Ci
sono o non ci sono? Resto o vado via? Vi assicuro che non è facile
nemmeno per me capire se è meglio continuare a gestire l’account o
cancellare ogni presenza sui social network. I social non mi
entusiasmano, specie negli ultimi tempi, quando studi sociali
sofisticati hanno confermato che Facebook o e compagnia bella causano
solo infelicità e- guarda caso nello stesso periodo -Zuckerberg &
co. hanno pensato bene di aggiungere, alle opzioni della bacheca, la
modalità “umore”, contraddistinta da emoticon di vario tipo
grazie a cui l'utente potrà far capire, senza la fatica di scrivere,
qual'è il suo stato d'animo.
Oltre
a questi aspetti, mi infastidisce l'uso meramente pubblicitario che
ne viene fatto. Non c’è prodotto, dal tonno in scatola alla vasca
da bagno per anziani, che non lanci un invito a «seguirlo su
Facebook» e a mettere “mi piace” sulla propria pagina. Il
feedback è immediato.
Dunque,
ottimo strumento di marketing ed eccellente mezzo per condividere la
propria vita insulsa con gli altri. Io non ho una vita insulsa; al
massimo, ho una vita vuota, è molto diverso. La vita insulsa
contiene tanti elementi insulsi che si ripetono solo perché tutti
gli altri amici insulsi li hanno inseriti nella propria vita insulsa.
La vita vuota non ha niente: non ha vacanze marittime, non ha serate
pazze al ristorante indiano, non ha figli di cui mostrare il vasino,
non ha cibi cucinati con le proprie mani da fotografare, non ha cosce
instagrammate sulla spiaggia simili a wurstel, non ha condivisioni.
Avere una vita vuota e stare su Facebook è un controsenso.
È
tipico della Rete non essere mai d’accordo con gli altri, ma io mi
ritrovo a non sopportare più l’atteggiamento opposto.
Scrivi e vedi che qualcuno ha messo “mi
piace” prima ancora che tu abbia sollevato il polpastrello dal
tasto invio. Parlare di un libro, di una band, di un cibo e trovare
dopo pochi minuti un commento in cui quella persona esprime la piena
condivisione dei tuoi gusti, quasi gemendo: «Ah! Noi sì che ci
capiamo e soffriamo in questo mondo che non ascolta X/ non legge Y/
non mangia K…». Dopo
un paio di volte ti accorgi che non può essere vero, che quella
persona sta miseramente fingendo, visto che per età, luogo in cui è
vissuta e per mille altri motivi non può aver condiviso ciò di cui
tu scrivi.
Negli
ultimi anni di liceo, alcune compagne di classe ciclotimiche
condividevano l’adorazione per il professore di scienze naturali,
per le sue performance alla Riccardo Marasco: seduto sulla cattedra,
ridicolizzava i colleghi letterati, citava in lingua originale brani
di sconosciuti chimici francesi del primo Novecento che avevano
pubblicato a proprie spese mediocri poesie che solo lui aveva letto,
raccontava brandelli della sua vita finto-avventurosa. Le ciclotimiche
intorno cinguettavano, mentre tutti gli altri erano in attesa di
sentire la campanella suonare. La signorina *** era la più attiva.
Nasceva un argomento, lei non si esprimeva: se il suo idolo
professorale lo derideva, lei atteggiava il muso in una smorfia di
disgusto e si perdeva in una sequela di risolini pieni di spregio. Se
gli occhi del magister,
al contrario, si illuminavano,
ecco che la *** annuiva pesantemente con la testa, garantendo che lei
lo aveva già detto, letto, fatto, sentito, visto, mangiato,
considerato, stato.
Pensavo
che una *** mi fosse bastata nella vita, ma ancora non avevo Facebook
(per quanto già esistesse), e non sapevo quante altre ne avrei trovate sul
social network.
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