Johnny Winter (1944-2014) |
Prima di lasciare il Texas, incise The Progressive Blues Experiment, una sorta di demo registrata ad Austin con un batterista e un bassista e fatta uscire dalla piccola Sonobeat Records in un centinaio di copie e pensata più come "biglietto da visita" che come LP vero e proprio. Fu proprio questo disco ad attirare l'attenzione sia dei discografici della Atlantic, sia dei colleghi Al Kooper e Michael Bloomfield, che lo invitarono a suonare a New York e ne fecero uno degli astri nascenti della scena del Fillmore East. Oltre ad esibirsi a Woodstock, il texano iniziò a frequentare Jimi Hendrix e la sua cricca, e vuole la leggenda che, fra i solchi di un controverso bootleg chiamato Woke Up This Morning And Found Myself Dead e registrato al club The Scene con Jim Morrison all'armonica, si potesse udire anche la sua Firebird. John Hammond Sr. si incuriosì e mise i suoi agenti sulle tracce di Johnny Winter, "il chitarrista blues più bianco di tutti". La Columbia offrì una cifra altissima per accaparrarselo e la spuntò rispetto alla Atlantic, facendolo firmare per tre album in studio e un live. Ma anche il giovane virtuoso dettò condizioni precise: la prima, fu quella di scegliersi da solo i musicisti, la seconda fu quella di andare ad incidere il suo primo album lontano dalla metropoli.
Recuperati i fidi Tommy Shannon (basso) e Uncle Joe Turner (batteria), nel gennaio del 1969, si trasferì a Nashville, città dove avrebbe inciso il suo capolavoro d'esordio, supportato anche da ospiti d'eccezione quali Willie Dixon, Walter Shakey Horton e, ovviamente, il fratello Edgar, coinvolto come sassofonista e pianista. Johnny Winter uscì in aprile, ma furono i concerti successivi alla sua pubblicazione a garantirgli il successo nazionale e ad imporlo come uno dei più grandi chitarristi rock in circolazione. La Columbia organizzò un tour mastodontico, durante il quale lo maestria tecnica di Johnny si consolidò, orientandosi verso le nuove sonorità hard rock che stavano trovando terreno fertile anche negli States. Pare che fu proprio per reggere i ritmi estenuanti della vita on the road che il chitarrista iniziò ad annacquare le proprie performances con litri e litri di Jack Daniel's e a fare, regolarmente, uso di eroina. Questo fu, grossomodo, l'ambiente in cui nacque Second Winter, doppio capolavoro superiore perfino all'album dell'esordio.
A parte la particolarità delle sole tre facciate incise sulle quattro presenti, Second Winter, uscito nell'autunno del 1969, guardava meno alla tradizione del Delta blues e più alle recenti produzioni di Hendrix, degli Who e, soprattutto, al primo album dei Led Zeppelin. Sette covers (fra le altre, le leggendarie versioni di Johnny Be Goode e Highway 61) e quattro superlativi brani propri che fondevano blues, rock&roll e alcuni primordiali pruriti heavy, un genere a cui Winter si sarebbe avvicinato moltissimo nel corso dei dieci anni successivi senza mai abbracciarlo del tutto.
Il ritorno a New York coincise con lo scioglimento della band che lo aveva accompagnato fino ad allora e portò ad una prima rottura col fratello Edgar (si sarebbero ripresi più avanti per una mediocre collaborazione familiare), convinto a portare avanti una propria carriera solista e poco incline a condividere gli eccessi di Johnny. Eccessi che, al contrario, erano di casa presso un complesso chiamato McCoys, capitanato dal carismatico chitarrista Rick Derringer, effervescente strumentista che aveva già compreso il potenziale di gruppi quali Black Sabbath e Deep Purple. La Columbia supportò economicamente il sodalizio fra il bluesman albino e la band di Derringer, e da questo incontro sarebbero nati il duro Johnny Winter And (1970) e il superlativo Johnny Winter And Live (1971), ruggente testimonianza dal vivo di quel periodo.
