Otto anni è il tempo che Brett Morgen ha impiegato a girare e montare Cobain- Montage Of Heck. Otto anni di screzi, interruzioni forzate, diatribe legali e pure di pause obbligatorie (non dimentichiamoci che nel 2012 è uscito l'eccellente Crossfire Hurricane, documentario sui primi venti anni di attività dei Rolling Stones), ma alla fine il film ha trionfato al Sundance ed ha ricevuto un'ottima accoglienza alla berlinale, per poi arrivare nelle sale di mezzo pianeta. Due giorni in cartellone per due sole proiezioni (prezzi appositamente rialzati, manco fossimo a vederlo in una sala IMAX in 3D) ridotti a un solo giorno dalle mie parti, causa festa patronale del 28 aprile. Ma non mi sono scoraggiato e poi, intendiamoci, io i soldi alla HBO li do volentieri.
Alla faccia della pessima distribuzione di cui godono, ho visto tantissimi rockumentari nella mia vita, la maggior parte in home video, ma alcuni- forse i migliori -anche al cinema, e raramente mi stupiscono. Lo stesso Crossfire Hurricane di Morgen mi piacque, ma senza meravigliarmi, e posso dire altrettanto di Shine A Light di Scorsese e di Neil Young: Heart Of Gold di Demme, tanto per citarne alcuni passati, con successo, nelle sale. Invece, Montage Of Heck mi ha stupito, emozionato, perfino commosso. Perchè si sceglie di gettare uno sguardo ravvicinato sull'uomo prima ancora che sul musicista e sul mito, e l'uomo Cobain era fragile e preda di ansie, paranoie, complessi e dubbi esistenziali, oltre a vivere in perenne bilico fra l'essere per se stesso e l'essere per gli altri. Morgen tappa così la bocca a quei detrattori che confidavano in una sub-specie di riscostruzione vespiana del "caso Kurt Cobain": lo fa virando verso lidi di intimismo che di rado vengono avvistati in documentari sulla musica rock. Indispensabile, ai fini della buona riuscita del film, è lo strumento delle interviste, dolorose ma necessarie. In più momenti i personaggi soffrono e rispondono con fatica a domande che, all'apparenza, non gli erano mai state poste. Si creano così tante sfaccettate micro-autobiografie confessionali, il cui risultato è un estenuante denudamento dei sentimenti e delle angosce di chi, a Kurt, è vissuto accanto. Il resto del lavoro è affidato alla musica (perchè di musica si parla) e a quel prezioso susseguirsi di citazioni, disegni, sequenze animate, conversazioni di archivio che sublimano ulteriormente riflessioni sul dolore e sulla ricerca (incompiuta o impossibile) della felicità durate ventisette anni.
Ai margini, il divario fra i tre album dei Nirvana non è mai stato descritto meglio di così e a noi- appassionati e non -non resta che calarsi nella malinconia soffusa che impregna gli struggenti filmini domestici dei Cobain, con i loro colori sgranati, il frastuono, i pettegolezzi, le eccentricità e i ritmi che si stemperano solo da ultimo nella performance definitiva dell'Unplugged, le cui immagini concludono un film che racconta una vita breve e amara, una quotidianità fatta di paure e silenzi, di malinconia e inadeguatezza, di visioni perse nei tunnel della droga e di travagli interiori che, come Montage Of Heck, lasciano ferite profonde.
Alla faccia della pessima distribuzione di cui godono, ho visto tantissimi rockumentari nella mia vita, la maggior parte in home video, ma alcuni- forse i migliori -anche al cinema, e raramente mi stupiscono. Lo stesso Crossfire Hurricane di Morgen mi piacque, ma senza meravigliarmi, e posso dire altrettanto di Shine A Light di Scorsese e di Neil Young: Heart Of Gold di Demme, tanto per citarne alcuni passati, con successo, nelle sale. Invece, Montage Of Heck mi ha stupito, emozionato, perfino commosso. Perchè si sceglie di gettare uno sguardo ravvicinato sull'uomo prima ancora che sul musicista e sul mito, e l'uomo Cobain era fragile e preda di ansie, paranoie, complessi e dubbi esistenziali, oltre a vivere in perenne bilico fra l'essere per se stesso e l'essere per gli altri. Morgen tappa così la bocca a quei detrattori che confidavano in una sub-specie di riscostruzione vespiana del "caso Kurt Cobain": lo fa virando verso lidi di intimismo che di rado vengono avvistati in documentari sulla musica rock. Indispensabile, ai fini della buona riuscita del film, è lo strumento delle interviste, dolorose ma necessarie. In più momenti i personaggi soffrono e rispondono con fatica a domande che, all'apparenza, non gli erano mai state poste. Si creano così tante sfaccettate micro-autobiografie confessionali, il cui risultato è un estenuante denudamento dei sentimenti e delle angosce di chi, a Kurt, è vissuto accanto. Il resto del lavoro è affidato alla musica (perchè di musica si parla) e a quel prezioso susseguirsi di citazioni, disegni, sequenze animate, conversazioni di archivio che sublimano ulteriormente riflessioni sul dolore e sulla ricerca (incompiuta o impossibile) della felicità durate ventisette anni.
Ai margini, il divario fra i tre album dei Nirvana non è mai stato descritto meglio di così e a noi- appassionati e non -non resta che calarsi nella malinconia soffusa che impregna gli struggenti filmini domestici dei Cobain, con i loro colori sgranati, il frastuono, i pettegolezzi, le eccentricità e i ritmi che si stemperano solo da ultimo nella performance definitiva dell'Unplugged, le cui immagini concludono un film che racconta una vita breve e amara, una quotidianità fatta di paure e silenzi, di malinconia e inadeguatezza, di visioni perse nei tunnel della droga e di travagli interiori che, come Montage Of Heck, lasciano ferite profonde.