sabato 24 marzo 2018

"La primavera bussa alle porte, entra dalle finestre, s’infila sotto le gonne delle donne..." [Extra]

Arrivo all'equinozio reduce da: 
- l'ennesima bastonata elettorale (chi se ne intende però mi rassicura che il "risultato politico c'è", mah...); 
- un cambiamento lavorativo sostanziale (nuova mansione che svolgo alzandomi prima e venendo pagato meglio);
- un raffreddore strascicato per la bellezza di sei giorni, un numero inestimabile di giravolte spirituali alberganti il mio animo inquieto. 
Proprio una di queste ultime mi porta a riflettere sui rapporti umani che intrattengo con chi mi sta intorno qua in paese. Il paesone (21.000 abitanti) non è propriamente la realtà romantica dei romanzi di Piero Chiara, nè quello immortalato su cartoline e calendari guarniti di girasoli, tramonti e balle di fieno. Al contrario, è un surrogato di vizi e mali comuni che però può ospitare angoli di assoluta bellezza. Di questi angoli, girellando sotto il freddo sole marzolino e chiacchierando con le persone giuste, inizio a scorgerne parecchi, ma nessuno di questi ha a che fare con certe amicizie rinsecchite o con alcune storiche e anacronistiche compagnie della zona. A tal proposito, passo alcuni giorni a riflettere fino ai limiti della meditazione, mentre, in contemporanea, coltivo il mio angolo zen dotandolo di nuovi , simpatici orpelli.
Il grosso leccio che piantammo quando ci trasferimmo all'Agrestone (fine 1995), è stato tagliato alcuni anni fa. Nessun rimpianto, sia chiaro, ma continua a risultarmi difficile spiare gemme e germogli degli altri giardini per contemplare l'inizio della primavera. Quest'anno, la tv ha parlato di un equinozio anticipato al 20 marzo: non so se, quel fatidico giorno, nei loro studios già girellavano in bermuda e sandali, ma a casa mia la temperatura non ha superato gli 8° e la mattina alle 06:45, uscendo dal garage, ho intravisto della brina sulle macchine del vicinato. "La primavera bussa alle porte, entra dalle finestre/ s'infila sotto le gonne delle donne", canticchio andando a lavoro, col climatizzatore impostato sui 22° e naso e bocca saggiamente infilati nell'imbottitura della giacca a vento più pesante che posseggo. 
Coltivando un misto di delusione e disinteresse nei confronti delle notizie dal mondo, ho gradualmente dismesso l'idea dell'importanza del quotidiano cartaceo. Dove abito, l'uomo medio vota PD ma legge La Nazione, rotocalco nazional-popolare perfetto per chi è di bocca buona e buono stomaco e a cui, dai tempi del liceo in poi, io e i miei amici abbiamo dedicato offese, filastrocche e parodie di ogni genere. Sulle pagine del Vernacoliere, La Nazione diviene spesso "La Fazione" e "La Delazione", mentre, a Firenze, dove tutt'oggi è ubicata la redazione centrale, non disdegnano definirla "La Bugiardona". Chi studia scienze della comunicazione dovrebbe dedicare una tesi di laurea al razzismo e al gentismo spiccioli insiti nei bugiardini di cronaca locale, mentre un comico professionista di quelli seri- perciò, nè la Litizzetto, nè Crozza -avrebbe una miniera giornaliera di spunti e idee da inserire nelle proprie invettive contro ottusità, demenza e oscurantismo. La Nazione è il giornale che trovo al bar, dal barbiere, nelle sale d'aspetto, nei pubblici uffici: dopo averne letto tre pagine una persona sana di mente dovrebbe quantomeno rifarsi la bocca. Per un appassionato di terze pagine (altro settore giornalistico in crisi irreversibile) e inserti culturali, il panorama attuale dei quotidiani ha ben poco da offrire. Il Fatto mi umilia, il Corriere fa schifo, La Stampa gli tiene degnamente compagnia (ma sotto l'egida di un diverso padrone), la Repubblica ha la profondità (e la grammatica) di Cioè, quel poco di buono che continuano a inserire sul Venerdì tratta solo di cucina e ristorazione, mentre L'Espresso e Panorama sembrano i protagonisti- uno a sinistra, l'altro a destra-del famoso gioco della Settimana Enigmistica intitolato Trova le differenze. Se tutta l'informazione di carta ormai si somiglia e dice le stesse cose, nulla sembra essersi più uniformato dei giornali di area libertaria e sinistrata. Il Manifesto era l'unico quotidiano che ogni tanto poteva continuare a fare il suo ingresso in casa nostra, ma dopo questa vergognosa campagna mediatico-elettorale a favore di L&U lo abbiamo definitivamente depennato. Una decisione legittima e assennata, che però mi fa sorgere una domanda: in un futuro totalmente a digiuno di Alias, chi mi segnalerà dischi come El Buen Gualicho (Casa del Arbol, 2017 ½) di Natalia Doco?
