venerdì 31 luglio 2015

Led Zeppelin, "Presence- Deluxe Edition" [Suggestioni uditive]

Led Zeppelin,
Presence- Deluxe Edition
(Atlantic Records, 2015, 2 Cd)
★★














L'incensata Deluxe Edition (avviatasi più di anno fa) con cui Jimmy Page ha deciso di restaurare e riproporre il catalogo in studio dei Led Zeppelin è agli sgoccioli.
Presence è un disco dalla storia travagliata e dal bizzarro destino critico. Uscito nel 1976, passò da subito per l'operetta che veniva dopo l'opera maxima (Physical Graffiti) e come se non bastasse Robert Plant aveva avuto un brutto incidente, John Bonham era ormai sopraffatto dall'alcool e Jimmy Page si divideva fra eroina ed esoterismo. Tuttavia, fu proprio Page a voler scrivere una bella fetta di Presence, l'album dei Led Zeppelin più duro, tetro e pessimista di sempre, nonchè uno dei meno graditi da critica e pubblico. Solo negli anni Novanta, con una iniziale rimasterizzazione su cd, il mondo iniziò ad apprezzare Achilles Last Stand, Nobody's Fault But Mine e Tea For One e a comprendere meglio quale immenso lavoro (soprattutto chitarristico) potesse esserci dietro quelle sette canzoni.
Personalmente, non lo ho mai amato, ma neanche sono uno di quei criticoni che asseriscono che la vena creativa degli Zep si fosse esaurita col IV. Tuttavia, sin dai primi ascolti, ho sempre paragonato Presence al Tattoo You dei Rolling Stones: è l'album che la critica ha voluto salvare a tutti i costi per poi definirlo, molti anni dopo, "l'ultimo capolavoro della band". In realtà, basta conoscere meglio quello che un gruppo ha prodotto per accorgersi che il canto del cigno degli Stones era stato Some Girls, così come Physical Graffiti poteva benissimo rappresentare il congedo dall'attività in studio degli Zeppelin.
Ho impiegato del tempo prima di cogliere in pieno la bellezza di una canzone come Tea For One (che è il lato oscuro di Since I've Been Loving You) o l'incredibile operazione di rilettura della tradizione del Delta effettuata in Nobody's Fault But Mine (la canzone di Presence che tuttora amo maggiormente). In più, ho sempre sentito la mancanza delle tastiere di John Paul Jones (Presence è forse il disco degli Zeppelin a cui John Paul Jones ha dato il minimo contributo) e avvertito la voce di Plant come nettamente inferiore ai dischi precedenti: Achilles Last Stand, Hots For Nowhere e perfino Royal Orleans sarebbero grandi brani se fossero stati lasciati al loro stadio strumentale.
La batteria di Bonham è splendida e questo nuovo remastering la marca ancora di più, va bene. Ma anche qua, cosa c'è di nuovo? Qualche alternate take, arruffati remixes "d'autore" e poco più. Tutta roba che non migliora, nè modifica in alcun modo, quel che già pensavo di Presence.


lunedì 27 luglio 2015

"True Detective", 2x06 [Recensione]