Ma il Destino venne a bussare alla porta di Johnny Winter proprio in quell'anno 1971, e il palco su cui ogni sera si consumava uno show proto-metal portentoso e al limite, fu lo stesso luogo dove il chitarrista crollò fisicamente e psicologicamente. Seguirono una dolorosa disintossicazione, il rinnovo del contratto con la Columbia e una sfilza di dischi, alcuni riusciti (Still Alive And Well), altri meno (Saints And Sinners, John Dawson Winter III). Tuttavia, il nome di Johnny Winter rischiava di tornare alle bettole di provincia a cui era sfuggito nel decennio precedente, ma volle il caso che Steve Paul, impiegato della Epic CBS, avesse da poco tempo fondato una propria etichetta specializzata in blues e affini e che fosse pure il produttore delle prove soliste di Derringer. I primi anni alla Blue Sky (questo il nome della casa di produzione) furono abbastanza demoralizzanti: non bastarono a rilanciare il chitarrista texano nè l'album di duetti registrato con Edgar (Together, perlopiù composto da standard rockabilly degli anni Cinquanta e pubblicato a nome di entrambi i fratelli), nè un secondo, sbiadito live dal poco originale titolo Captured Live (1976).
Fu necessario l'arrivo della leggenda Muddy Waters nella scuderia Blue Sky per far tornare Johnny Winter a fare blues in maniera seria e impeccabile. A lui spettò l'onore di produrre Hard Again (1977), uno dei capolavori di Waters, che contraccambiò il favore prestando la voce per Nothin'But The Blues, disco di Winter uscito in quello stesso anno. Il tour che seguì Hard Again (una serata alla Boston Massey Hall è stata recentemente ristampata su due, costosi compact) rappresentò una rinascita umana e artistica per il bluesman di Beaumont, intento a suonare a fianco del suo idolo e in compagnia di veri pezzi da novanta come Bob Margolin, Pinetop Perkins, Willie Smith e James Cotton. Purtroppo per lui, però, il successo che accompagnava quei giorni (come produttore avrebbe lavorato agli ultimi due dischi in studio di Waters e perfino al bellissimo Muddy "Mississippi" Waters Live) sarebbe svanito di lì a poco e pure il contratto con la Blue Sky si sarebbe concluso con due lavori davvero scadenti: White, Hot And Blue (1978) e, peggio ancora, Raisin'Cain (1980).
Al contrario di molti coetanei, l'entrata nei "difficili" anni Ottanta non portò la carriera di Johnny Winter in fondo al baratro. Anzi, per molti versi la rafforzò e le donò un guizzo di originalità in cui prima deficiava. E per quanto- all'infuori di alcune serate in cui proponeva i consueti "cavalli di battaglia" (ad esempio, alla Woodstock Reunion del 1979) -di Winter si stessero perdendo le tracce, l'albino chitarrista covava in segreto una nuova svolta per la sua carriera. Sapeva infatti che all'Alligator di Chicago (un'etichetta fondata da Bruce Iglauer, editore della rivista Living Blues) gli avevano messo gli occhi addosso già alla fine degli anni Settanta, e dal momento in cui la casa discografica stava facendo un ottimo lavoro con gente del calibro di Roy Buchanan, Buddy Guy e Albert Collins, Winter non si tirò indietro e firmò. La politica della Alligator era molto diversa da quella della Columbia e della Blue Sky: si stampavano meno copie dei dischi, si organizzavano tour di dimensioni più contenute rispetto a quelli delle major, mancavano i soldi per mandare un artista a incidere a Los Angeles, Nashville, Memphis o New York, ma al contempo, sulla libertà artistica e i tempi di produzione, veniva data carta bianca.