Jimi Hendrix è uno dei chitarristi rock più noti al grande pubblico, e con ogni probabilità è anche il migliore mai apparso sulle scene. Se la cronologia e la biografia dell'artista e la ricostruzione del contenuto dei suoi album abbozzati e mai realizzati hanno offerto largo campo alle dispute filologiche, l'abbondanza e la scarsa rilevanza di outtakesalternate version e frammenti superstiti rendono necessario un discorso storico-critico. Più o meno otto anni fa, infatti, venne massicciamente pubblicizzato un evento discografico della Sony Music: consisteva nel presentare un "nuovo" disco di materiale "inedito" a firma Hendrix. Valleys of Neptune era in realtà ben altro: era il primo tassello di una trilogia voluta dalla Hendrix Foundation che provasse a fare ordine in una produzione confusionaria e incompiuta (quella post-1968) e che fosse in grado di offrire alle nuove generazioni prodotti più curati rispetto al passato. Co-regista di questa operazione di recupero fu ed è ancora oggi Eddie Kramer, l'uomo che nel 1997 salvò in blocco l'opera postuma di Hendrix consegnando ai posteri First Rays of the New Rising Sun, ossia quanto di più simile ad un quarto album in studio del mancino di Seattle potrete ascoltare in vita vostra. Alcuni mesi dopo, gli fece eco South Saturn Delta, meno omogeneo ma comunque pieno di bella roba davvero mai udita, comprendente materiale che addirittura risaliva al 1967. Kramer è la persona che ci ha abituati ad aspettarci grandi cose dagli archivi hendrixiani, essendo lui per primo amico del mancino di Seattle e un frate certosino quando si tratta di tirare fuori il meglio da nastri che, a quasi cinquant'anni dalla morte del chitarrista, continuano a sembrare infiniti. Il successivo People, Hell & Angels (2013) ha definitivamente mostrato che i tempi di Alan Douglas- ossia colui che per un quarto di secolo ha avuto l'esclusiva su questa immensa mole di materiale -sono lontani e che, insomma, non capiterà più di ascoltare una canzone di Hendrix con basso e batteria aggiunti da qualche scalcagnato turnista negli anni Ottanta. A inizio marzo, la trilogia auspicata dalla Sony si è conclusa con l'uscita di Both Sides of the Sky (Sony Music, 2018 ), che mantiene tutte le promesse possibili e addirittura regala un risultato perfino superiore alle aspettative. A partire da una versione alternate di Mannish Boy migliore di quella ospitata nella leggendaria raccolta Blues (1994) fino al duetto con Stephen Stills di Woodstock, tutto ciò che è qua dentro attesta un rispetto e un amore incondizionati da parte di Kramer per Hendrix. Imprescindibile per chi ama la chitarra elettrica in toto, ancor più indispensabile per gli appassionati dell'Hendrix più "scarno" e orientato al rock blues.
Dopo un mese di reciproche promesse e rimandi, ieri sera io e Sofi siamo riusciti in un'impresa che ormai ci appariva sovrumana: andare a cena fuori io e lei da soli e, già che c'eravamo, abbinando un bel concerto al solito "mangia&bevi". Con anticipo ero venuto a conoscenza del fatto che, a fine marzo, Angela Baraldi sarebbe uscita dalle mura della sua Bologna, avrebbe scavallato l'Appennino e sarebbe giunta nel nostro comune per portare i pezzi di quello che- fra quelli che ho sentito -è stato uno dei due, tre migliori dischi italiani del 2017, ossia Tornano sempre (Woodwarm Label, 2017 ½). Rocker di grande caratura, chiamata al battesimo del fuoco da Lucio Dalla ai tempi  di DallaMorandi e poi eletta sua eccelsa corista nella turné di Cambio, paradossalmente nota al grande pubblico più per il suo ruolo di attrice protagonista di Quo vadis, Baby? (film e serie tv ideati da Salvatores usciti a cavallo fra 2005 e 2008), la Baraldi è tornata ad un disco solista dopo dodici anni di sodalizio con Massimo Zamboni e progetti assolutamente non all'altezza della sua bravura (mi viene in mente l'interludio Post-CSI). Dal vivo, presenta un set infuocato: la title-track di Tornano sempre stabilisce le prerogative di un'ottima serata, l'omaggio a Bowie di 1000 poeti, il surrealismo di Michimaus, un'accorata versione di Pissing in the River della Patti Smith fanno il resto. Lei calcia via la bottiglietta d'acqua che il tecnico del suono le ha messo a fianco dell'asta del microfono, scende fra il pubblico, pesta i suoi stivali di serpente sulla pedalina degli effetti, si toglie la giacca da biker color ocra, rende onore al suo rimpianto mentore prima con la sconosciuta (almeno a me) La signora e poi- roba per gente non esattamente di Faenza -con Anidride solforosa. E poi ancora brani dall'ultimo album ci conducono a una tiratissima I wanna be your dog che si fonde con una (prevedibile?) Io sto bene dell'amico (suo) Giovanni Lindo. Per quel che mi riguarda, una serata dove solide certezze hanno trovato degna conferma. Chi invece oscilla senza andare oltre fra le nuove voci di X-Factor e la Pausini che per vendere dischi visita i bimbi negli ospedali troverà la Baraldi a dir poco spiazzante. Se si parla di sicurezza, emozionalità, presenza e personalità, ieri sera ci siamo assestati davvero svariate spanne sopra la media nazionale (e, manco a dirlo, popolare). Un piacere sentirla, vederla, applaudirla.
Angela Baraldi duo a Bottega Roots (23/03/2018)



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