domenica 30 settembre 2018

Più sangue, più tracce [Extra]

Bloccato in una assurda fila automobilistica alle porte del paese, controllo l'orologio. Sono in ritardo, ma in questi giorni amo prendermela comoda. Il contratto è scaduto e io, in attesa di un paventato rinnovo stagionale, sono in ferie. Ferie che non sembrano destinate a essere consumate in nessuna delle due mete che mi ero prefissato (la Galizia e la California) e che dunque rappresentano un capitolo ancora tutto da scrivere. Guardo il lato positivo: è il venerdì di un inizio autunno climaticamente identico alla piena estate, il sole si fa sentire, l'animo si tinge di colori neutri. Manca meno di due mesi al mio compleanno e non ho mai avuto tanta urgenza di invecchiare come adesso. Non dipende solo dal fatto che pochi giorni prima uscirà The Bootleg Series Vol. 14: More Blood More Tracks- anche se in questo caso non sarò minimamente combattuto su quale delle due versioni prendere (prenderò quella su disco singolo) -né dall'urgenza di ricevere notizie sul mio prossimo futuro lavorativo, né ancora sulla smania dettata dal concludere Gli anni selvaggi (voglio finirlo proprio entro novembre e non mi importa di niente, devo farcela). Non importa: ho i miei motivi per bramare che questo lasso di tempo scorra più veloce del solito, col sole che trafigge le tempie di questa testa fra le nuvole e col cuore scosso dall'incessante attraversamento di campagne, città e luoghi improbabili. Che il tempo svanisca, purtroppo, lo so da me.
Penso all'irrigidimento climatico che avrà luogo- si spera -fra un paio di mesi e compro un paio di pantaloni di velluto a coste color ocra che avevo in testa da tempo ma che la realtà aveva stentato a restituirmi. Sono giorni in cui leggo voracemente: in biblioteca ho preso in prestito Hotel California. L'identità del suono in più di 300 album fondamentali, un lungo (623 pagine) saggio di Mauro Ronconi sul panorama AOR e sulla sua evoluzione attraverso i decenni, ma come mi capita sempre più frequentemente con le pubblicazioni Arcana, mi incazzo e lo ripongo nel giro di poche pagine. Non succede lo stesso con M Train della Smith, che ormai scrive i libri meglio di quanto le riesca fare con le canzoni. In contemporanea, proseguono le "riletture": nelle ultime settimane tocca a Post-office di Bukowski e a La nascita della filosofia di Giorgio Colli, un libro che andrebbe fatto leggere  obbligatoriamente in terza superiore in tutti i licei di Italia: sono convinto che i pregiudizi (se non l'odio) nei confronti di una materia come la storia della filosofia si attenuerebbero non poco.
Quella che va rivelandosi come una delle letture più intense degli ultimi mesi me la regala Martina poche sere prima di partire per Bali. E' una serata strana. Siamo seduti nel giardino sul retro di casa sua ad ammirare l'estate dissolversi. Mentre arrivavo ad Air Mountain, in macchina, ho percorso gli ultimi chilometri imboccando un breve tratto di Chiantigiana e lasciando che dai finestrini abbassati entrasse l'inconfondibile odore di vigne ancora per poco gravide d'uva: attraverso l'oscuro calore della notte mi è quasi parso di poter contare i chicchi uno a uno. Incrocio le gambe alla maniera degli indiani e vengo invitato a portare in fondo una riserva dei Colli Senesi biologica. <<Tanto era aperta...