Non fu un caso, perciò, che il nuovo album firmato Johnny Winter, Guitar Slinger (1984), impiegò ben quattro anni prima di vedere la luce. Con le sue dieci tracce (quaranta minuti scarsi di solido hard blues), era il primo disco totalmente scritto da Winter. Nessuna cover, nessuno standard, ma molti suoni insoliti (non ultimo quello della sua nuova chitarra senza tasti), l'uso intelligente delle tastiere di Ken Saydak e un lavoro di produzione "a sei mani" davvero ottimale. E passò solo un anno prima che uscisse un vero e proprio sequel di Guitar Slinger, ovvero Serious Business (1985), stesse atmosfere, stessa scelta di utilizzare solo materiale proprio, risultati molto diversi, visto che vendette meglio e si candidò anche per un Grammy.
L'attività in studio di Winter con la Alligator si concluse nel 1986, quando uscì 3d Degree, un disco dove trovavano nuovamente spazio canzoni altrui (Elmore James, J.B. Lenoir, Willy Dixon, Freddie King) e sonorità nettamente più acustiche. Dopodichè il Sud reclamò questo suo figlio, esule da ormai troppo tempo, e lo convinse a tornare a casa. I fortunati che accolsero il talento di Johnny Winter alla fine degli anni Ottanta furono i patron della MCA, che stanziarono molti soldi, valenti strumentisti (solo Saydak continuò a lavorare su concessione della Alligator) e pagarono profumatamente Terry Manning per produrre un album di rock-revival che seguisse le mode dell'epoca: chitarre impacchettate per la radio, tastiere a manetta, batteria che spingesse a tutto volume. The Winter Of '88- paradossalmente registrato in primavera a Memphis -si avvaleva di testi scritti da terzi (fra questi lo stesso Manning) e di una sola valida canzone (Stranger Blues di Elmore James), ma risultò un lavoro talmente avvilente che Winter revocò il contratto che lo legava alla MCA e si mise nelle mani della Point Blank, una sussidiaria della Virgin.
La Point Blank era davvero un'etichetta di eccellenza: nata nel 1988, aveva messo sotto contratto, in tempi record, miti viventi quali John Lee Hooker, Solomon Burke, John Hammond Jr. e Van Morrison. I produttori erano i primi a trattare con ossequioso rispetto gli artisti, essendo questi quasi esclusivamente veterani di comprovata fede. Di nuovo votato a fare il blues, Johnny Winter si ritrovò ad incidere con una super-band che comprendeva non solo l'inossidabile Ken Saydak, ma anche Billy Branch e Dr. John. Fondamentale risultò essere anche Dick Shurman, produttore sinceramente appassionato. Ciò che venne fuori furono le tredici, bellissime tracce di Let Me In (1991), un disco morbido e rilassato come l'albino non ne aveva mai fatti. Ma il vero capolavoro di Winter negli anni Novanta arrivò l'anno dopo e si chiamava Hey, Where's Your Brother?, album in cui alla band già rodata tornava ad aggiungersi "fratellino" Edgar. L'entusiasmo era talmente alto all'epoca che, sempre in accordo con la Virgin, il chitarrista- sposato di frescon con Susan Waford -decise di dare alle stampe Live In NYC '97, un po' artificioso nei suoni ma tutto sommato riuscito.
Poi fu di nuovo l'oblio a scendere sulla vita e la carriera di Johnny Winter. Si vociferava di problemi di salute piuttosto seri per il chitarrista e perfino i soldi, a detta di molti addetti ai lavori, sembravano essere fonte di preoccupazione. Del resto, Winter si interessò sempre molto poco ai conti, tant'è che, con l'avvento del download illegale e della musica liquida, iniziarono a fioccare live e outtakes scoperti da ogni diritto d'autore e addirittura antecedenti al suo primo contratto con la Columbia. Ma I'm A Bluesman (2004) cadde a fagiolo per rompere qualunque negativa supposizione: un discreto disco di energico rock blues, registrato con nuovi musicisti e prodotto con tutti i rismi del caso. Inoltre, fu quella l'occasione in cui Winter conobbe Paul Nelson, chitarrista ritmico che tanto lo avrebbe aiutato negli ultimi anni.
