giovedì 30 aprile 2015

Cobain- Montage Of Heck [Recensione]

Otto anni è il tempo che Brett Morgen ha impiegato a girare e montare Cobain- Montage Of Heck. Otto anni di screzi, interruzioni forzate, diatribe legali e pure di pause obbligatorie (non dimentichiamoci che nel 2012 è uscito l'eccellente Crossfire Hurricane, documentario sui primi venti anni di attività dei Rolling Stones), ma alla fine il film ha trionfato al Sundance ed ha ricevuto un'ottima accoglienza alla berlinale, per poi arrivare nelle sale di mezzo pianeta. Due giorni in cartellone per due sole proiezioni (prezzi appositamente rialzati, manco fossimo a vederlo in una sala IMAX in 3D) ridotti a un solo giorno dalle mie parti, causa festa patronale del 28 aprile. Ma non mi sono scoraggiato e poi, intendiamoci, io i soldi alla HBO li do volentieri.
Alla faccia della pessima distribuzione di cui godono, ho visto tantissimi rockumentari nella mia vita, la maggior parte in home video, ma alcuni- forse i migliori -anche al cinema, e raramente mi stupiscono. Lo stesso Crossfire Hurricane di Morgen mi piacque, ma senza meravigliarmi, e posso dire altrettanto di Shine A Light di Scorsese e di Neil Young: Heart Of Gold di Demme, tanto per citarne alcuni passati, con successo, nelle sale. Invece, Montage Of Heck mi ha stupito, emozionato, perfino commosso. Perchè si sceglie di gettare uno sguardo ravvicinato sull'uomo prima ancora che sul musicista e sul mito, e l'uomo Cobain era fragile e preda di ansie, paranoie, complessi e dubbi esistenziali, oltre a vivere in perenne bilico fra l'essere per se stesso e l'essere per gli altri. Morgen tappa così la bocca a quei detrattori che confidavano in una sub-specie di riscostruzione vespiana del "caso Kurt Cobain": lo fa virando verso lidi di intimismo che di rado vengono avvistati in documentari sulla musica rock. Indispensabile, ai fini della buona riuscita del film, è lo strumento delle interviste, dolorose ma necessarie. In più momenti i personaggi soffrono e rispondono con fatica a domande che, all'apparenza, non gli erano mai state poste. Si creano così tante sfaccettate micro-autobiografie confessionali, il cui risultato è un estenuante denudamento dei sentimenti e delle angosce di chi, a Kurt, è vissuto accanto. Il resto del lavoro è affidato alla musica (perchè di musica si parla) e a quel prezioso susseguirsi di citazioni, disegni, sequenze animate, conversazioni di archivio che sublimano ulteriormente riflessioni sul dolore e sulla ricerca (incompiuta o impossibile) della felicità durate ventisette anni.
Ai margini, il divario fra i tre album dei Nirvana non è mai stato descritto meglio di così e a noi- appassionati e non -non resta che calarsi nella malinconia soffusa che impregna gli struggenti filmini domestici dei Cobain, con i loro colori sgranati, il frastuono, i pettegolezzi, le eccentricità e i ritmi che si stemperano solo da ultimo nella performance definitiva dell'Unplugged, le cui immagini concludono un film che racconta una vita breve e amara, una quotidianità fatta di paure e silenzi, di malinconia e inadeguatezza, di visioni perse nei tunnel della droga e di travagli interiori che, come Montage Of Heck, lasciano ferite profonde.

martedì 28 aprile 2015

Avengers: Age Of Ultron [Recensione]