Mi sono accorto che, specie dopo la quinta puntata, True Detective 2 viene visto e sopportato solo da una cerchia ormai ristrettissima di appassionati. Appassionati che, a questo punto, potrebbero essere definiti anche folli, fanatici e un po' faziosi. 
Sono uno di questi, abbiate pietà! Ho pochissima voglia di esplicare le mie motivazioni (che, alla fine, sono poche e frivole) o di giustificare i miei gusti, e mi basta dire che io questa serie la amo, a prescindere dal fatto che la quinta puntata possa avermi rapito meno della quarta, o che la terza mi sia piaciuta quanto se non più della prima.
Il fatto che io sia presissimo dalla seconda stagione di True Detective nasconde, molto probabilmente, l'essenza della completa ignoranza di cui soffro nei confronti delle serie tv, ma anche di questo mi importa relativamente.
Church In Ruins inizia con un faccia a faccia fenomenale (Ray vs. Frank), prosegue fra decine di eventi apparentementi sconnessi l'uno dall'altro e termina con una scena attesissima, quella dell'orgia. Niente Kubrick, niente Histoire d'O, niente Marchese de Sade. L'orgia di True Detective è squallida, chimica, crudamente realistica. La tensione raggiunge livelli insostenibili, così come insostenibili sono il peso dei ricordi infantili di Ani e il tritacarne emotivo attraverso cui passa Ray, ormai osservato a vista dagli assistenti sociali.
Ora, a me questa cosa che la dura e risoluta Bezzerides debba aver per forza subito le violenze da parte di un emulo di Charles Manson non è che sia sembrata un gran colpo di script. Anche in un paio delle precedenti puntate posso aver trovato elementi che mi hanno convinto poco (se non delle vere e proprie forzature), ma questa è stata davvero una soluzione un po' banalotta, che alla fine ha un po' snaturato il personaggio che più di tutti mi aveva convinto inizialmente.
A questo giro, davvero Woodrugh poteva non esserci. Mentre se penso che mancano solo due puntate e faccio un calcolo della quantità di porte, portone e botole narrative lasciate aperte da Pizzolatto, mi dico solo due cose: o True Detective 2 risulterà un serial dispersivo e inconcludente, oppure l'ultima puntata dovrà durare qualcosa come due ore e mezza.
Frank e Ray mitici. Ray soprattutto: la scena in cui il figlio è in visita e l'assistente sociale prende appunti colma ogni altra mancanza e disattenzione, per non parlare del suo festino privato (un privato ai limiti dell'onanistico) a base di coca, tequila, American Spirit e telefonate alla ex-moglie.
E poi si sentono i New York Dolls.
E anche stavolta gli ultimi centoventi secondi sono da sincope.

martedì 21 luglio 2015

"True Detective", 2x05 [Recensione]

Other Lives, altre vite. Che siano le vite precedenti a cui alludeva il padre santone di Ani nella scorsa puntata o le nuove, insopportabili pieghe del quotidiano, poco importa: sono sempre altre.
Sono passati due mesi dalla terribile sparatoria nei sobborghi di Vinci, e i detective non se la passano al meglio. Velcoro ha restituito pistola e distintivo e rassegnato le dimissioni e adesso è alle dipendenze di Frank Semyon, a sua volta totalmente immerso - seppur controvoglia -in quel mondo di delinquenza gretta e stradaiola da cui voleva tenersi alla larga. La battaglia per la custodia del piccolo Chad non sta andando bene e servono soldi. Tanti soldi.
Paul viene decorato e il dipartimento schiera i suoi migliori avvocati per far crollare le accuse di violenza sessuale perpetrate ai danni di quell'attricetta zoccola comparsa ad inizio stagione. La sua moto è un ricordo, e pure le sue camminate sul wild side loureediano: è stato nominato detective, gli hanno affibbiato una brutta giacca e una cravatta orribile e così conciato conduce la sua esistenza, fatta di soldi scomparsi (soldi sporchi, residui bellici che la madre ha pensato bene di rubare), ansie piccolo borghesi e suocere rompicoglioni.
Ani è sempre Ani, anche se la sbattono in un angusto archivio della contea. Alla fine, è sua l'intuizione che fa riunire la squadra, con l'accettazione di quella piccola fetta di autorità non ancora corrotte. 
Come nella prima stagione, la quinta puntata è lo spartiacque fra una fase e l'altra: l'indagine sembra finita, i colpevoli catturati, ma a qualcuno non torna tutto questo. E' l'insoddisfazione la vera protagonista di Other Lives, un episodio più sobrio sul piano registico (dirige l'irlandese John Crowley) che solleva moltissimi dubbi (specie nella prima ventina di minuti), ma che poi si evolve splendidamente, con un finale in sospeso paragonabile solo a quello della seconda. 