>>. Racconto di quanto negli ultimi giorni abbia sbrigato il mio lavoro diligentemente ma con un insano miscuglio di noia, accidia e fastidio debitamente espanso per tutte le vene del corpo. Cerco di spiegare come, dopo due mesi e mezzo di flusso ininterrotto e dionisiaco, la mia vena creativa stia pericolosamente rientrando in standard più apollinei e che le bestemmie e i sospiri, alla fine, non servano a molto. <<Fare i conti con un foglio bianco è sempre più difficile. Anche per questo ho praticamente smesso di scrivere>>, sovviene Martina. Poi mi porge il suo regalo pre-feriale: il romanzo Scritto sul corpo di Jeanette Winterson, una scrittrice inglese di cui ho sentito molto parlare ma della quale non ho mai letto niente. E' un'edizione di una collana che negli ultimi anni ha perso gradualmente smalto e qualità, ossia la Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, un tempo contraddistinta da quelle pagine di carta pesante tagliate in maniera a dir poco grossolana. <<Questo è il suo best-seller per eccellenza, il libro che tutti leggono quando decidono di scoprire la Winterson>>, mi spiega mentre io ne ammiro la dedica ingenuamente scritta a lapis e poi ripassata a penna. Non ricevendo praticamente più regali da nessuno (c'è la crisi e siamo invecchiati), tendo a emozionarmi. Va da sé che Martina non mi regalava un libro dal compimento dei miei diciotto anni e che la Winterson, dopo appena sei pagine, mi conquisterà perdutamente, con lo stile di una mosca bianca autentica e affascinante e una storia enigmatica e particolarissima. Il fatto di aver ricevuto il romanzo in una serata che sembra uscire dai solchi di Ladies of the Canyon non significa però che questa sia una scrittrice beat o allineata col mood narrativo delle signore forti e temprate dalla vita. Al contrario, anche nei passaggi più "caldi" la Winterson si conferma un'autrice estremamente british, la sua sensibilità è intima e riflessiva, racconta il sesso accuratamente ma lo fa con parole rarefatte e aggettivi centellinati. Insomma, se si cerca un corrispettivo letterario a The North Star Grassman and the Ravens di Sandy Denny, in Scritto sul corpo lo si può trovare.
Mi sforzo di girovagare più avanti e poco indietro, immergendomi laddove possibile nei primi, timidi umori autunnali. L'aria della mattina non sempre si rivela benevola, ma il tramonto, l'ora del tramonto, restituisce la giusta dimensione alla scorrevolezza della vita. Di ritorno da un'escursione pomeridiana nel bosco di Sasseta, mi imbatto in una luce fantastica. La strada di Coneo è quella che ho percorso in motorino con Nikke in molte occasioni: una volta, ci abbiamo visto l'alba insieme, all'inizio di giugno, ma era un'altra vita. Scatto qualche foto, mi concedo un selfie coi Ray-Ban sugli occhi e con la terra arata di fresco che assume quel colore fra il rosso e il marrone scuro di sfondo. Rincaso passando da borghetti rustici dove i migranti aspettano l'autobus fissando ognuno il proprio smartphone (non sventolano i proverbiali 35 euro al giorno, ma poco importa) e dove signore di mezza età fanno footing avviluppate da improbabili tute Decathlon e tengono un passo che le fa somigliare a delle papere intorpidite dal sonno. Lo stereo butta fuori l'ultima, gradevole fatica solista di Slash (e Myles Kennedy), scaricata di fresco. Qualche idea qua e là emerge, ma, a ogni modo, la banalizzazione in atto nella attuale scena mainstream rock non trova termini di paragone con nulla.
E' un martedì pomeriggio quando torno a casa e mi faccio un caffè che non è solo lungo: rasenta l'infinito. Lascio nell'impianto Los Angeles degli X, che è agli sgoccioli. Batto alcuni paragrafi aggiuntivi del primo capitolo de Gli anni selvaggi, ma il risultato mi disturba, è palloso solo a rileggerlo. Fuori gli X, dentro Tumbleweed Connection di Elton John. La situazione migliora, va bene, ma le parole continuano a fare fatica ad uscire. Chiudo il portatile/macchina da scrivere e mi butto in un angolo, tentando di raccogliere idee che non arriveranno mai. Ci facciamo tante pippe sullo scrivere con la giusta musica e bevendo caffè nella propria camera piena di oggetti che amiamo, ma a me riesce davvero bene solo senza musica, senza bere e possibilmente fuori di camera. Era così dieci, dodici, tredici anni fa ed è così oggi.

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