In un mondo freddo e pericoloso, il cinema super-eroistico potrebbe quasi apparire rassicurante, ma non è così. Difettoso, retorico, barocco, può causare sonnolenza o nausea, a seconda dei casi. Spesso si tratta solo di cattiva televisione che dispone di finanziamenti semi-illimitati (gli Amazing Spider-Man, il primo Captain America, una buona fetta della saga degli X-Men), oppure di semplice intrattenimento di infimo livello (tre quarti abbondanti dei film DC e più di metà delle pellicole Marvel appartengono a questa categoria). 
E poi?
E poi ci sono le eccezioni. E Joss Whedon è un'eccezione, valida, solida, confortante. Non l'unica (e chi ha visto i Guardiani della Galassia e conosce James Gunn sa bene di cosa parlo), ma comunque un'eccezione gradita. Se guardassimo ai Marvel Studios come a un'etichetta indipendente (sì, proprio!) del cinema del nostro tempo, Whedon sarebbe l'autore di punta, quello su cui si buttano i veri soldi (250 milioni di dollari) e si scommette tutto, ma soprattutto sarebbe il demiurgo dei kolossal sugli eroi dei fumetti. The Avengers fu la novità, questo Age Of Ultron è "soltanto" una riconferma. Il campo di gioco è lo stesso: il Marvel Cinematic Universe, un gigantesco e redditizio franchise avviato da Iron Man (2008) e destinato a durare per dodici anni (finirà nel 2020 con Inhumans), tre fasi (la seconda finirà con Ant-Man) e ventidue film (Age Of Ultron è soltanto il dodicesimo, quindi ce ne è di tempo per riparlarne). E' un modo nuovo e lodevole di creare continuity, e Age Of Ultron ne è l'esempio impeccabile. Ha tutto ciò che serve a livello di situazioni, personaggi ed effetti speciali, e registicamente Whedon è solo che migliorato rispetto alla pellicola di tre anni fa. I personaggi sono freschi e sul gruppo regna una maggiore armonia, anche se proprio da questo episodio sembra prendere il via un approfondimento psicologico individuale e collettivo le cui ombre si allungheranno sul destino di tutto il gruppo. Mark Ruffalo è ancora il migliore Hulk di tutti i tempi (anche da palesemente innamorato), Tony Stark scherza pesante ma senza eccedere, i granitici Thor e Captain America somigliano a qualcosa di più rispetto che a due statue di marmo e perfino Occhio di Falco ha una vita privata di cui si racconta qualcosa. Ulteriori colpi messi a segno sono quelli delle new-entry: Scarlet funziona (Quicksilver un po' meno), Visione è in assoluto uno dei più bei personaggi mai usciti dai cantieri Marvel, Ultron è il cattivo medio. Ad ora, Age Of Ultron potrebbe risultare il migliore cinecomic del 2015, senza stare a scomodare paragoni con un paio di capolavori che lo hanno preceduto. La stoffa del bel film ce l'ha, intendiamoci, e specie dopo avere visto il trailer di Batman Vs. Superman di Zack Snyder chiedere di meglio suonerebbe come una bestemmia.

lunedì 27 aprile 2015

Blur, "The Magic Whip" [Suggestioni uditive]

Blur,
The Magic Whip
(Parlophone, 2015)
½














Sono passati dodici anni da Think Tank, ventuno da Parklife e ventiquattro da Leisure, ma a me i Blur proprio non mancavano. Per carità, sia lode a Damon Albarn, un grande cantante pop, ma soprattutto un grande della canzone in genere. I Blur sono stati un gruppo fieramente avanti, anche nel periodo in cui non ce la facevano a reggere il confronto con gli Oasis pur venendosene fuori con una pietra miliare quale The Great Escape. La fine del britpop ha portato il gruppo a sparare le proprie ultime cartucce creative (Blur e, soprattutto, 13), ma già nelle ritmiche globali e nei testi pacifisti di Think Tank si percepisce l'autocompiacimento e fa capolino una certa aria di rilassamento, quasi di routine. Tuttavia, la reunion del 2008 ha riacceso l'interesse nei confronti dei Blur e i nuovi brani usciti nel 2010 hanno ottenuto una certa credibilità nell'ambito della dispersiva e sopravvalutata scena dell'alternative rock inglese. Inoltre, se si è ascoltato l'eccezionale Everyday Robots, opera del solo Albarn, l'aspettativa per del nuovo materiale della band sale in maniera comprensibile.
In The Magic Whip, quello che era stato uno dei suoni più originali del britpop è ora un marchio lontano perfino dai presupposti del genere, e a poco valgono gli assoletti di Coxon. Il suono è di maniera già nel singolo Lonesome Street, canzoni quali Go Out, Thought I Was A Spaceman e Pyongyang sembrano tutte attraversate da un basso tenore emotivo e preoccupanti sono le aperture verso soluzioni di facile consumo quali There Are Too Many Of Us. Da non credere che una mente brillante e pronta a tutto come quella di Albarn, qui ulteriormente supportata dal produttore Stephen Street, sia in grado di proporre solo una stanca riproposizione dei Blur degli anni Duemila. E nonostante un minimo di delusione, il mio disinteresse prende il sopravvento di fronte a The Magic Whip e sono lieto di non ascoltare abitualmente roba che somigli a questa. Anche solo lontanamente.

domenica 26 aprile 2015

Prodigy, "The Day Is My Enemy" [Suggestioni uditive]

Prodigy,
The Day Is My Enemy
(Cooking Vinyl, 2015)