domenica 19 luglio 2015

Babadook [Recensione]

Ed è così che, la sera del 18 luglio, con fuori un caldo torrenziale, mi ritrovo in sala a godere dell'aria condizionata e a vedere uno dei più bei film dell'anno.
Nella locandina e in uno scarno trailer censurato e poco diffuso, si parla di "terrore vero" e si usano aggettivi come "agghiacciante", e perfino Stephen King si scomoda definendolo "profondamente disturbante". In verità, queste cazzate promozionali saltano fuori ogni volta che esce un film di paura nel nostro paese, e ad essere del tutto sinceri, negli ultimi mesi, ne sono usciti pochini.
Se si trattasse Babadook di Jennifer Kent con la dovuta attenzione mediatica e intellettuale (oppure con lo stesso isterismo con cui nel nostro paese vengono accolti fenomeni come Netflix), i cinema dovrebbero esplodere e chi vi lavora dovrebbe rinunciare alle ferie estive. Ma la realtà è molto diversa e un simile capolavoro dell'horror (e io un capolavoro horror non lo vedevo dal 2010) verrà presto accantonato e trattato come uno di quei b-movie che- fra remake, reboot, spinoff, sequel -si contendono il grado di resistenza più elevato nelle sale rimaste aperte dopo il primo maggio. Penso a Wolf Creek 2 o a Poltergeist, per citare titoli ancora nel circuito, ma più in generale penso a tutta quella produzione cinematografica (in primis, quella hollywoodiana) preoccupata soltanto di stimolare e fortificare la riproposizione, che poi è ormai il principio cardine della fruizione delle masse.
Babadook non è un horror modaiolo, non è per i neofiti, nè tantomeno per i ragazzetti: con solo due attori clamorosi (Essie Davis e il piccolo, terribile Noah Wieseman), quattro stanze e meno di dieci riprese in esterni riesce a fare paura come nient'altro, mostrando a stento due gocce di sangue. Come nel miglior Polanski (o in Sclavi), l'orrore è tutto di natura psicologica: viene filtrato dai lavori frustranti, dagli ipocriti rapporti con gli altri e si riversa nella vita quotidiana. La Kent mette in gioco una serie di rimandi che vanno dal cinema di Bava (Mario) fino a Méliès, passando sia da Shining che dall'Inquilino del terzo piano, e lo fa senza mai cadere nel bieco fan-service: i suoi sono omaggi colti asserviti ad una creatività e a un talento tecnico rari. E Babadook non è solo un horror che parla di un libro che genera mostri (i demoni del passato), ma si occupa di documentare, in maniera drammatica e direi pure commovente, il rapporto fra una madre e un figlio, la malattia di entrambi, le morbosità dell'infanzia e il ruolo del diverso nel mondo di oggi. Il tutto calato in questa Australia tetra, oscura e forse proprio per questo credibile come mai prima di ora. Il ritmo è lento e inesorabile perchè la paura, quella vera, è un qualcosa di lento e non necessita di volumi alti e stupidaggini assortite per funzionare, specie se la sua essenza è vera e la potenza espressiva di chi gira è pari a quella di Jennifer Kent, regista da premiare e  di cui spero si torni a sentire parlare quanto prima.
Lasciatemi aggiungere che nessuno aveva mai girato un film che si occupa delle paure ancestrali site nel cuore dell'uomo (e, in particolare, dei bambini) e lo fa in questo modo. Babadook rapisce, impaurisce e incanta, per quanto merita di essere fissato sul grande schermo, e non solo si impone come il miglior horror uscito negli ultimi anni, ma anche come l'esordio più bello che ho visto finora in tutto il 2015 e, in assoluto, come uno dei film dell'anno.

sabato 18 luglio 2015

Chemical Brothers, "Born In The Echoes" [Suggestioni uditive]

Chemical Brothers,
Born In The Echoes (Virgin Records, 2015)