I'm A Bluesman impose di nuovo il chitarrista di Beaumont al grande pubblico. Clapton lo volle al suo Crossroads Festival nel 2007, i più prestigiosi eventi di jazz e blues di tutto il mondo ebbero modo di ospitarlo e perfino le nuove leve della chitarra poterono fregiarsi della sua collaborazione in concerto. Con un estenuante lavoro di archivio, lanciò- tramite il suo fan club e grazie all'etichetta Friday Music -la fortunata Live Bootleg Series, ad oggi giunta al considerevole traguardo di undici volumi. Il 2009 fu l'anno in cui la Sony dette alle stampe la registrazione completa della performance tenuta quarant'anni prima da Johnny Winter a Woodstock. Parte del materiale live degli anni Settanta fu ristampato (non sempre nel modo più dignitoso) da piccole case discografiche sempre in questo periodo, ma a Winter interesseva più che altro ritornare in studio e incidere piuttosto che limitarsi a prestazioni occasionali, serate revival e riscossioni per i diritti degli innumerevoli greatest che stavano iniziando a sovraffollare il mercato.
Tale occasione gli venne fornita dal suo chitarrista Paul Nelson, eclettico sessionman che sporadicamente si prestava anche alla produzione. Nonostante i molti anni che li dividevano, Nelson capì perfettamente cosa Winter volesse ottenere da un ipotetico nuovo album e decise di produrglielo di tasca propria. La Megaforce (casa notoriamente lontana dal blues e a cui va il merito di avere sfornato i primi due album dei Metallica) fu la nuova e ultima etichetta con cui Johnny Winter avrebbe stipulato un contratto discografico. Roots uscì il 27 settembre del 2011 e fece rimanere di stucco tutti: undici canzoni, nessuna firmata da Winter, un ospite illustre a brano. Nell'ora scarsa del disco si succedono, ad affiancare l'albino, Sonny Landreth, Jimmy Vivino, Warren Haynes, Frank Latorre, John Popper, Vince Gill, Susan Tedeschi, Edgar Winter, Derek Trucks, John Medeski e lo stesso Paul Nelson. La qualità dei musicisti, unita agli arrangiamenti dei classici blues del passato più o meno remoto, fecero di Roots il migliore disco di Johnny Winter uscito da trent'anni a quella parte.
Assolutamente non da meno è stato Step Back, purtroppo uscito postumo nel settembre del 2014 e concepito e registrato in maniera analoga al precedente. Stavolta ci sono i Blues Brothers Horns, Ben Harper, Eric Clapton, Brian Setzer, Billy Gibbons, Joe Bonamassa, Jason Ricci, Leslie West, Joe Perry e Dr. John.
Due giorni dopo aver partecipato al Cahors Blues Festival in Francia, Johnny Winter venne trovato morto nella sua camera di albergo a Montreux, in Svizzera. Era il 16 luglio 2014.
Meno di un anno dopo, Step Back vinse il premio come miglior album blues ai Grammy Awards 2015. Il primo e unico della sua carriera, dopo decenni di candidature sfumate nel nulla.
A parte la particolarità delle sole tre facciate incise sulle quattro presenti, Second Winter, uscito nell'autunno del 1969, guardava meno alla tradizione del Delta blues e più alle recenti produzioni di Hendrix, degli Who e, soprattutto, al primo album dei Led Zeppelin. Sette covers (fra le altre, le leggendarie versioni di Johnny Be Goode e Highway 61) e quattro superlativi brani propri che fondevano blues, rock&roll e alcuni primordiali pruriti heavy, un genere a cui Winter si sarebbe avvicinato moltissimo nel corso dei dieci anni successivi senza mai abbracciarlo del tutto.