★★
















Inizia ad esserne passata di acqua sotto i ponti da quando, nel luglio del 2005, mi scatenavo in una pista da ballo di una nave greca al suono di The Prodigy Experience (1992). Musica da un'altro pianeta per chi, come me, non era di certo un patito di elettronica e simili, ma l'incoscienza giovanile spesso e volentieri genera onnivorismo, e così mi ritrovai a contorcermi al ritmo di Jericho, Charly, Out Of Space e Fire. Non saprei dire con esattezza di chi fosse il compact (originale) dei Prodigy, ma ricordo benissimo alcuni particolari: intanto, da novello post-raver, mi ero lasciato truccare, senza però rinunciare al mio animo rocker. Avevo infatti optato per un trucco à la Paul Stanley, mentre qualcun altro dei miei amici forse era Peter Chriss. Indossavo un'oscena maglietta di tessuto sintetico con su stampata una grafica di Zio Paperone e la cui natura anti-traspirante sarebbe stata tradita nell'arco di pochi minuti. Ma soprattutto bevevamo Ouzo da una fiaschetta comodamente acquistata al duty-free della nave e puzzavamo come una distilleria ambulante. Il d.j. tentò un paio di volte un missaggio sui pezzi, ma risultò un'impresa ai limiti delle sue abilità (per chi non lo avesse mai ascoltato, in The Experience non c'è un brano che scenda sotto i 140 bpm) e anche per questo lasciò perdere e abbandonò quasi subito la console lasciando il disco inserito nel CDJ. Alcuni adulti osservavano, basiti, questo spettacolo dai bordi della pista, accennando solo per pochi attimi qualche movimento della testa o del busto, tanto per farci capire che erano ancora vivi. Ogni tanto partiva il pogo, ogni tanto l'aria si riscaldava ulteriormente. Capivo poco- chiaramente -ma comprendevo che quella musica, per quanto "vecchia" di tredici anni, possedeva una forza straordinaria (il breakbeat) e che, se quei loop prodigyosi entravano in testa, nulla era in grado di cacciarli.
Ad oggi,  l'Experience di anni ne ha ben ventitrè e se li porta benissimo, così come il suo funambolico seguito, Music For The Jilted Generation (1994). The Fat Of The Land (1997) invecchia meglio del previsto, ma non si può certo dire lo stesso di Always Outnumbered, Never Outgunned (2004). E se Invaders Must Die (2009) è stato un inaspettato colpo di coda da parte della formazione britannica, il nuovo The Day Is My Enemy si attesta su tutt'altro livello, assai più scarso. Tanto per cominciare, è un disco sconcertantemente datato. Come ovvio, i toni sono quelli del classico Prodigy-sound, ovvero breakbeat veloce miscelato con campionamenti ben architettati e distorsioni che si avvicinano molto all'hardcore. Inoltre, The Day Is My Enemy è il primo disco in cui tutti e tre i Prodigy si prodigano con una certa vena "cantautoriale": molti pezzi sono canzoni vere e proprie, in perfetto stile electro-rock. Ma funzionano? A parte che in Ibiza (quinto e ultimo singolo estratto)- che descrive con mirabile precisione un patinato mondo di pagliacci confinati su una costosa isoletta ispanica -e nella spettacolare title-track (dove si ripesca addirittura Cole Porter!), non molto. 14 brani solitamente brevi e prevedibili che tentano di rimescolare le carte già giocate con Invaders Must Die arricchendole di chitarre e testi un po' più studiati. Poi mi fermo a pensare e mi viene in mente che Liam Howlett, Keith Flint e Maxim Reality hanno tutti, abbondantemente, superato i quaranta, e che l'età in questo genere musicale pesa parecchio di più che in tanti altri. Ma non è comunque una scusa convincente.  

sabato 25 aprile 2015

Black Sea [Recensione]

Nel cromosoma genetico di tanti registi inglesi nati verso la fine degli anni Sessanta è costante l'attrazione verso un cinema di avventura puro e semplice, e lo scozzese Kevin Macdonald (nipote d'arte, visto che il nonno è l'Emeric Pressburger di Duello a Berlino), classe 1967, non fa eccezione. Premio Oscar per il miglior documentario con Un giorno a settembre (2000), già positivamente segnalatosi sia con La morte sospesa (2003) che con L'ultimo re di Scozia (2006), mi aveva vagamente annoiato e deluso con un insolito british peplum uscito qualche anno fa, ossia The Eagle (2011). Adesso, con Black Sea, torna a quella formula (per molti "datata") che avversa ogni appartenenza alle etichette dei costosissimi blockbuster di Hollywood. Ci regala- e in tanti non lo direbbero -un bel film. Bello e strutturalmente perfetto, scevro da esperimenti tecnici troppo arditi e da ogni forma di retorica. C'è un Jude Law stempiato ma in forma smagliante, che permette ad una sceneggiatura semplice e con qualche momento di stanchezza, di non inabissarsi e che, soprattutto, aiuta Macdonald nel portare avanti una coraggiosa operazione di svecchiamento del cinema subacqueo, incrociando memoria bellica, thriller e avventura. Un buon ricorso al silenzio (quel silenzio caro, a suo tempo, anche al James Cameron di The Abyss o al Ridley Scott di Alien, che poteva tranquillamente essere un film sottomarino) e un'eccellente fotografia (Christopher Ross) fanno il resto. 
Black Sea è un bel film che resterà sconosciuto alle masse ebbre di roboanti fumettoni e di cui anche gli addetti ai lavori più esperti parleranno relativamente. Intanto, può vantarsi del nobile e raro fregio di riuscita fusione dei generi e di adamantina esplorazione di un cinema avventuroso saturo di compromessi e proiettato verso la liberazione da tutti gli stereotipi del genere. 