★★

















I Chemical Brothers sono state una di quelle dieci, quindici cose al centro della mia adolescenza. Un incontro da cui ho tratto molti piaceri e pochissime delusioni: una manciata di capolavori, l'accesso diretto alla conoscenza di molti altri artisti, e, non ultimo, il piacere di vederli dal vivo, a Livorno, nel 2008.
Born In The Echoes è un album importante, un lavoro che aspettavo da tempo e su cui sono lieto di aver messo le mani subito. Un lavoro che mi ha fatto incontrare di nuovo i Chemical Brothers che più mi piacciono, ossia quelli estremamente rigorosi nello strutturare i propri dischi (due o tre singoli da paura all'inizio, qualche riempitivo e qualche lento nella parte centrale e infine una lunga galoppata conclusiva), quelli che si preoccupano del testo e di chi lo dovrà cantare, ma anche e soprattutto del loop, della melodia e della ballabilità di un brano. Tutto questo delicato equilibrio era venuto un po' meno in Further (2010), episodio sperimentale e poco gradito della loro discografia, e anche gli anni successivi non hanno propriamente regalato gioie a chi, dei Chemical, ha sempre preferito un rigore e una tradizione (elettronica) del tutto britannici. Con la colonna sonora di Hanna (2011) prima, e un imbarazzante dischetto live chiamato Don't Think (2012) poi, avevano provato a portarsi sugli stessi binari degli allievi Daft Punk, ma entrambi i loro lavori sono risultati inferiori ad Alive 2007 e Tron Legacy OST.
Perciò, hanno pensato bene di riportare tutto a casa, di andare a leggersi un libro in qualche bel parco londinese e trarre l'ispirazione dal quotidiano che è sempre stato al centro della loro opera, sin dai fasti di Exit Planet Dust. Ma questa ricerca li ha riportati ancora più indietro e ben più in profondità, fino alla loro nascita, avvenuta in un mondo fatto di echi e di ultrasuoni. 
Born In The Echoes si apre all'insegna del più puro splendore electro: Sometimes I Feel So Deserted è la canzone che i Chemical non facevano dai tempi di We Are The Night (solo Escape Velocity ci si era avvicinata in anni recenti), per non parlare della gioiosa e indovinatissima Go (una canzone dell'estate seconda solo a Vieni anche tu nel mio privè in cui i nostri ritrovano Q-Tip) e dello splendido duetto con l'eclettica St. Vincent (aka Annie Clark) in Under Neon Lights. L'apertura azzeccata è stata rispettata, ma Ed e Tom rincarano la dose e spingono ancora di più su volumi, bassi e synth: EML Ritual, che si fregia della voce di Ali Love (lo stesso di Do It Again), è uno dei tre brani più belli dell'intero album. Non si può descriverlo, bisogna sentirlo, ballarlo, amarlo.
Sperdute fra un apparato di percussioni pauroso, le voci di donne di I'll See You There ci riportano sia a Song To The Siren che alle pesanti iniezioni di psichedelia di cui era pregno tutto Dig Your Own Hole. Con Just Bang l'album si ferma, fa un passo indietro e i fratelli si limita ad assemblare un lungo, pomposo montaggio di suggestioni, loop e campionamenti assortiti. Già la lunga Reflexion rialza il tiro, ed è di nuovo magia: un altro pezzo da 10 e lode che poteva tranquillamente durare anche cinque minuti in più, anche solo per coprire lo spazio che invece spetta alla mediocre Taste Of Honey
A risultare fuori posto sono anche la title-track (meriterebbe nuova attenzione sottoforma di qualche remix) e Radiate.
Posto d'onore per Wide Open, sognante chiusura scritta e cantata da Beck, una roba che odora di bei dischi messi al tramonto, mentre si è circondati dalla gente giusta. O almeno ci si prova.

mercoledì 15 luglio 2015

Un anno senza Johnny Winter [Suggestioni uditive]

