Sufjan Stevens,
Carrie & Lowell
(Asthmatik Kitty, 2015)
★
Uno dei dischi più pretenziosi e inutili che abbia mai avuto modo di sentire è stato Illinoise di Sufjan Stevens da Detroit. Scrivo il nome seguito dal luogo di provenienza come nel caso di molti filosofi e poeti medievali perchè so per certo che farà piacere a chi, da tre lustri a questa parte, scomoda boriosi paragoni fra Stevens e Cielo d'Alcamo (e Dante, e Petrarca, e Shakespeare, e Dylan Thomas, e Dylan Bob, ecc.). Ascoltai Illinoise praticamente poco dopo la sua uscita, quindi nel 2005, quindi dieci anni fa. Forse ero piccolo, forse non ero pronto come persona e come ascoltatore, forse lui era ancora acerbo come artista, ma l'impressione che mi fece fu quella di una colossale rottura di coglioni, oltre che di uno che fa musica perchè ha molto tempo libero a disposizione e qualche bella lirica nel cassetto.
Non ho più ascoltato Sufjan Stevens da allora, ma oggi- incuriosito dal cicaleccio che anche chi non ama l'indie sta emettendo riguardo a questo settimo album in studio -metto su Carrie & Lowell, dedicato alla mamma bipolare e schizofrenica (Carrie) morta nel 2012 e al patrigno (Lowell, ma non Lowell George dei Little Feat, che forse qualche dritta musicale al figliastro avrebbe potuto darla), e mi addormento quasi subito. Vanno di moda questo indie-folk e i cantanti neo-acustici, e va bene. Rubano a destra (Simon&Garfunkel) e a sinistra (i Buckley, padre e, soprattutto, figlio), ma va bene. Prendiamo Justin Vernon, ad esempio: è uno che tira fuori cose pregevoli, interessanti, a volte bellissime. E, pur essendo uno, tira fuori cose che restano, dischi eccellenti, progetti anche molto diversi gli uni dagli altri. Al contrario, le dodici lacrimevoli tracce di Carrie & Lowell hanno l'aria della raccoltina di cui si parlerà tanto sulle riviste cartacee e virtuali di oggi, ma che evaporerà banalmente nei primi raggi di sole di domani. Come succedeva ad Illinoise dieci anni fa. E io che pensavo di essere immaturo allora!
Non cambierò mai.
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