Considerando che l'estate è iniziata il 21 giugno e promette di durare ancora un bel po', si può dire che, almeno musicalmente, non manca la roba con cui rifugiarsi da radio strillate, tormentoni, mattinicinque, lineeverdi, serenivariabili, estatidirette, isoleditentazioni e compagnia cantante. Per una volta, il disco della mia estate 2015 lo firma un coetaneo: Daniel Bachman, nato un giorno prima del sottoscritto a Fredericksburg, Virginia e autore di River (Three Lobed, ★★★★), settima opera in studio e prima a godere di una distribuzione internazionale. Sette brani strumentali per sola chitarra. Niente voce, niente sovrincisioni, niente di niente. Con un po' di eco e un microfono, Daniel dice tutto quello di cui ha bisogno. Suona canzoni bellissime, rurali ed essenziali, produce la colonna sonora di un film che deve ancora essere girato e che magari non uscirà mai dalla testa di chi ascolta.
Non si può dire invece che i frutti estivi del lavoro in studio di un anziano leone di nome Neil Young abbiano arrecato ulteriore lustro alla sua (ormai sterminata) discografia: l'opus n°36 The Monsanto Years (Reprise, ★★) risulterà interessante come disco di denuncia, ma è davvero miserella a livello di musica. Con questo non voglio passare come l'integralista che pretende la presenza dei Crazy Horse in studio (Young ha saputo farne a meno moltissime volte negli ultimi due decenni e la sua arte ne ha anche saputo trarre giovamento), ma davvero questi Promise Of The Real capitanati da Luke Nelson (figlio di Willie) non è che facciano scintille col maestro canadese. C'è una bella cavalcata elettrica di nome Big Box, ma poco altro.
Sempre di vecchi cantori e di gente della famiglia Nelson scrivo, invece, ascoltando Django & Jimmie (Legacy Recordings, ★★★½) di Willie Nelson e Merle Haggard. Questi due ottantenni hanno pensato bene di incidere il loro quarto disco di collaborazioni, e senza dubbio hanno fatto un lavorone sia per i loro standard (i lavori di Nelson, recentemente, tendevano abbastanza ad annoiare) che per quelli della country music odierna. Lungo (14 tracce), mutevole e a volte perfino un po' ruffiano, Django & Jimmie non è il dischetto facile da consigliare ai neofiti, ma se un po' di bene a questi due cowboys ancora attivissimi lo si vuole, non deluderà le aspettative di nessuno.
Difficile, poco "estivo" e minuziosamente cesellato dal suo artefice è invece un disco su cui tante riviste stanno spendendo litri di inchiostro: mi riferisco ad Ashes & Dust (Provogue, ★★★) di Warren Haynes. Capiamoci: a me Warren Haynes piace, non serve ridefinirlo anche qua uno dei cinque, dieci chitarristi migliori al mondo e per quanto mi riguarda chi, a 55 anni, ha già militato negli Allman, nei Grateful Dead e ha fondato i Gov't Mule, può davvero fare quello che vuole. Ashes & Dust è un disco sunato bene e prodotto benissimo. Si sente che dietro ad ogni brano c'è un lavoro grandissimo, un lavoro di settimane, se non di mesi: eppure soffre di quello di cui soffrivano i due precedenti album solisti di Warren. Leziosità, snobismo e una certa tendenza all'annoiare ritornano anche qua e io, purtroppo, non posso fare a meno di accorgermene. Ma anche dopo un ascolto complesso e poco esaltante, resta il piacere di sentire la chitarra di Warren Haynes, una chitarra udibile anche nella Simple Man suonata da lui e dai Muli in One More From The Fans (Ear Music, 2Cd, ★★), doppia testimonianza del concerto-omaggio a quel che resta dei Lynyrd Skynyrd catturata ad Atlanta lo scorso novembre. Qualche buona cover ci può anche stare, ma a parte i tributi di John Hiatt, Gregg Allman e, appunto, dei Gov't Mule, si respira un'aria abbastanza stantia.