Johnny Winter (1944-2014)
La sera del 17 agosto 1968, a Woodstock, salì sul palco un giovane chitarrista texano. In pochi sapevano chi fosse quel venticinquenne albino col cappello da cowboy e le braccia ancora poco tatuate, e tantomeno nessuno conosceva la band che lo accompagnava. Si chiamava Johnny Winter e il suo fu un set di infuocato hard blues come se ne sentiva ancora poco in circolazione a quell'epoca, rigoroso nella struttura, graffiante come le incisioni di Robert Johnson, più elettrico di quello che suonava il suo beniamino Muddy Waters. Già allora di strada ne aveva fatta tanta il buon Johnny. Veniva da Beaumont e suonava sin dall'infanzia. Lui e il fratello minore, Edgar, erano cresciuti a pane ed Everly Brothers e non appena avevano avuto l'occasione si erano messi in viaggio per tutto il Texas, suonando con chi capitava. Nel 1961 andarono a vedere, proprio a Beaumont, un concerto di B.B. King: erano gli unici bianchi nel locale, ma Johnny- all'epoca diciassettenne -avvicinò comunque il chitarrista del Mississippi e riuscì a fargli vedere di cosa era capace con la sei corde. Per il resto, continuarono a proporsi come duo (The Winter Brothers), ottenendo numerosi ingaggi dal vivo ma nessun risultato da un punto di vista discografico. Ma mentre Edgar, forte nella voce, inseguiva i suoi modelli di riferimento e tentava di emulare i cantanti R&Rsoul R&B in voga all'epoca, Johnny suonava ad alto volume la sua Gibson, attirando su di sè l'interesse dei potenti produttori della East Coast.
Prima di lasciare il Texas, incise The Progressive Blues Experiment, una sorta di demo registrata ad Austin con un batterista e un bassista e fatta uscire dalla piccola Sonobeat Records in un centinaio di copie e pensata più come "biglietto da visita" che come LP vero e proprio. Fu proprio questo disco ad attirare l'attenzione sia dei discografici della Atlantic, sia dei colleghi Al Kooper e Michael Bloomfield, che lo invitarono a suonare a New York e ne fecero uno degli astri nascenti della scena del Fillmore East. Oltre ad esibirsi a Woodstock, il texano iniziò a frequentare Jimi Hendrix e la sua cricca, e vuole la leggenda che, fra i solchi di un controverso bootleg chiamato Woke Up This Morning And Found Myself Dead e registrato al club The Scene con Jim Morrison all'armonica, si potesse udire anche la sua Firebird. John Hammond Sr. si incuriosì e mise i suoi agenti sulle tracce di Johnny Winter, "il chitarrista blues più bianco di tutti". La Columbia offrì una cifra altissima per accaparrarselo e la spuntò rispetto alla Atlantic, facendolo firmare per tre album in studio e un live. Ma anche il giovane virtuoso dettò condizioni precise: la prima, fu quella di scegliersi da solo i musicisti, la seconda fu quella di andare ad incidere il suo primo album lontano dalla metropoli.
Recuperati i fidi Tommy Shannon (basso) e Uncle Joe Turner (batteria), nel gennaio del 1969, si trasferì a Nashville, città dove avrebbe inciso il suo capolavoro d'esordio, supportato anche da ospiti d'eccezione quali Willie Dixon, Walter Shakey Horton e, ovviamente, il fratello Edgar, coinvolto come sassofonista e pianista. Johnny Winter uscì in aprile, ma furono i concerti successivi alla sua pubblicazione a garantirgli il successo nazionale e ad imporlo come uno dei più grandi chitarristi rock in circolazione. La Columbia organizzò un tour mastodontico, durante il quale lo maestria tecnica di Johnny si consolidò, orientandosi verso le nuove sonorità hard rock che stavano trovando terreno fertile anche negli States. Pare che fu proprio per reggere i ritmi estenuanti della vita on the road che il chitarrista iniziò ad annacquare le proprie performances con litri e litri di Jack Daniel's e a fare, regolarmente, uso di eroina. Questo fu, grossomodo, l'ambiente in cui nacque Second Winter, doppio capolavoro superiore perfino all'album dell'esordio.
