Ed è così che, la sera del 18 luglio, con fuori un caldo torrenziale, mi ritrovo in sala a godere dell'aria condizionata e a vedere uno dei più bei film dell'anno.
Nella locandina e in uno scarno trailer censurato e poco diffuso, si parla di "terrore vero" e si usano aggettivi come "agghiacciante", e perfino Stephen King si scomoda definendolo "profondamente disturbante". In verità, queste cazzate promozionali saltano fuori ogni volta che esce un film di paura nel nostro paese, e ad essere del tutto sinceri, negli ultimi mesi, ne sono usciti pochini.
Se si trattasse Babadook di Jennifer Kent con la dovuta attenzione mediatica e intellettuale (oppure con lo stesso isterismo con cui nel nostro paese vengono accolti fenomeni come Netflix), i cinema dovrebbero esplodere e chi vi lavora dovrebbe rinunciare alle ferie estive. Ma la realtà è molto diversa e un simile capolavoro dell'horror (e io un capolavoro horror non lo vedevo dal 2010) verrà presto accantonato e trattato come uno di quei b-movie che- fra remake, reboot, spinoff, sequel -si contendono il grado di resistenza più elevato nelle sale rimaste aperte dopo il primo maggio. Penso a Wolf Creek 2 o a Poltergeist, per citare titoli ancora nel circuito, ma più in generale penso a tutta quella produzione cinematografica (in primis, quella hollywoodiana) preoccupata soltanto di stimolare e fortificare la riproposizione, che poi è ormai il principio cardine della fruizione delle masse.
Babadook non è un horror modaiolo, non è per i neofiti, nè tantomeno per i ragazzetti: con solo due attori clamorosi (Essie Davis e il piccolo, terribile Noah Wieseman), quattro stanze e meno di dieci riprese in esterni riesce a fare paura come nient'altro, mostrando a stento due gocce di sangue. Come nel miglior Polanski (o in Sclavi), l'orrore è tutto di natura psicologica: viene filtrato dai lavori frustranti, dagli ipocriti rapporti con gli altri e si riversa nella vita quotidiana. La Kent mette in gioco una serie di rimandi che vanno dal cinema di Bava (Mario) fino a Méliès, passando sia da Shining che dall'Inquilino del terzo piano, e lo fa senza mai cadere nel bieco fan-service: i suoi sono omaggi colti asserviti ad una creatività e a un talento tecnico rari. E Babadook non è solo un horror che parla di un libro che genera mostri (i demoni del passato), ma si occupa di documentare, in maniera drammatica e direi pure commovente, il rapporto fra una madre e un figlio, la malattia di entrambi, le morbosità dell'infanzia e il ruolo del diverso nel mondo di oggi. Il tutto calato in questa Australia tetra, oscura e forse proprio per questo credibile come mai prima di ora. Il ritmo è lento e inesorabile perchè la paura, quella vera, è un qualcosa di lento e non necessita di volumi alti e stupidaggini assortite per funzionare, specie se la sua essenza è vera e la potenza espressiva di chi gira è pari a quella di Jennifer Kent, regista da premiare e di cui spero si torni a sentire parlare quanto prima.
Lasciatemi aggiungere che nessuno aveva mai girato un film che si occupa delle paure ancestrali site nel cuore dell'uomo (e, in particolare, dei bambini) e lo fa in questo modo. Babadook rapisce, impaurisce e incanta, per quanto merita di essere fissato sul grande schermo, e non solo si impone come il miglior horror uscito negli ultimi anni, ma anche come l'esordio più bello che ho visto finora in tutto il 2015 e, in assoluto, come uno dei film dell'anno.
Babadook non è un horror modaiolo, non è per i neofiti, nè tantomeno per i ragazzetti: con solo due attori clamorosi (Essie Davis e il piccolo, terribile Noah Wieseman), quattro stanze e meno di dieci riprese in esterni riesce a fare paura come nient'altro, mostrando a stento due gocce di sangue. Come nel miglior Polanski (o in Sclavi), l'orrore è tutto di natura psicologica: viene filtrato dai lavori frustranti, dagli ipocriti rapporti con gli altri e si riversa nella vita quotidiana. La Kent mette in gioco una serie di rimandi che vanno dal cinema di Bava (Mario) fino a Méliès, passando sia da Shining che dall'Inquilino del terzo piano, e lo fa senza mai cadere nel bieco fan-service: i suoi sono omaggi colti asserviti ad una creatività e a un talento tecnico rari. E Babadook non è solo un horror che parla di un libro che genera mostri (i demoni del passato), ma si occupa di documentare, in maniera drammatica e direi pure commovente, il rapporto fra una madre e un figlio, la malattia di entrambi, le morbosità dell'infanzia e il ruolo del diverso nel mondo di oggi. Il tutto calato in questa Australia tetra, oscura e forse proprio per questo credibile come mai prima di ora. Il ritmo è lento e inesorabile perchè la paura, quella vera, è un qualcosa di lento e non necessita di volumi alti e stupidaggini assortite per funzionare, specie se la sua essenza è vera e la potenza espressiva di chi gira è pari a quella di Jennifer Kent, regista da premiare e di cui spero si torni a sentire parlare quanto prima.
Lasciatemi aggiungere che nessuno aveva mai girato un film che si occupa delle paure ancestrali site nel cuore dell'uomo (e, in particolare, dei bambini) e lo fa in questo modo. Babadook rapisce, impaurisce e incanta, per quanto merita di essere fissato sul grande schermo, e non solo si impone come il miglior horror uscito negli ultimi anni, ma anche come l'esordio più bello che ho visto finora in tutto il 2015 e, in assoluto, come uno dei film dell'anno.
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