Che poi, a conti fatti, questa del 2015, almeno in amibito rock, è un'estate di ascolti concertistici e di live "ritrovati". Prendiamo ad esempio la punta di diamante del materiale di archivio emerso in questo periodo: Live 1968 At The Carousel Ballroom (Rockbeat, ★★★★★) degli Electric Flag, uno dei tanti complessi "made by Mike Bloomfield", il più soul e quello dall'autonomia più breve (durò dal 1967 al 1969). La formazione ha del miracoloso: Bloomfield viene affiancato da Buddy Miles alle pelli, da Harvey Brooks al basso e dall'amico Nick Gravenites alla voce e alla seconda chitarra. C'è un quartetto di fiati pauroso e, nella seconda parte, al microfono arriva Erma Franklin (sorella di Aretha) che canta anche Piece Of My Heart con qualche anno di anticipo su una certa Janis. Un frullato di rock, jazz e soul emerso da non si da dove e ben restaurato, nonchè uno dei capolavori della musica ritrovata quest'anno.
Per intensità e groove ci si può avvicinare A&R Studios 1971 (Iconography, ★★★★) dei Delaney&Bonnie migliori, quelli reduci dal tour inglese con Eric Clapton (On Tour With Eric Clapton And Friends) e protagonisti di una lunga session radiofonica che vedeva coinvolti anche Duane e Gregg Allman, Sam Clayton e King Curtis al pianoforte. Non è roba inedita: sia su An Anthology Vol. II che nel box di Skydog erano emerse diverse canzoni, perlopiù incise nella prima parte, quella acustica. Le sorprese e le chicche arrivano più nella seconda, quella con la band vera e propria e con Curtis che pesta sui tasti del piano. Peccato per due sole cose: i lunghissimi, pallosi interventi dello speaker e un lavoro di pulizia del suono non sempre all'altezza.
Poetico e piacevole (specie per noi tifosi sfegatati dei fuorilegge) è Whole Coffeehouse, Minneapolis, MN, 9 November 1973 (Echoes, ★★★) di Townes Van Zandt, ma assai poco aggiunge alla sua discografia così minimale e così povera di materiale dal vivo. Del resto, quando si incide un disco come Live At The Old Quarter (1977) è abbastanza comprensibile che tutto il resto appaia superfluo.
Un periodo unico e trionfale per la loro carriera, è invece quello che attraversarono i Phish nel 1997, reduci dal successo commerciale di Billy Breathes e desiderosi di tornare in Europa. L'euforia e l'altissimo livello di maturità artistica sono due degli ingredienti essenziali nella buona riuscita di un'opera mastodontica come Amsterdam (Jemp Records, 8 Cd, ★★★½), boxset che presenta integralmente tre magnifici shows tenuti al Paradiso fra il febbraio e il luglio di quella splendida annata. Canzoni interminabili, estenuanti e ancora in grado di ammaliare. Tanto per ricordarci che i Phish sono stati, in termini di tempo, una delle ultime grandi american band della storia del rock. La location è mitologica, il pubblico è letteralmente inebriato da tutto quel ritmo, quelle vibrazioni e quel senso di ampio respiro di cui oggi, in un'epoca in cui gli artisti vengono portati via dal servizio d'ordine se sforano coi tempi (è successo poche settimane fa in Danimarca a Damon Albarn), si sente tanto il bisogno.
Se infine la fame di live non è ancora passata, sappiate che, sempre di questi tempi, sono usciti il The Marquee Club 1971 dei Rolling Stones, The Last Tour del compianto Lowell George, Live At Ebbets Field di Muddy Waters (la band è quella dei primi anni Settanta), un Live In Hollywood di B.B. King, il triplo Broadway Act One di Jerry Garcia e compagni, Live In 1967 di John Mayall con i Bluesbreakers dell'epoca (fra gli altri, Peter Green e Mick Fleetwood), Amazing Grace Coffee House della Emmylou Harris (qua, nel '75, ai tempi del suo primo tour solista). Vi bastano?
La buona musica non va in vacanza e sarò di nuovo per qua a parlare del nuovo album dei Chemical Brothers e di tante altre cosine.
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