sabato 18 aprile 2015

Mia madre [Recensione]

Esistono due tipologie di film: i film e i film di Nanni Moretti. E Mia madre è senza alcun dubbio un film di Nanni Moretti, nuovo capitolo di quella filmografia totale che va avanti da trentanove anni e che, fondamentalmente, segue il proprio autore nel suo naturale percorso di crescita. Perchè, si sa, il cinema di Moretti è un cinema perennemente autobiografico, anche laddove il suo personaggio sembra starsene più in disparte (Il caimano, Habemus Papam) o dove- come nel caso della regista Margherita (Buy) in Mia madre -trova incarnazione in un altro corpo, di sesso opposto ma a lui comunque legato: infatti (ovviamente?), nel film, Margherita ha un fratello che si chiama Giovanni (Moretti), che lascia il lavoro pur di assistere la madre malata terminale e di prepararsi a quel momento della vita, doloroso ma inevitabile, che coincide con la dipartita di un genitore. Quello stesso genitore, la madre, che è in assoluto uno dei protagonisti di tutta l'opera morettiana. Emancipata ma assente in Io sono un autarchico, oppressa e incompresa in Ecce Bombo, odiata e malmenata in Sogni d'oro, imperdonabile suicida in La messa è finita, divinizzata in Palombella rossa (<<le merendine di quando ero bambino non torneranno più...>>), reale (del resto di Agata Apicella, vera mamma di Moretti, si trattava) in Aprile.
A quattordici anni dall'osannato, premiato, ma criticabile La stanza del figlio, Moretti torna a parlare di morte e di dolore, ma lo fa con uno sguardo completamente diverso. Contamina il dramma con la commedia brillante, parla del proprio amore per il cinema, si mette accanto al proprio alter ego protagonista (allo stesso modo Margherita istruisce i suoi attori, spronandoli a mettere i veri se stessi a fianco dei loro personaggi), sceglie di non raccontare tanto il lutto quanto la preparazione ad esso. Il tutto senza farsi mancare i tic, le ossessioni, i personaggi istrionici (John Turturro, formidabile nel ruolo di american actor cialtrone e sopravvalutato), le frasi già pronte a divenire di uso popolare (il suo cinema ne è pieno), la scena di danza (il suo sogno è sempre stato quello di saper ballare), i sogni (d'oro), lo scooter, il cibo (in ospedale i tagliolini si attaccano, le paste corte no), il dibattito da evitare (<<No, il dibattito no!>>), la critica ad ogni forma di retorica, la psicanalisi, la città, il film nel film (Noi siamo qui, cronaca di un'occupazione di fabbrica e di conseguenza unica"costola" di riflessione politica in Mia madre). Tutte entità dell'universo morettiano, un mondo governato da regole severe ed egoriferite. Nanni dirige attori di primaria grandezza (su tutti, Giulia Lazzarini nel ruolo della madre) con primaria grandezza. E' davvero uno splendido quarantenne diventato un sessantenne cupo e- a sua detta -inadeguato, ma gira con la libertà e la fantasia degli esordi. Perchè ogni film di Moretti è un film sofferto ma totalmente libero, e al di sopra della media (anche perchè la "media", nazionale e spesso anche internazionale, è di imbarazzante pochezza). Del resto, cinque pellicole di fila portate al Festival di Cannes,  una Palma d'Oro, Orsi, Leoni, Nastri, David e compagnia bella parlano per il proprio autore. Niente automobili linde offerte come sponsor, niente sovvenzioni bancarie, niente placements commerciali ridicoli. Nanni si è già confuso, prendendosi in giro anche solo come interprete, con quel mondo (Caos calmo) e con una realtà che non è la sua. La sua, quella in cui è ambientato pure Mia madre, è tutta un'altra cosa.
Per fortuna.

lunedì 13 aprile 2015

Lorø, "Lorø" [Suggestioni uditive]