A parte la particolarità delle sole tre facciate incise sulle quattro presenti, Second Winter, uscito nell'autunno del 1969, guardava meno alla tradizione del Delta blues e più alle recenti produzioni di Hendrix, degli Who e, soprattutto, al primo album dei Led Zeppelin. Sette covers (fra le altre, le leggendarie versioni di Johnny Be Goode e Highway 61) e quattro superlativi brani propri che fondevano blues, rock&roll e alcuni primordiali pruriti heavy, un genere a cui Winter si sarebbe avvicinato moltissimo nel corso dei dieci anni successivi senza mai abbracciarlo del tutto.
Il ritorno a New York coincise con lo scioglimento della band che lo aveva accompagnato fino ad allora e portò ad una prima rottura col fratello Edgar (si sarebbero ripresi più avanti per una mediocre collaborazione familiare), convinto a portare avanti una propria carriera solista e poco incline a condividere gli eccessi di Johnny. Eccessi che, al contrario, erano di casa presso un complesso chiamato McCoys, capitanato dal carismatico chitarrista Rick Derringer, effervescente strumentista che aveva già compreso il potenziale di gruppi quali Black Sabbath e Deep Purple. La Columbia supportò economicamente il sodalizio fra il bluesman albino e la band di Derringer, e da questo incontro sarebbero nati il duro Johnny Winter And (1970) e il superlativo Johnny Winter And Live (1971), ruggente testimonianza dal vivo di quel periodo.
Ma il Destino venne a bussare alla porta di Johnny Winter proprio in quell'anno 1971, e il palco su cui ogni sera si consumava uno show proto-metal portentoso e al limite, fu lo stesso luogo dove il chitarrista crollò fisicamente e psicologicamente. Seguirono una dolorosa disintossicazione, il rinnovo del contratto con la Columbia e una sfilza di dischi, alcuni riusciti (Still Alive And Well), altri meno (Saints And Sinners, John Dawson Winter III). Tuttavia, il nome di Johnny Winter rischiava di tornare alle bettole di provincia a cui era sfuggito nel decennio precedente, ma volle il caso che Steve Paul, impiegato della Epic CBS, avesse da poco tempo fondato una propria etichetta specializzata in blues e affini e che fosse pure il produttore delle prove soliste di Derringer. I primi anni alla Blue Sky (questo il nome della casa di produzione) furono abbastanza demoralizzanti: non bastarono a rilanciare il chitarrista texano nè l'album di duetti registrato con Edgar (Together, perlopiù composto da standard rockabilly degli anni Cinquanta e pubblicato a nome di entrambi i fratelli), nè un secondo, sbiadito live dal poco originale titolo Captured Live (1976).
Fu necessario l'arrivo della leggenda Muddy Waters nella scuderia Blue Sky per far tornare Johnny Winter a fare blues in maniera seria e impeccabile. A lui spettò l'onore di produrre Hard Again (1977), uno dei capolavori di Waters, che contraccambiò il favore prestando la voce per Nothin'But The Blues, disco di Winter uscito in quello stesso anno. Il tour che seguì Hard Again (una serata alla Boston Massey Hall è stata recentemente ristampata su due, costosi compact) rappresentò una rinascita umana e artistica per il bluesman di Beaumont, intento a suonare a fianco del suo idolo e in compagnia di veri pezzi da novanta come Bob Margolin, Pinetop Perkins, Willie Smith e James Cotton. Purtroppo per lui, però, il successo che accompagnava quei  giorni (come produttore avrebbe lavorato agli ultimi due dischi in studio di Waters e perfino al bellissimo Muddy "Mississippi" Waters Live) sarebbe svanito di lì a poco e pure il contratto con la Blue Sky si sarebbe concluso con due lavori davvero scadenti: White, Hot And Blue (1978) e, peggio ancora, Raisin'Cain (1980).