Il ritorno a New York coincise con lo scioglimento della band che lo aveva accompagnato fino ad allora e portò ad una prima rottura col fratello Edgar (si sarebbero ripresi più avanti per una mediocre collaborazione familiare), convinto a portare avanti una propria carriera solista e poco incline a condividere gli eccessi di Johnny. Eccessi che, al contrario, erano di casa presso un complesso chiamato McCoys, capitanato dal carismatico chitarrista Rick Derringer, effervescente strumentista che aveva già compreso il potenziale di gruppi quali Black Sabbath e Deep Purple. La Columbia supportò economicamente il sodalizio fra il bluesman albino e la band di Derringer, e da questo incontro sarebbero nati il duro Johnny Winter And (1970) e il superlativo Johnny Winter And Live (1971), ruggente testimonianza dal vivo di quel periodo.
Ma il Destino venne a bussare alla porta di Johnny Winter proprio in quell'anno 1971, e il palco su cui ogni sera si consumava uno show proto-metal portentoso e al limite, fu lo stesso luogo dove il chitarrista crollò fisicamente e psicologicamente. Seguirono una dolorosa disintossicazione, il rinnovo del contratto con la Columbia e una sfilza di dischi, alcuni riusciti (Still Alive And Well), altri meno (Saints And Sinners, John Dawson Winter III). Tuttavia, il nome di Johnny Winter rischiava di tornare alle bettole di provincia a cui era sfuggito nel decennio precedente, ma volle il caso che Steve Paul, impiegato della Epic CBS, avesse da poco tempo fondato una propria etichetta specializzata in blues e affini e che fosse pure il produttore delle prove soliste di Derringer. I primi anni alla Blue Sky (questo il nome della casa di produzione) furono abbastanza demoralizzanti: non bastarono a rilanciare il chitarrista texano nè l'album di duetti registrato con Edgar (Together, perlopiù composto da standard rockabilly degli anni Cinquanta e pubblicato a nome di entrambi i fratelli), nè un secondo, sbiadito live dal poco originale titolo Captured Live (1976).
Fu necessario l'arrivo della leggenda Muddy Waters nella scuderia Blue Sky per far tornare Johnny Winter a fare blues in maniera seria e impeccabile. A lui spettò l'onore di produrre Hard Again (1977), uno dei capolavori di Waters, che contraccambiò il favore prestando la voce per Nothin'But The Blues, disco di Winter uscito in quello stesso anno. Il tour che seguì Hard Again (una serata alla Boston Massey Hall è stata recentemente ristampata su due, costosi compact) rappresentò una rinascita umana e artistica per il bluesman di Beaumont, intento a suonare a fianco del suo idolo e in compagnia di veri pezzi da novanta come Bob Margolin, Pinetop Perkins, Willie Smith e James Cotton. Purtroppo per lui, però, il successo che accompagnava quei giorni (come produttore avrebbe lavorato agli ultimi due dischi in studio di Waters e perfino al bellissimo Muddy "Mississippi" Waters Live) sarebbe svanito di lì a poco e pure il contratto con la Blue Sky si sarebbe concluso con due lavori davvero scadenti: White, Hot And Blue (1978) e, peggio ancora, Raisin'Cain (1980).
Al contrario di molti coetanei, l'entrata nei "difficili" anni Ottanta non portò la carriera di Johnny Winter in fondo al baratro. Anzi, per molti versi la rafforzò e le donò un guizzo di originalità in cui prima deficiava. E per quanto- all'infuori di alcune serate in cui proponeva i consueti "cavalli di battaglia" (ad esempio, alla Woodstock Reunion del 1979) -di Winter si stessero perdendo le tracce, l'albino chitarrista covava in segreto una nuova svolta per la sua carriera. Sapeva infatti che all'Alligator di Chicago (un'etichetta fondata da Bruce Iglauer, editore della rivista Living Blues) gli avevano messo gli occhi addosso già alla fine degli anni Settanta, e dal momento in cui la casa discografica stava facendo un ottimo lavoro con gente del calibro di Roy Buchanan, Buddy Guy e Albert Collins, Winter non si tirò indietro e firmò. La politica della Alligator era molto diversa da quella della Columbia e della Blue Sky: si stampavano meno copie dei dischi, si organizzavano tour di dimensioni più contenute rispetto a quelli delle major, mancavano i soldi per mandare un artista a incidere a Los Angeles, Nashville, Memphis o New York, ma al contempo, sulla libertà artistica e i tempi di produzione, veniva data carta bianca.
