martedì 17 maggio 2016

"Red Rocks 7/8/78" e gli altri (ovvero cinque mesi e qualcosa in compagnia dei Grateful Dead) [Suggestioni uditive]

Due amici si incontrano tutti i pomeriggi verso la metà degli anni Duemila. Principalmente, ascoltano musica, parlano di musica, respirano musica. C'è tempo anche di fare bisboccia, sognare donne, inventarsi un futuro incerto, vivere avventure, ma la musica viene prima di tutto. Lo scambio di informazioni, riviste dischi, files e link diviene incessante. Gli artisti che si trasformano in passioni e ossessioni aumentano giorno dopo giorno.
Poi, una sera, Canale 5 passa The Dreamers. Tagliato e mutilato, mancante di tutte le sue preziose parti genitali maschili e femminili, ma pur sempre di The Dreamers si tratta. Uno dei due lo ha già visto al cinema, di nascosto, un mese prima di compiere quattordici anni; per l'altro si tratta di una novità assoluta. Lo registrano su una VHS anonima e finiscono con l'impararne a memoria ogni fotogramma e ogni battuta. Grazie a questo prezioso esercizio di studio, scoprono che di frasi da riproporre nella vita di tutti i giorni (e anche di cose da fare nella vita di tutti i giorni) The Dreamers è pieno. Così come è ricolmo di grande musica, musica prevalentemente nuova per le loro orecchie. Buttano giù da eMule una incompleta compilation chiamata The Dreamers- Original Motion Picture Soundtrack e ascoltano, per la prima volta, Dark Star dei Grateful Dead. Tutta l'ammirazione più sconfinata va, immancabilmente, alla chitarra di Jerry Garcia, ma il risultato di insieme è comunque strabiliante e i due provano a mettersi sulle tracce- a livello discografico -di questa band attorno a cui si è andata costruendo una sorta di mitologia, se non una religione vera e propria con tanto di stuolo di fedeli disseminati in tutto il mondo (i Deadheads).
L'impresa si rivela ardua. Trattandosi del gruppo che ha inventato il concetto di jam e che per primo si è occupato di trasformare il set di un concerto rock in una vera e propria macchina in grado di spostarsi da una città all'altra, da uno stato all'altro, da un continente all'altro, la quantità di dischi live è talmente sterminata da risultare sconfortante e, paradossalmente, i risultati in studio sembrano inferiori alle aspettative. Certo, AoxomoxoaWorkingman's Dead, American Beauty e Blues For Allah contengono bei pezzi, ma è tutta roba che potrebbe comodamente essere spalmata in un paio di cd (cosa che, molti anni dopo, la Rhino Records ha pensato bene di fare con The Best Of The Grateful Dead). 
Facciano pure quello che vogliono, questi Grateful Dead, basta che non smettano di pubblicare i loro concerti impegnativi, acustici, semiacustici, elettrici, psichedelici, country, innamorati, cinici, rivoluzionari, tradizionalisti, spensierati, apocalittici: ce ne è per tutti. La dannazione di uno che suona la chitarra come la suonava Jerry Garcia è di essere condannato a non smettere mai: deve seguire il flusso, sera dopo sera, concerto dopo concerto, decade dopo decade, fino a quando quella Morte onnipresente in quasi tutte le copertine dei dischi non giunge a reclamare l'anima del suo eterno cantore. La chitarra, la melodia e il senso di "musica di insieme" sono le uniche cose che contano nella musica dei Grateful Dead. Non per togliere nulla alle parole, che, specie quando sono scritte da Robert Hunter, contano molto e non si limitano ad essere curiosità marginali da postumi di acido lisergico. 
