lunedì 8 giugno 2015

Fury [Recensione]

Era forse dai tempi de La croce di ferro di Peckinpah (per chi non l'avesse visto, anomalo capolavoro del 1977 i cui protagonisti sono dei soldati tedeschi in Russia) che il cinema bellico non sfornava un film sulla Seconda Guerra Mondiale crudo, antieroico, iperrealista e totalmente disinteressato a qualunque forma di epòs militaresco come Fury. Certo, potrebbe fare eccezione quella summa che è La sottile linea rossa, ma l'approccio risulterebbe comunque del tutto diverso dall'ultimo film di David Ayer, sceneggiatore divenuto regista e qui alle prese con la sua prova migliore, intrisa di fumo, sangue, cenere e disperazione. 
Nell'aprile del 1945, un carro armato Sherman battezzato "Fury" attraversa la Germania nazista ormai in ginocchio. Al suo interno trovano spazio il sergente Don Collier (Pitt), il cattolico attendente "Bibbia" (LaBeouf), l'ispanico "Gordo" (Pena) e lo squinternato Grady (Bernthal). Al gruppo si aggiunge Norman (Lerman), un giovanissimo dattilografo che è stato destinato, per un tragico errore, al reggimento sbagliato. Insieme, costretti in quella che chiamano "casa" e asserragliati fra quattro spesse mura di lamiera, si faranno strada fra bambini-soldati, civili impiccati dalle SS, carri Panzer indistruttibili e fra tutte le ultime, estreme follie perpetrate dal Nazionalsocialismo. E tutto questo non viene affrontato con il presupposto macho e impavido dei videogiochi, nè con la sconcezza patriottica spielberghiana (e quindi hollywoodiana). Chissà che anche Ayer non sia- almeno in questo -come il Peckinpah esule del 1977: un cineasta che indaga sull'orrore, la follia e la paura di ogni conflitto e che, nel farlo, adotta un linguaggio libero da ogni retorica dell'american dream. Fury è cinema puro, incontaminato e scevro da dialoghi pomposi e lezioncine inutili. Lo stesso, formidabile Brad Pitt preferisce tacere di fronte alla Storia crudele e spietata. E anche laddove la vittoria è dietro l'angolo, sussistono la distruzione e l'annientamento dell'essere umano, perfino del più innocente (il giovane Norman).
Ayer studia ogni scelta estetica con fine perizia: un terzo del film è girato all'interno del carro armato, la cinepresa è devastante sul campo di battaglia come nel momento da kammerspiel a casa delle due tedesche, momento in cui si rimanifesta, ineluttabile, la falsa illusione di ogni speranza.

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