Non fu un caso, perciò, che il nuovo album firmato Johnny Winter, Guitar Slinger (1984), impiegò ben quattro anni prima di vedere la luce. Con le sue dieci tracce (quaranta minuti scarsi di solido hard blues), era il primo disco totalmente scritto da Winter. Nessuna cover, nessuno standard, ma molti suoni insoliti (non ultimo quello della sua nuova chitarra senza tasti), l'uso intelligente delle tastiere di Ken Saydak e un lavoro di produzione "a sei mani" davvero ottimale. E passò solo un anno prima che uscisse un vero e proprio sequel di Guitar Slinger, ovvero Serious Business (1985), stesse atmosfere, stessa scelta di utilizzare solo materiale proprio, risultati molto diversi, visto che vendette meglio e si candidò anche per un Grammy.
L'attività in studio di Winter con la Alligator si concluse nel 1986, quando uscì 3d Degree, un disco dove trovavano nuovamente spazio canzoni altrui (Elmore James, J.B. Lenoir, Willy Dixon, Freddie King) e sonorità nettamente più acustiche. Dopodichè il Sud reclamò questo suo figlio, esule da ormai troppo tempo, e lo convinse a tornare a casa. I fortunati che accolsero il talento di Johnny Winter alla fine degli anni Ottanta furono i patron della MCA, che stanziarono molti soldi, valenti strumentisti (solo Saydak continuò a lavorare su concessione della Alligator) e pagarono profumatamente Terry Manning per produrre un album di rock-revival che seguisse le mode dell'epoca: chitarre impacchettate per la radio, tastiere a manetta, batteria che spingesse a tutto volume. The Winter Of '88- paradossalmente registrato in primavera a Memphis -si avvaleva di testi scritti da terzi (fra questi lo stesso Manning) e di una sola valida canzone (Stranger Blues di Elmore James), ma risultò un lavoro talmente avvilente che Winter revocò il contratto che lo legava alla MCA e si mise nelle mani della Point Blank, una sussidiaria della Virgin.
La Point Blank era davvero un'etichetta di eccellenza: nata nel 1988, aveva messo sotto contratto, in tempi record, miti viventi quali John Lee Hooker, Solomon Burke, John Hammond Jr. e Van Morrison. I produttori erano i primi a trattare con ossequioso rispetto gli artisti, essendo questi quasi esclusivamente veterani di comprovata fede. Di nuovo votato a fare il blues, Johnny Winter si ritrovò ad incidere con una super-band che comprendeva non solo l'inossidabile Ken Saydak, ma anche Billy Branch e Dr. John. Fondamentale risultò essere anche Dick Shurman, produttore sinceramente appassionato. Ciò che venne fuori furono le tredici, bellissime tracce di Let Me In (1991), un disco morbido e rilassato come l'albino non ne aveva mai fatti. Ma il vero capolavoro di Winter negli anni Novanta arrivò l'anno dopo e si chiamava Hey, Where's Your Brother?, album in cui alla band già rodata tornava ad aggiungersi "fratellino" Edgar. L'entusiasmo era talmente alto all'epoca che, sempre in accordo con la Virgin, il chitarrista- sposato di frescon con Susan Waford -decise di dare alle stampe Live In NYC '97, un po' artificioso nei suoni ma tutto sommato riuscito.