Lorø,
Lorø
(Red Sound Records, 2015)
★★★★















Una delle mancanze più gravi di molte band giunte al traguardo dell'esordio discografico può risiedere nella scelta di affidare la propria opera prima a gente di cui non si dovrebbero fidare. Ne consegue che una buona fetta dei "primi album"- a prescindere dal genere -suoni spesso peggiore di quanto dovrebbe. Ma questo non è il caso dei Lorø, trio padovano (ebbene sì, di nuovo Padova, che a giudicare da qualità e quantità di roba è in lizza per divenire la capitale del Metallo italiano) che unisce le sonorità noise-metal alle strutture rigide e ostiche del math-rock
Giovani e dotati, registrano i nove brani del loro album di esordio omonimo fra Bologna, Verona e Padova, prodotti da Enrico Baraldi degli Ornaments, forse la band math italiana per eccellenza. Estranei al dilettantismo e attenti a quella fusione sonora collaudata e valida fra noise, math e perfino jazz (si prenda l'ottima High Five), puntano su un suono vivo e aggressivo nelle iniziali Pollock e Thalia. Ma è nella terza, imponente A Trick Named God che arrivano i passaggi di tempo progressive e numerosi effetti di synth più sperimentali si accompagnano, con stile, al naturale approccio a un math-rock artigianale e periferico. Anche il modo in cui adattano ritmiche elettroniche ai propri pezzi è indice di originalità (Ad Mortem, Clown's Love Ritual). Verso la fine, le chitarre alzano il tiro: è il caso di quella Faster, Louder & Better che suona come potrà suonare un brano stoner del futuro prossimo. Giù il cappello davanti a To Whom It May Concern, pezzo di chiusura duro e senza sconti, costruito su un giro di basso sporco magistrale e con i Lorø disposti a mostrare i muscoli fino in fondo. 
Con i giusti giri armonici e una produzione che spazzerebbe via un buon novanta percento della concorrenza, questi tre padovani non hanno di certo bisogno di "cantarci" alcunchè, fedeli fino in fondo ad una delle regole ferree del math-rock. A rendere Lorø un disco che necessita di credibilità e carattere non serve nient'altro che non sia già qua dentro, complice una miscela di idee veramente incendiarie che ne fanno un esordio che non si ascolta di certo tutti i giorni.

sabato 11 aprile 2015

Humandroid [Recensione]

Sembrava un genere destinato a morire male, anzi malissimo. Eppure, il cinema di fantascienza, negli ultimi cinque, dieci anni ha prodotto meraviglie e regalato nuovi autori. L'abbattimento dei costi delle tecnologie digitali, qualche ottima prova televisiva (Battlestar Galactica) e tante buone produzioni piccole ma piene di idee (Serenity, Attack The Block) hanno permesso a giovani talenti di imporsi con la loro idea di science-fiction. E se abili mestieranti come Gareth Edwards (Monster) e Joseph Kolinski (Tron Legacy) non sempre brillano (Godzilla e Oblivion sono nettamente al di sotto delle loro opere prime), ci pensano i "nuovi maestri" come J.J. Abrams e James Gunn a condurre le masse in sala e a intrattenerle con la migliore fantascienza prodotta da Hollywood nell'ultimo ventennio. E sempre nella categoria "nuovi maestri" è giusto annoverare anche mentalità più indipendenti e slegate dal potere delle major disneyane (del resto, Disney ha comprato ormai tutto, fra Lucasfilm e Marvel): talentuosi personaggi che rispondono ai nomi di Duncan Jones (Moon) e Neil Blomkamp, il cui Chappie è arrivato nei nostri cinema or ora, con il titolo vergognosamente modificato in Humandroid. Vabbè, un'altra di quelle cose che "solo in Italia".
Prodotto da Sony Pictures con ampie libertà (e qualche placement commerciale di troppo) su sceneggiatura e tempi, Chappie è la versione ampliata di quel Tetra Vaal che Blomkamp girò nel 2004 e caricò in rete di lì a poco, attirando l'attenzione di Peter Jackson, produttore del capolavoro d'esordio District 9 (2009). Ed è proprio con District 9 che Chappie condivide ambientazione (il Sudafrica) e atmosfere, oltre all'immancabile matrice politica che permea tutta la science fiction di questo giovane, grande autore. Una fiaba in cui il bene è incarnato  dall'ingegnerino dovizioso e idealista Deon (Dev Patel) e il male dal religioso guerrafondaio australiano Vincent Moore (uno Hugh Jackman mai così odioso). Entrambi lavorano in una ditta di robot, ma mentre uno sogna il robot umano la cui mente abbia le potenzialità del cervello organico, l'altro pensa solo a concepire macchine da guerra sempre più sofisticate. Nel mezzo, fra i due estremi, c'è una banda di strampalati ladruncoli cyberpunk (ah, il film è tutto, meravigliosamente cyberpunk, dalla scenografia, ai dialoghi, ai costumi, alla colonna sonora di Hans Zimmer) che sequestrerà Chappie per utilizzarlo ai propri fini disonesti, salvo prima rivelarsi comunque meno delinquenti di Moore.
Il risultato è un film struggente e fantastico sotto tutti i punti di vista, forte e convincente perfino nel finale più lieto e fiabesco. Gli effetti speciali sono curati con gusto e usati con parsimonia. Graditi gli omaggi a He Man e Forrest Gump, così come le scene d'azione sono fra le meglio girate che ci sia dato di vedere: Blomkamp fa un uso della cinepresa che un tempo faceva Peckinpah, costruisce le scene di folla ispirandosi al Romero più metropolitano o agli italianissimi post-apocalittici degli anni Ottanta. Tutto questo senza mai rendere Humandroid un film pesante o barocco, ma miscelando con arte unica cinema sociale, azione, fiaba, fantascienza e dramma. Girato bene e montato meglio è, senza dubbio e allo stato di cose attuali, il migliore film di fantascienza uscito finora nel 2015.