Nel corso degli anni successivi, i due amici assumono posizioni divergenti sui Dead: uno decide di non approfondire più tale materia, mentre l'altro- seppur con distacco e senza l'obbligo di convertire anima e corpo alla causa psychedelic rock -se ne interessa sporadicamente.
Io, ovviamente, sono il "secondo amico" e non ammiro tutto quello che i Grateful Dead hanno fatto, nè compro tutti i loro cofanetti (non basterebbero due stipendi), nè ancora miro a rivendere la collezione completa delle loro opere per acquistare un'automobile nuova (negli USA questo giochetto è già riuscito diverse volte). Ci sono interi periodi del gruppo che non conosco e molti altri che proprio non mi piacciono. Non sono andato fino a Firenze per vedere il concerto di addio dello scorso luglio proiettato nell'unico cinema della Toscana che si era preso la briga di trasmetterlo in diretta, nè partecipo ai raduni dei loro fans, ai dibattiti sui forum ufficiali o non ufficiali. Non nego che possa esistere quell'attimo da cui chi ascolta determinati momenti (non canzoni, badate bene) della musica dei Grateful Dead non potrà più abbandonarla, ma io non sono mai davvero riuscito a relegare ad essa più dello spazio, del tempo e della passione che le dedico di normale.
Ovviamente, per le case discografiche e l'industria del music business, la messa in circolazione di quell'ingente quantità di materiale fissata fra il 1966 e il 1995 rappresenta ormai un'importantissima fonte di sussistenza. Il pubblico americano dei Dead (in particolare quello stesso pubblico di dreamers che, durante la guerra in Vietnam, aveva provato a scrollarsi di dosso i tratti della middle class) continua ad essere pienamente consapevole di quale rivoluzione artistica avessero concepito Jerry Garcia e soci alla fine degli anni Sessanta e in virtù di tale consapevolezza non accenna a smettere di acquistare di vinili, cofanetti, box-set, edizioni limitate e illimitate. Per qualsiasi ascoltatore, americano, europeo od orientale, esplorare l'universo dei Grateful Dead significa farsi spazio fra un migliaio di concerti, centinaia di canzoni, un numero incalcolabile di ore di musica registrata legalmente o clandestinamente, molti saggi e perfino qualche biografia romanzata, siti internet più o meno autorevoli e articoli di merchandise che rasentano l'assurdo. Inoltre, a partire perlopiù dal 2000, sono emerse notevoli diramazioni: i costosi cofanetti di Jerry Garcia nei suoi concerti (solisti o con l'omonima Band), i poco riusciti revival dei The Dead e quelli splendidi dei The Other Ones, una ulteriore collana di musica liquida rinominata The Download Series (15 volumi usciti fra 2005 e 2006, di cui 9 resi disponibili anche in formato fisico), una Road Trips Series (17 volumi comparsi fra 2007 e 2011 e praticamente mai approdati in Europa) e la pregevole selezione Dave's Picks curata dall'archivista ufficiale del gruppo, David Lemieux, avviata nel 2012 e ancora in corso.