Poi fu di nuovo l'oblio a scendere sulla vita e la carriera di Johnny Winter. Si vociferava di problemi di salute piuttosto seri per il chitarrista e perfino i soldi, a detta di molti addetti ai lavori, sembravano essere fonte di preoccupazione. Del resto, Winter si interessò sempre molto poco ai conti, tant'è che, con l'avvento del download illegale e della musica liquida, iniziarono a fioccare live e outtakes scoperti da ogni diritto d'autore e addirittura antecedenti al suo primo contratto con la Columbia. Ma I'm A Bluesman (2004) cadde a fagiolo per rompere qualunque negativa supposizione: un discreto disco di energico rock blues, registrato con nuovi musicisti e prodotto con tutti i rismi del caso. Inoltre, fu quella l'occasione in cui Winter conobbe Paul Nelson, chitarrista ritmico che tanto lo avrebbe aiutato negli ultimi anni.
I'm A Bluesman impose di nuovo il chitarrista di Beaumont al grande pubblico. Clapton lo volle al suo Crossroads Festival nel 2007, i più prestigiosi eventi di jazz e blues di tutto il mondo ebbero modo di ospitarlo e perfino le nuove leve della chitarra poterono fregiarsi della sua collaborazione in concerto. Con un estenuante lavoro di archivio, lanciò- tramite il suo fan club e grazie all'etichetta Friday Music -la fortunata Live Bootleg Series, ad oggi giunta al considerevole traguardo di undici volumi. Il 2009 fu l'anno in cui la Sony dette alle stampe la registrazione completa della performance tenuta quarant'anni prima da Johnny Winter a Woodstock. Parte del materiale live degli anni Settanta fu ristampato (non sempre nel modo più dignitoso) da piccole case discografiche sempre in questo periodo, ma a Winter interesseva più che altro ritornare in studio e incidere piuttosto che limitarsi a prestazioni occasionali, serate revival e riscossioni per i diritti degli innumerevoli greatest che stavano iniziando a sovraffollare il mercato.
Tale occasione gli venne fornita dal suo chitarrista Paul Nelson, eclettico sessionman che sporadicamente si prestava anche alla produzione. Nonostante i molti anni che li dividevano, Nelson capì perfettamente cosa Winter volesse ottenere da un ipotetico nuovo album e decise di produrglielo di tasca propria. La Megaforce (casa notoriamente lontana dal blues e a cui va il merito di avere sfornato i primi due album dei Metallica) fu la nuova e ultima etichetta con cui Johnny Winter avrebbe stipulato un contratto discografico. Roots uscì il 27 settembre del 2011 e fece rimanere di stucco tutti: undici canzoni, nessuna firmata da Winter, un ospite illustre a brano. Nell'ora scarsa del disco si succedono, ad affiancare l'albino, Sonny Landreth, Jimmy Vivino, Warren Haynes, Frank Latorre, John Popper, Vince Gill, Susan Tedeschi, Edgar Winter, Derek Trucks, John Medeski e lo stesso Paul Nelson. La qualità dei musicisti, unita agli arrangiamenti dei classici blues del passato più o meno remoto, fecero di Roots il migliore disco di Johnny Winter uscito da trent'anni a quella parte.
Assolutamente non da meno è stato Step Back, purtroppo uscito postumo nel settembre del 2014 e concepito e registrato in maniera analoga al precedente. Stavolta ci sono i Blues Brothers Horns, Ben Harper, Eric Clapton, Brian Setzer, Billy Gibbons, Joe Bonamassa, Jason Ricci, Leslie West, Joe Perry e Dr. John.
Due giorni dopo aver partecipato al Cahors Blues Festival in Francia, Johnny Winter venne trovato morto nella sua camera di albergo a Montreux, in Svizzera. Era il 16 luglio 2014.
Meno di un anno dopo, Step Back vinse il premio come miglior album blues ai Grammy Awards 2015. Il primo e unico della sua carriera, dopo decenni di candidature sfumate nel nulla.
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