martedì 7 aprile 2015

Joe Bonamassa, "Muddy Wolf At Red Rocks" [Suggestioni uditive]

Joe Bonamassa,
Muddy Wolf At Red Rocks
(J&R Records, 2015, 2 Cd+ 1 DVD)

★★½















Lo scorso 31 agosto, Joe Bonamassa era nella più bella arena del mondo per tributare il suo personale omaggio a due leggende del blues: Muddy Waters e Howlin' Wolf. Due miti, due maestri, due artisti le cui canzoni continuano a rappresentare una fonte di ispirazione infinita per miriadi di autori in tutto il mondo. 
Lontano dallo spirito di molti suoi dischi (in particolare da quello dell'ultimo Different Shades Of Blue, assai sopravvalutato) e accompagnato da una spettacolare band, Bonamassa si abbandona a un flusso ininterrotto di brani più o meno celebri dei suoi beniamini. Che dire? Lo show è superlativo, le canzoni fantastiche, la location è a dire poco magnifica. Se ci si somma che il disco è registrato e missato come meglio non si poteva (anzi, per essere un live suona fin troppo pulito), può venire fuori che questo Muddy Wolf At Red Rocks è uno dei dischi dal vivo dell'anno? Sì, o forse no.
Forse no, perchè Bonamassa è un eccellente "tecnico" della chitarra, uno di quei maestri à la Satriani, Vai, Johnson, Petrucci, Malmsteen e compagnia bella. Un personaggio da palco del G3 o da Guitar Battle (o da Guitar Hero?). Uno di quelli che suona da Dio, che non sbaglia mai, che non fa un disco diverso dal precedente e che dà il massimo in concerto, spesso regalando ottime covers e, fondamentalmente, tenendo a freno una certa fantasia di esecuzione. Non è un bluesman puro, è in tutto e per tutto un "primo della classe", uno bravo oltre ogni immaginazione ma che, pur producendo dischi pregevoli e confezionati al meglio, non gode di uno stile peculiare come altri suoi coetanei (Derek Trucks, per dirne uno). E vendendo a questo ricco "disco-tributo-dal-vivo", a me sembra di ascoltare più il saggio di fine anno del maestro di chitarra di mio figlio piuttosto che un sanguigno live album con pezzi di repertorio. L'esecuzione è impeccabile, ma di una perfezione che lascia freddi, e tale freddezza non cozza col rossore intenso del canyon in cui il concerto si svolge.
Nulla toglie al fatto che il DVD contenuto nell'edizione "avanzata" sia veramente accurato: comprende dei belli spezzoni video del concerto (fra le altre, ci sono canzoni di Bonamassa stesso escluse dalle registrazioni su cd) e un bel documentario di mezz'ora in cui il chitarrista visita i luoghi dove Waters e Wolf sono nati e hanno mosso i loro primi passi come musicisti. Tutto molto bello, ma non dà l'impressione di bastare. Basta rilassarsi, aspettare che la luna sia alta nel cielo, togliere il secondo compact del Red Rocks dallo stereo e rimpiazzarlo con E.C. Was Here (1975) di Clapton. Stesso concept alla base, meno canzoni e meno minuti, ma tutta un'altra storia.

Robben Ford, "Into The Sun" [Suggestioni uditive]

Robben Ford,
Into The Sun
(Provogue, 2015)

