sabato 21 maggio 2016

La pazza gioia [Recensione]

Ho un rapporto ambiguo nei confronti dei film di Paolo Virzì: se infatti, da un lato, non apprezzo affatto il personaggio e l'artista, dall'altro trovo irresistibili certe sue prove di autore. E poi ha girato due dei migliori film italiani usciti da vent'anni a questa parte (Ferie d'agosto e Ovosodo), è riuscito a raccontare cose importanti che a pochi altri sembrano interessare (Tutta la vita davanti), ha abbandonato, col tempo e coraggiosamente, la deleteria visione di un cinema regionalistico (grandioso però, anche in questo senso, Baci e abbracci) a favore di un'analisi critica della società tutta, in grado di raccontare i sogni dei giovani neoproletari che non andranno mai in pensione (Tutti i santi giorni) e i crudi risvolti delle vite di coloro che il Capitale lo amano, lo osannano e, soprattutto, lo servono (Il capitale umano). E proprio sul set di quest'ultimo film Virzì nota Valeria Bruni Tedeschi- ancora agghindata da insofferente, asessuata e borghesissima moglie/complice del manager brianzolo Bernaschi (Gifuni) -in compagnia di sua moglie, Micaela Ramazzotti, e decide di fermare quell'istante e rimandarlo ad una storia che deve ancora scrivere. La storia arriva sottoforma di una gran bella sceneggiatura ("gran bella" vuol dire, soprattutto, "ben scritta", aspetto che nel nostro cinema non è da sottovalutare) firmata da Francesca Archibugi. Uno script rosa, profondo, non banale, per un film del genere che a Virzì riesce meglio sin dall'esordio (La bella vita) del 1994: la commedia amara. 
La pazza gioia è quella a cui decidono di darsi due donne, diverse e per questo perfettamente in grado di compensarsi a vicenda, ricoverate in una comunità di accoglienza all'avanguardia posta sulle colline pistoiesi. C'è Beatrice Morandini Valdirana (Bruni Tedeschi), un'affascinante ex-aristocratica che fra un'osservazione snob e una battuta sugli africani (o sui romeni, dipende) riesce ad occultare un banalissimo passato fatto di mariti ricchi e disonesti (di nuovo torna a stagliarsi, sull'attrice, il fantasma del Bernaschi ne Il capitale umano), amanti sottoproletari violenti e bugiardi, amicizie socialmente prestigiose ma umanamente vuote (nella rubrica del suo iPhone compare, fra gli altri, il numero di casa di Giorgio Armani). E poi c'è Donatella Morelli, con i suoi trascorsi di droga, polsi tagliati, figlio piccolo non riconosciuto dal padre e dato in adozione, mamma inetta (una Anna Galliena ricomparsa e quasi irriconoscibile), babbo mitizzato ma dolorosamente e oggettivamente fallito su tutto (un Messeri a cui bastano due battute e pochi secondi di presenza per risultare rivoltante). Le due donne si conoscono, si sopportano e fuggono alla ricerca del figlio di Donatella, rispondendo alle regole di un road-movie in cui l'Aurelia diviene una giungla su cui si susseguono figure reali e irreali dei nostri tempi post-democratici. Non è improbabile che dei nobili decaduti siano "costretti", ironicamente, ad affittare le loro proprietà al cinema italiano, così come non sono assolutamente frutto di fantasia le sgradevoli e purtroppo contemporanee figure di Maurizio, addetto alle pubbliche relazioni del Seven Apples e padre biologico del piccolo Elia, o quella del gazzilloro grezzo e fuori tempo massimo che  passa il tempo libero ai Gigli, parla di un matrimonio invisibile e si limita a rimpiangere la discoteca dove andava "prima di sposarsi" (il minimo che puoi fare a uno così è proprio rubargli la macchina). Come nelle highway di Ridley Scott, non c'è spazio per salvezza e redenzione lungo la strada percorsa da queste Thelma e Louise che al posto delle mignon di Wild Turkey razziano gli psicofarmaci con cui colmare le assenze chimiche delle rispettive terapie. Beatrice non smette di ammiccare ai suoi potenziali amanti (dal prete al contadinotto-toyboy), si ostina a trattare il prossimo con l'arroganza che compete alla sua classe sociale, ammorba gli altri con chiacchiere e modi di fare datati (così come tristemente datata risulta la sua "innocente", berlusconiana visione del mondo) e cerca la gioia per non morire di malinconia, dimenticata com'è dall'amante, dal suo ex-marito avvocato e dalla famiglia. Donatella, al contrario, è assai più consapevole dei propri limiti e della propria condizione: la depressione maggiore anoressizante che la consuma da quando è nata non viene mai tenuta nascosta, neanche quando durante delle ore di uscita in un vivaio si spacca la schiena per centoventi euro. Inoltre, La pazza gioia contiene anche una attenta contrapposizione delle strutture psichiatriche presenti nel nostro paese: la rassicurante bio-ca sadove si usano metodi di stampo progressista e lo squallore disgraziato dell'ospedale psichiatrico giudiziario, unica deviazione "forzata" di tutto il road-movie. "Siamo tutti pazzi" sta scritto su uno dei muri di Villa Biondi, e in effetti può risultare utile leggere con occhio psicoanalitico tutto La pazza gioia, come se ogni azione corrispondesse ad un momento preciso di una terapia: la malattia, la cura, una vacanza liberatoria e poi un ritorno all'analisi. Con le matte che amano, soffrono e lottano e i sani che mandano avanti l'ennesima replica dello spettacolo degradante ed essenzialmente infinito dell'ipocrisia umana.

Nessun commento:

Posta un commento