Al contrario di molti coetanei, l'entrata nei "difficili" anni Ottanta non portò la carriera di Johnny Winter in fondo al baratro. Anzi, per molti versi la rafforzò e le donò un guizzo di originalità in cui prima deficiava. E per quanto- all'infuori di alcune serate in cui proponeva i consueti "cavalli di battaglia" (ad esempio, alla Woodstock Reunion del 1979) -di Winter si stessero perdendo le tracce, l'albino chitarrista covava in segreto una nuova svolta per la sua carriera. Sapeva infatti che all'Alligator di Chicago (un'etichetta fondata da Bruce Iglauer, editore della rivista Living Blues) gli avevano messo gli occhi addosso già alla fine degli anni Settanta, e dal momento in cui la casa discografica stava facendo un ottimo lavoro con gente del calibro di Roy Buchanan, Buddy Guy e Albert Collins, Winter non si tirò indietro e firmò. La politica della Alligator era molto diversa da quella della Columbia e della Blue Sky: si stampavano meno copie dei dischi, si organizzavano tour di dimensioni più contenute rispetto a quelli delle major, mancavano i soldi per mandare un artista a incidere a Los Angeles, Nashville, Memphis o New York, ma al contempo, sulla libertà artistica e i tempi di produzione, veniva data carta bianca.
Non fu un caso, perciò, che il nuovo album firmato Johnny Winter, Guitar Slinger (1984), impiegò ben quattro anni prima di vedere la luce. Con le sue dieci tracce (quaranta minuti scarsi di solido hard blues), era il primo disco totalmente scritto da Winter. Nessuna cover, nessuno standard, ma molti suoni insoliti (non ultimo quello della sua nuova chitarra senza tasti), l'uso intelligente delle tastiere di Ken Saydak e un lavoro di produzione "a sei mani" davvero ottimale. E passò solo un anno prima che uscisse un vero e proprio sequel di Guitar Slinger, ovvero Serious Business (1985), stesse atmosfere, stessa scelta di utilizzare solo materiale proprio, risultati molto diversi, visto che vendette meglio e si candidò anche per un Grammy.
L'attività in studio di Winter con la Alligator si concluse nel 1986, quando uscì 3d Degree, un disco dove trovavano nuovamente spazio canzoni altrui (Elmore James, J.B. Lenoir, Willy Dixon, Freddie King) e sonorità nettamente più acustiche. Dopodichè il Sud reclamò questo suo figlio, esule da ormai troppo tempo, e lo convinse a tornare a casa. I fortunati che accolsero il talento di Johnny Winter alla fine degli anni Ottanta furono i patron della MCA, che stanziarono molti soldi, valenti strumentisti (solo Saydak continuò a lavorare su concessione della Alligator) e pagarono profumatamente Terry Manning per produrre un album di rock-revival che seguisse le mode dell'epoca: chitarre impacchettate per la radio, tastiere a manetta, batteria che spingesse a tutto volume. The Winter Of '88- paradossalmente registrato in primavera a Memphis -si avvaleva di testi scritti da terzi (fra questi lo stesso Manning) e di una sola valida canzone (Stranger Blues di Elmore James), ma risultò un lavoro talmente avvilente che Winter revocò il contratto che lo legava alla MCA e si mise nelle mani della Point Blank, una sussidiaria della Virgin.