★★★½














Non è una "bischerata" individuare nella produzione discografica di molti famosi chitarristi quali album sono da ricordare e quali no, e il caso di Robben Ford non è un'eccezione. Qualcuno sostiene, con blanda superficialità, che i lavori di questo talentuoso californiano ultrasessantenne si somiglino tutti e che basta ascoltarne uno per accontentarsi. Qualcun altro, invece, sa bene quanto sterminata possa apparire la sua produzione solista e non, perchè Ford si è contraddistinto per essere uno dei più geniali e carismatici turnisti della sei corde che il mondo ricordi. Avete presente dischi come Dark Horse di George Harrison, Miles Of Aisles e The Hissing Of Summer Lawns di Joni Mitchell o Creatures Of The Night dei Kiss? Ecco, Robben Ford ha suonato la chitarra in tutti questi. E, se si vuole andare più a fondo, è possibile notare un brillante inizio carriera come chitarra di accompagnamento di Charlie Musselwhite e, soprattutto, un proficuo interludio come chitarrista di Miles Davis nel 1986 (il risultato è udibile nel cofanetto del Montreux Festival). Perchè Robben Ford ha saputo inserirsi bene nella linea che separa il rock dal jazz, ha suonato con mezzo mondo e ha suonato veramente di tutto. 
Entusiasta, disponibile e sempre elegante, Ford torna a far parlare di sè con il suo diciassettesimo traguardo solista, recante un titolo poco originale (Into The Sun) e una copertina alquanto tamarra e discutibile. Ma del resto, a chi è mai importato niente delle copertine dei dischi dei chitarristi? Quel che conta è la sostanza, gli accordi e i disaccordi sempre puntuali e opportuni, la superba capacità di spaziare e sintetizzare in undici brani una carriera pluriquarantennale. E che possa essere sulla strada buona lo si capisce già con la bella Rose Of Sharon messa in apertura. Le successive Day Of The Planet e Howlin'At The Moon confermano che Into The Sun è un disco molto meno jazzato e più vicino all'hard blues rispetto ad altri: insomma, per chi come me ama il Ford di Tiger Walk potrà trattarsi di una mezza sorpresa. E non per togliere nulla alle sue capacità di songwriter e cantante, ma la linfa vitale primaria di Into The Sun risiede nei duetti, tutti magnifici, tutti azzeccati, tutti piacevoli. Si parte con Justified, suonata con lo slide-master Keb'Mo' e con la pedal steel di Robert Randolph, e si va avanti con una Breath Of Me dove canta la giovane ZZ Ward, High Heels And Throwing Things in cui la Les Paul di Warren Haynes arriva e porta Into The Sun al suo punto più alto. Notevoli anche So Long 4 You, suonata assieme a Sonny Landreth (chitarrista cajun da me molto amato) e la conclusiva Stone Cold Heaven, dove Ford viene affiancato da Tyler Bryant, che- lo specifico per gli sprovveduti -era quel ragazzino texano sul palco del Crossroads Festival 2007 e oggi è un bravo 24enne che suona una musica fuori dal tempo e assolutamente estranea alle mode e ai tormentoni della sua generazione.
In totale, cinque bei duetti e sei brani suonati dal solo Ford. Into The Sun si lascia ascoltare volentieri, non annoia ed è prodotto benissimo da quel Niko Bolas a cui vanno moltissimi meriti nell'attività solista di questo magico virtuoso della sei corde. Paradossalmente, siamo di fronte a un album che mette d'accordo tutti: cultori elitari della musica per chitarra, rockers in erba e patiti di blues e jazz di ogni età. Il prezzo non eccessivo (una quindicina di euro) fa il resto.

sabato 4 aprile 2015

Sufjan Stevens, "Carrie & Lowell" [Suggestioni uditive]

Sufjan Stevens,
Carrie & Lowell
(Asthmatik Kitty, 2015)
















Uno dei dischi più pretenziosi e inutili che abbia mai avuto modo di sentire è stato Illinoise di Sufjan Stevens da Detroit. Scrivo il nome seguito dal luogo di provenienza come nel caso di molti filosofi e poeti medievali perchè so per certo che farà piacere a chi, da tre lustri a questa parte, scomoda boriosi paragoni fra Stevens e Cielo d'Alcamo (e Dante, e Petrarca, e Shakespeare, e Dylan Thomas, e Dylan Bob, ecc.). Ascoltai Illinoise praticamente poco dopo la sua uscita, quindi nel 2005, quindi dieci anni fa. Forse ero piccolo, forse non ero pronto come persona e come ascoltatore, forse lui era ancora acerbo come artista, ma l'impressione che mi fece fu quella di una colossale rottura di coglioni, oltre che di uno che fa musica perchè ha molto tempo libero a disposizione e qualche bella lirica nel cassetto.
Non ho più ascoltato Sufjan Stevens da allora, ma oggi- incuriosito dal cicaleccio che anche chi non ama l'indie sta emettendo riguardo a questo settimo album in studio -metto su Carrie & Lowell, dedicato alla mamma bipolare e schizofrenica (Carrie) morta nel 2012 e al patrigno (Lowell, ma non Lowell George dei Little Feat, che forse qualche dritta musicale al figliastro avrebbe potuto darla), e mi addormento quasi subito. Vanno di moda questo indie-folk e i cantanti neo-acustici, e va bene. Rubano a destra (Simon&Garfunkel) e a sinistra (i Buckley, padre e, soprattutto, figlio), ma va bene. Prendiamo Justin Vernon, ad esempio: è uno che tira fuori cose pregevoli, interessanti, a volte bellissime. E, pur essendo uno, tira fuori cose che restano, dischi eccellenti, progetti anche molto diversi gli uni dagli altri. Al contrario, le dodici lacrimevoli tracce di Carrie & Lowell hanno l'aria della raccoltina di cui si parlerà tanto sulle riviste cartacee e virtuali di oggi, ma che evaporerà banalmente nei primi raggi di sole di domani. Come succedeva ad Illinoise dieci anni fa. E io che pensavo di essere immaturo allora!
Non cambierò mai.

venerdì 3 aprile 2015

L'ultimo lupo [Recensione]