A quest'ultima appartengono i volumi 17 e 18, usciti rispettivamente il 1° febbraio e il 1°maggio di questo 2016. Si tratta di due concerti abbastanza vicini nel tempo (uno è del 1974, l'altro del 1976) ed entrambi di ambientazione californiana. Il primo, registrato a Fresno, vanta nel terzo cd una perla che risponde al nome di The Weather Report Suite; il secondo, invece, testimonia un bellissimo show all'Orpheum Theatre di San Francisco organizzato nientemeno che da Bill Graham. Un concerto in linea con quelli dell'epoca, senza sorprese nella scaletta o colpi di scena, ma pienamente riuscito.
Nel frattempo, complice il Record Store Day del 16 aprile, ecco spuntare in un numero irrisorio (7.700 esemplari in tutto il mondo) il quadruplo LP Capitol Theatre, Passaic, NJ, 4/25/77. Com'è o come non è, non lo so. E' sparito talmente alla svelta e senza lasciare tracce che ascoltare anche solo la cover di Mama Tried di Merle Haggard si è rivelata un'impresa. Copertina piratesca stupenda.
Ed ecco giungerci al 13 maggio, data di uscita del cofanetto Red Rocks 7/8/78 (Rhino Records, 2016, 3 cd) che mi sono prontamente e legalmente procurato. Il 1978 è per molti appassionati un anno contraddittorio e fonte di infinite discordie: chi ama arbitrariamente i Grateful Dead degli anni Sessanta ha ormai gettato la spugna, mentre per coloro che si sono addentrati volentieri nelle atmosfere progressive di Terrapin Station (il disco del 1977 che ho sentito talmente tante volte che ho finito col farmelo piacere) c'è ancora tutto un mondo da esplorare. In più, il 1978 è l'anno di Shakedown Street, l'album "facilone" del gruppo di Jerry Garcia, il più sfacciatamente metropolitano, quello pieno di pezzi da ballare nelle discoteche di New York e che di psychedelic non conserva nulla, nemmeno l'artwork.
Ma il concerto di Red Rocks risale ad alcuni mesi prima che Shakedown Street uscisse e non sembra conoscere punti di contatto con quell'opera. Anzi, se ne discosta pure volentieri. Il primo set (tracce 1-9 del cd 1) riprende i grandi classici, gli standard del gruppo e non riserva sorprese a chi qualche concerto dei Dead lo ha già sentito. In questo, Red Rocks 7/8/78 non è Sunshine Daydream (Rhino Records, 2013, 3 cd+ 1 DVD), non raggiunge gli stessi, incredibili livelli (livelli che ci fanno domandare come e perchè quel concerto registrato nel 1972 in Oregon sia rimasto fermo negli archivi per oltre quarant'anni), non  lascia presagire neanche un po' della leggerezza sperimentale, lunare delle tre date egiziane di quello stesso settembre (da ascoltare e perfino da vedere, a tal proposito, Rocking The Cradle: Egypt 1978, Rhino Records, 2008, 3 cd+ 1 DVD), nè offre un bancone di prova delle molteplici trasformazioni che la band avrebbe conosciuto in quei controversi anni Ottanta, segnati dalla mediocrità dei dischi in studio (gli unici, però del loro catalogo ad aver sbancato le classifiche internazionali), dagli sventurati tour con Dylan e da un unico, stupefacente documento live chiamato Go To Nassau (Arista Records, 2002, 2 cd). Tuttavia, siamo nella più bella arena da concerto al mondo . Una cornice poetica perfetta per il gigantesco show del gruppo. Prima che Bob Weir attacchi con Samson And Delilah, è un concerto come altri, ma da quel momento si capisce che pure la notte di Morrison, Colorado, sarà lunga e magica (anche senza LSD). Perfette per viaggiare negli spazi siderali delle vibrazioni positive sono anche Ship Of Fools e tutte le altre canzoni del secondo set (tracce 1-8 del cd 2) dove la band si lancia in un'unica, solida, ininterrotta esibizione in cui si ricorrono Estimated Prophet, The Other One, Eyes Of The World, Wharf Rat, Franklin's Tower e Sugar Magnolia, ovvero il meglio del meglio del repertorio uscito dai dischi degli anni Settanta. Fra di queste, si incastrano momenti di pura improvvisazione (Space) e il segmento Rhythm Devils curato dai batteristi Hart e Kreutzmann (lo stesso titolo avrebbe fornito il nome alla formazione di musica world con cui avrebbero inciso la colonna sonora di Apocalypse Now e con cui si sarebbero esibiti a partire dal 2006). Degni di lode i bis contenuti nel terzo cd: una Terrapin Station curiosamente più breve della suite originale (ma non dobbiamo stupirci, visto che tutto Red Rocks 7/8/78 è avido di canzoni dal minutaggio superiore ai 12 minuti, ), la gradevole One More Saturday Night e la più bella cover di Werewolves Of London di tutti i tempi.
Perciò, non si può che salutare positivamente l'ennesima uscita di un retrospective live album dei Grateful Dead, come sempre molto ben curato sul versante digipak (la Rhino sa quel che fa e il disegno desertico di Paul Pope è di grande impatto) e introdotto dalla nota filologica di Lemieux. Il missaggio dei nastri originali e l'impeccabile mastering sono curati da Jeffrey Norman. Il prezzo lievemente più basso della media di questi cofanetti (una ventina di euro contro i consueti ventinove, trenta) è giustificato dall'assenza (ahimè) di un DVD con un video del concerto. Unica, desolante assenza, assieme a quella di un libretto un po' più ricco di note e fotografie.

Nessun commento:

Posta un commento