Nel cromosoma genetico di tanti registi inglesi nati verso la fine degli anni Sessanta è costante l'attrazione verso un cinema di avventura puro e semplice, e lo scozzese Kevin Macdonald (nipote d'arte, visto che il nonno è l'Emeric Pressburger di Duello a Berlino), classe 1967, non fa eccezione. Premio Oscar per il miglior documentario con Un giorno a settembre (2000), già positivamente segnalatosi sia con La morte sospesa (2003) che con L'ultimo re di Scozia (2006), mi aveva vagamente annoiato e deluso con un insolito british peplum uscito qualche anno fa, ossia The Eagle (2011). Adesso, con Black Sea, torna a quella formula (per molti "datata") che avversa ogni appartenenza alle etichette dei costosissimi blockbuster di Hollywood. Ci regala- e in tanti non lo direbbero -un bel film. Bello e strutturalmente perfetto, scevro da esperimenti tecnici troppo arditi e da ogni forma di retorica. C'è un Jude Law stempiato ma in forma smagliante, che permette ad una sceneggiatura semplice e con qualche momento di stanchezza, di non inabissarsi e che, soprattutto, aiuta Macdonald nel portare avanti una coraggiosa operazione di svecchiamento del cinema subacqueo, incrociando memoria bellica, thriller e avventura. Un buon ricorso al silenzio (quel silenzio caro, a suo tempo, anche al James Cameron di The Abyss o al Ridley Scott di Alien, che poteva tranquillamente essere un film sottomarino) e un'eccellente fotografia (Christopher Ross) fanno il resto.
Black Sea è un bel film che resterà sconosciuto alle masse ebbre di roboanti fumettoni e di cui anche gli addetti ai lavori più esperti parleranno relativamente. Intanto, può vantarsi del nobile e raro fregio di riuscita fusione dei generi e di adamantina esplorazione di un cinema avventuroso saturo di compromessi e proiettato verso la liberazione da tutti gli stereotipi del genere.
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