata 1982. Notevoli anche I'm Ready for Love e Nothing Here Worth Dying For, momenti gospel di ottima caratura. Lo volete sentire prima o scaricarlo? Niente da fare. Introvabile, almeno per ora, a livello di anteprime su YouTube (per non parlare dei siti audio streaming) o in download.
Sempre parlando di cose introvabili, sapete quante copie usciranno nei negozi delle 16.500 stampate del diciannovesimo volume della collana più ambita, rincorsa e desiderata fra quelle appartenenti alla scuderia dei Grateful Dead? Manco mezza. Le copie di Dave's Picks Vol. 19 sono già state esaurite nella fase pre-sale svoltasi su internet. Nulla a cui chi segue- anche marginalmente -i Dead e il mondo ad essi connesso non sia abituato, però per un europeo come me, italico, ateo e con l'anima sempre in viaggio su qualche blue highway dello spirito, son cose difficili da credere. Di recente, scambiavo punti di vista con un amico sul recente cofanetto di Red Rocks, sulla piega che la ATO sta facendo prendere alla Garcia Live e sul tour americano che stanno intraprendendo i Dead & Company, la superband voluta da Weir, Hart e Krutzman e nella quale sono stati "arruolati" militanti del calibro di John Mayer (che a me non è mai sembrato così bravo come con loro, poi non so), Oteil Burbridge (ex-bassista della Allman Brothers Band "mark IV") e Jeff Chimenti (già tastierista nei RatDog, nei Dead e nei Furthur). E nulla, ci confrontavamo su questi argomenti e io cercavo di fargli capire che, al di là della mole di uscite che continua ad affollare i negozi fisici e virtuali (e che è spesso volta soltanto a svuotare le tasche dei deadheads, che sono un caso a parte nel panorama dei fanatici musicali di tutto il mondo oltre a risultare un fenomeno che, in Europa, continuiamo a comprendere solo marginalmente), i Grateful Dead e le loro innumerevoli diramazioni rappresentano forse meglio di tutto l'idea culturale, spirituale e filosofica che ho sempre ricercato nel rock. Sì, perchè comunque una ricerca alla radice dell'idea del rock può affaticare la vita mia e di molte altre persone ogni giorno, ma alla fine, sebbene dispiaccia non poter mettere le mani su questo e i precedenti volumi della Dave's Pick, si approda sempre e comunque ad una placida consapevolezza di sè.
Se si è un po' emuli delle deadheads, tuttavia, ci si può consolare con la nuova Garcia Live Volume Seven (ATO Records, 2 cd, ½), che riprende tutto il concerto tenuto dalla Band di Jerry a Palo Alto, in un locale chiamato Sophie's, l'otto novembre 1976.  Per quanto attiva da solo un anno e mezzo, la Jerry Garcia Band è già alla sua terza incarnazione, una delle più deadiane, con Keith e Donna Jean (colei che, fra l'altro, conservava i nastri originali di questa serata) rispettivamente alle tastiere e ai cori, e col batterista Ron Tutt prossimo ad abbandonare la carovana. Del resto, nessuno ha mai nascosto che lavorare con Garcia fosse dura. Genio, durezza e sregolatezza, una sregolatezza per cui pagò tutto salatissimo, alla fine. Ogni concerto, ogni canzone, ogni accordo della sua chitarra sono rimasti e rivivono, ogni tot mesi, in queste fedeli cronache della ATO Records. Un miscuglio insondabile di rimandi, influenze, suggestioni che conteneva il bluegrass, il reggae, l'underground, la beat generation, il jazz, l'R&B e infiniti altri umori che lui soltanto riusciva a mescolare, facendo a pezzi la canonica, rigorosa separazione fra gusto pop e musica d'autore. Va detto, però, che questo Volume Seven, contrariamente a quelli che lo hanno preceduto, non riesce del tutto a restituire la magia di un concerto "d'epoca" della Jerry Garcia Band. Sarà che almeno qua deve ancora smettere di girare il sesto, bellissimo, volume con Merl Saunders ascoltato a giugno, ma a me questo capitolo sette sta dicendo il giusto. Un primo cd che, ancora ancora, regala qualche sorpresa, ma un secondo che davvero sembra soffrire di ansia da prestazione nei confronti di quanto proponevano, nello stesso periodo, i Grateful Dead. Non che sia un concerto sempliciotto, ma sembra quasi un'antologia introduttiva all'arte di Jerry. Nulla di male, d'accordo, ma quante antologie migliori e più curate potrebbero essere maggiormente incisive (e più economiche) rispetto a questa? Se a uno che non ha mai ascoltato certa musica (e non mi riferisco necessariamente ai Grateful Dead) mettete in mano un doppio come questo, ci capirà poco e quasi di sicuro finirà con l'annoiarsi (già oggi è difficile far ascoltare un disco dall'inizio alla fine, figuriamoci un concerto di Jerry Garcia!). Molto bella, comunque, la maglietta venduta assieme ad una delle cento edizioni limitate.

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