Jean-Jacques Annaud ha rotto il cazzo.
La sua idea di cinema ha rotto il cazzo.
I film con gli animali hanno rotto il cazzo. Anche i film in 3D con gli animali hanno rotto il cazzo.
I film in 3D di Annaud con gli animali hanno rotto il cazzo in maniera particolare.
Se poi si somma il fatto che la trama del suo Ultimo lupo ruoti intorno al giovane maestrino Chen Zen (Shaofeng Feng) che deve allevare un cucciolo di lupo di nascosto e contemporaneamente eludere i comunisti cattivi che vogliono i lupi morti, beh, proprio non ci siamo.
Non mancano i soliti due o tre discorsetti agili, agili di tutti i film di Annaud: la lotta fra uomo e natura, la documentazione del comportamento animale, la riflessione ecologica da blockbuster, lo scontro fra modernità (la Rivoluzione Culturale) e la tradizione (le tribù nomadi della Mongolia) mostrato senza però far emergere troppo la propria linea di pensiero (anche perchè i soldi con cui il film è prodotto sono prevalentemente cinesi). I personaggi sono banali, i dialoghi piatti, le sequenze panoramiche valide come le immagini di una puntata di Super Quark. Ci si aspetta soltanto che da dietro una duna spuntino fuori Piero e Alberto Angela: magari loro riuscirebbero a giustificare, anche con poche parole, l'inaudita paraculaggine di Annaud e di quasi tutta la sua opera.
Più che intenerire, L'ultimo lupo mette tristezza e annoia per due ore senza fare sconti. I lupi ululano e gli spettatori piangono.
A quando il mockbuster targato Asylum?

giovedì 2 aprile 2015

Fast & Furious 7 [Recensione]

In molti si domandano se Fast & Furious sia solo una saga che da tredici anni a questa parte appaga il cervello di milioni di menomati sparsi in tutto il mondo oppure un qualcosa che è partita come un chase-movie classico e al passo coi tempi ed è arrivata al punto di essere, semplicemente, bigger than nature, più grande della sua stessa natura.
Da parte mia, so che i primi tre film della serie, i più classici (il primo è un chase-movie adattato agli anni 2000, il secondo un perfetto incrocio fra action e buddy-movie, il terzo è un sub-documentario automobilistico) e i più verosimili, si sono rivelati nel corso degli anni non tanto la regola, quanto l'eccezione. Perchè Fast & Furious ha dismesso relativamente presto i panni di franchise su gare clandestine e belle ragazze in shorts ed è divenuta un'epopea gigantesca, zeppa di personaggi sopra le righe, movimenti esagerati, dialettica tamarra, musiche semi-ascoltabili e automobili che sfidano ogni legge della fisica. In poche parole: Fast & Furious è una delle saghe più trash mai prodotte per il grande schermo e della "serietà" non gliene frega più una beata sega a nessuno.
Però, pur ammettendo che spegnere i neuroni e godersi lo spettacolo più verro e abbietto sia l'unica via percorribile, bisogna dire che i capitoli 5 (2011) e soprattutto 6 (2013) di questa Bibbia delle cazzate mostravano svariati segni di cedimento: le location "da shogno" erano ridotte se non assenti, le macchine si erano fatte bruttine, l'azione finiva con l'annoiare e la CGI aveva preso il sopravvento su tutto il resto. E così, non è rimasto che cambiare regista (da Justin Lin a James Wan, uno dei nuovi masters of horror, da me assai poco amato) ed esagerare ulteriormente tutto l'esagerabile. Ne deriva un settimo film colossale sia nella durata (137 minuti) che nella forma, coatto oltre ogni limite e con tanti pregi e pochi difetti. Il pregio più grande? Non c'è un'inquadratura che sottenda serietà o smanie realiste, e ciò nonostante risulta essere il capitolo con meno effetti digitali della serie.
Il passaggio di testimone da Lin a Wan funziona alla grande: il regista di Insidious sa esattamente dove mettere la macchina da presa e non perde un colpo, regalando il Fast & Furious meglio girato dai tempi del primo film. Ma soprattutto, a Wan interessa riunire tutti i tasselli (anche geografici) della storia: finalmente, arriva l'aggancio definitivo con Tokyo Drift e finalmente si dà libero spazio all'immaginazione, fra supercar che volano e scazzottate filmate magistralmente. E poi ci sono quell'incapace di Statham, The Rock e Vin Diesel che se le danno di santa ragione, e la Lykan Hypersport che vola attraverso tre grattacieli degli Emirati Arabi, e Kurt Russell che beve la birra, e cose, persone e palazzi che esplodono con una frequenza improbabile, e una pioggia di culi inaudita, e dei dialoghi talmente spacconi da mandare a casa tutta la restante produzione action del mondo.
Riuscire a gestire tutta questa materia senza renderla noiosa e fine a se stessa (come nel caso di Fast & Furious 6, ad esempio) non è un compito semplice. Bisogna saperlo fare e ora come ora, nel mondo, in pochi ci riescono, ma Wan dimostra di conoscere le regole del gioco e di seguirle intelligentemente. Così come riesce a inserire al meglio un sentito omaggio finale a Paul Walker, vero e proprio tuffo nel mondo dei ricordi e compendio di tutta la saga. Mai verboso e mai banale.