lunedì 3 dicembre 2018

[Recensione] Bohemian Rhapsody

Buona parte dell'aurea che aleggia attorno alla musica rock la creano i fan. Almeno una volta succedeva così. D'altronde, cosa sarebbero stati i Queen senza la loro fanbase? Poco, o probabilmente poco più dell'ennesimo gruppo glam britannico che dopo una gavetta nei pub e nei campus universitari strappa un contratto a una major e piazza qualche singolo di successo in radio, supera indenne il decennio, pasticcia coi sintetizzatori nella maniera sbagliata, si fa male e muore. Eppure oggi tutti adorano i Queen e li definiscono la rock-band del cuore, quella che deve piacere se si dice di amare o anche solo di apprezzare il genere. Per quanto una persona possa avere una propria visione del rock&roll ed essere allergica alle dinamiche della massa, la massa riesce comunque a fare breccia e mettere al muro: se non ritieni Freddie Mercury il più grande cantante, performer e songwriter mai esistito, sei tu e solo tu il problema. La tua è un'opinione tossica e fine a se stessa, da relegare in un angolo. 
Ecco: vuole il caso che Bohemian Rhapsody di Bryan Singer sia un kolossal di due ore e un quarto pensato, scritto e diretto proprio da questa massa e che lo spettatore- nello specifico, il sottoscritto -sia un deviato convinto che i Queen siano stati davvero un ottimo gruppo glam britannico che dopo una gavetta nei pub e nei campus universitari è riuscito a strappare un (meritato) contratto a una major, a piazzare qualche singolo di successo in radio e a superare indenne gli anni '70 (per poi, ovviamente, fare come tanti colleghi, inciampare su un uso errato dei sintetizzatori e concludere una carriera dignitosa con canzoni piatte come quelle che oggi potete udire in una qualsiasi filodiffusione dei centri commerciali). Potrei anche scendere nel dettaglio, raccontare del mio amore per Queen II o del mio debole per Sheer Heart Attack, ma non è questo il post più idoneo. Perciò preferisco tornare sul film uscito di fresco.
Dunque, a parte tre artisti citati all'inizio e a poco più di metà del film (per la cronaca, Elton John, i Pink Floyd e Michael Jackson), nessuno nelle prime due ore di Bohemian Rhapsody lascia intendere nemmeno per un attimo che esista una scena musicale esterna al quartetto inglese. E' come se tutto fosse azzerato e calato in degli anni '70 (e '80) distopici e unidirezionali, coi Queen come esclusiva fonte musicale mondiale e ogni decisione artistica ed esistenziale dei personaggi (assai pochi, alla fine) riposta nelle mani di Freddie Mercury,  raffigurato dal bravissimo Rami Malek come istrione affabile e alla mano nella prima parte, checca narcisista e isterica in quella centrale, maturo e redento salvatore del globo nella terza. Solo con l'organizzazione amministrativa del Live Aid si intuisce che là fuori c'è un mondo, coi suoi musicisti e i suoi spettatori. In coincidenza, la scoperta della malattia di Mercury, che risulta anche la sezione più drammaticamente autentica e sincera (e riuscita) di tutto il film. Il resto del gruppo, salvo qualche pungente battuta molto british, non conta: sono una manica di coglioni, esseri umani che avrebbero ragione da vendere ma finiscono sempre ipnotizzati da questa sorta di semidio, ed è così dall'inizio alla fine. Sul versante "privato", l'ambiguità sessuale di Mercury viene trattata come un qualcosa di giusto e vincente fin quando rimane tale, ma dal momento in cui lascia l'amore della sua vita Mary Ann ammettendo la propria omosessualità, il tono del film si fa severo, perfino moralista: il Freddie gaio è una macchietta manipolata dal marionettista Paul e condotta in un vortice di cose brutte e che l'uomo dabbene condannerà. Cose come le "trokeee", i locali "gheiiii", le orge. Insomma, difficile credere che un film così fortemente autoreferenziale e costruito a misura di un personaggio passato alla storia anche come icona pop dei diritti civili si riveli per due terzi della sua durata come un'opera di smaccato familismo (e i Queen sono la famiglia, e Mary è la famiglia, e Jim viene presentato come un "amico" alla famiglia, ecc.) e strisciante puritanesimo.
Dopo una visione passata in una sala gremita (specie per essere un lunedì sera di pioggia) e in mezzo a una platea eccessivamente preda di facili entusiasmi, mi risulta difficile leggere recensioni che soprassiedono sulla "freddiecentralità" del film e preferiscono spaccare il capello, scagliarsi contro licenze narrative che da sempre ogni biopic si prende e fa bene a prendersi. C'è stato un acceso dibattito, ad esempio, sulla scelta di posticipare la composizione di We Will Rock You (pezzo del 1977) ai primi anni '80, ma nessuno si è preoccupato di far notare che una delle nemesi del film- quel Ray Foster dirigente EMI col quale si svolge il dialogo più lungo della pellicola -è in realtà un personaggio del tutto fittizio. Così come, alla lunga, risulta fuori luogo e mistificatorio il diverbio sui sei minuti di durata di una canzone che verrebbe giudicata "impassabile" dalle radio. Eppure siamo nel 1975, le classifiche del Regno Unito sono dominate da complessi prog, i generi si compenetrano, rock d'autore e pop stupidotto convivono placidamente; la forma-canzone, gli LP, i 45 giri, tutto quel mondo di sezioni e suddivisioni risulta essere un amalgama unico dentro cui l'acquirente medio ha solo da scegliere. Ma non importa: questo è Bohemian Rhapsody, la storia della musica rock inizia nel 1970 e dunque allo spettatore del 2018 va raccontato che anche la rivoluzione di un 45 giri da sei minuti è stata opera dei Queen. Una canzone che si fa dunque, automaticamente, oggetto della nuova sfida del cantante-superuomo: magari Bryan Singer ha lasciato che l'enfasi dei suoi X-Men permeasse questa rilettura della storia del rock, ma se il film si fosse intitolato Freddie contro tutti sarebbe stato un titolo ben più azzeccato.

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