La Point Blank era davvero un'etichetta di eccellenza: nata nel 1988, aveva messo sotto contratto, in tempi record, miti viventi quali John Lee Hooker, Solomon Burke, John Hammond Jr. e Van Morrison. I produttori erano i primi a trattare con ossequioso rispetto gli artisti, essendo questi quasi esclusivamente veterani di comprovata fede. Di nuovo votato a fare il blues, Johnny Winter si ritrovò ad incidere con una super-band che comprendeva non solo l'inossidabile Ken Saydak, ma anche Billy Branch e Dr. John. Fondamentale risultò essere anche Dick Shurman, produttore sinceramente appassionato. Ciò che venne fuori furono le tredici, bellissime tracce di Let Me In (1991), un disco morbido e rilassato come l'albino non ne aveva mai fatti. Ma il vero capolavoro di Winter negli anni Novanta arrivò l'anno dopo e si chiamava Hey, Where's Your Brother?, album in cui alla band già rodata tornava ad aggiungersi "fratellino" Edgar. L'entusiasmo era talmente alto all'epoca che, sempre in accordo con la Virgin, il chitarrista- sposato di frescon con Susan Waford -decise di dare alle stampe Live In NYC '97, un po' artificioso nei suoni ma tutto sommato riuscito.
Poi fu di nuovo l'oblio a scendere sulla vita e la carriera di Johnny Winter. Si vociferava di problemi di salute piuttosto seri per il chitarrista e perfino i soldi, a detta di molti addetti ai lavori, sembravano essere fonte di preoccupazione. Del resto, Winter si interessò sempre molto poco ai conti, tant'è che, con l'avvento del download illegale e della musica liquida, iniziarono a fioccare live e outtakes scoperti da ogni diritto d'autore  e addirittura antecedenti al suo primo contratto con la Columbia. Ma I'm A Bluesman (2004) cadde a fagiolo per rompere qualunque negativa supposizione: un discreto disco di energico rock blues, registrato con nuovi musicisti e prodotto con tutti i rismi del caso. Inoltre, fu quella l'occasione in cui Winter conobbe Paul Nelson, chitarrista ritmico che tanto lo avrebbe aiutato negli ultimi anni.
I'm A Bluesman impose di nuovo il chitarrista di Beaumont al grande pubblico. Clapton lo volle al suo Crossroads Festival nel 2007, i più prestigiosi eventi di jazz e blues di tutto il mondo ebbero modo di ospitarlo e perfino le nuove leve della chitarra poterono fregiarsi della sua collaborazione in concerto. Con un estenuante lavoro di archivio, lanciò- tramite il suo fan club e grazie all'etichetta Friday Music -la fortunata Live Bootleg Series, ad oggi giunta al considerevole traguardo di undici volumi. Il 2009 fu l'anno in cui la Sony dette alle stampe la registrazione completa della performance tenuta quarant'anni prima da Johnny Winter a Woodstock. Parte del materiale live degli anni Settanta fu ristampato (non sempre nel modo più dignitoso) da piccole case discografiche sempre in questo periodo, ma a Winter interesseva più che altro ritornare in studio e incidere piuttosto che limitarsi a prestazioni occasionali, serate revival e riscossioni per i diritti degli innumerevoli greatest che stavano iniziando a sovraffollare il mercato.
Tale occasione gli venne fornita dal suo chitarrista Paul Nelson, eclettico sessionman che sporadicamente si prestava anche alla produzione. Nonostante i molti anni che li dividevano, Nelson capì perfettamente cosa Winter volesse ottenere da un ipotetico nuovo album e decise di produrglielo di tasca propria. La Megaforce (casa notoriamente lontana dal blues e a cui va il merito di avere sfornato i primi due album dei Metallica) fu la nuova e ultima etichetta con cui Johnny Winter avrebbe stipulato un contratto discografico. Roots uscì il 27 settembre del 2011 e fece rimanere di stucco tutti: undici canzoni, nessuna firmata da Winter, un ospite illustre a brano. Nell'ora scarsa del disco si succedono, ad affiancare l'albino, Sonny Landreth, Jimmy Vivino, Warren Haynes, Frank Latorre, John Popper, Vince Gill, Susan Tedeschi, Edgar Winter, Derek Trucks, John Medeski e lo stesso Paul Nelson. La qualità dei musicisti, unita agli arrangiamenti dei classici blues del passato più o meno remoto, fecero di Roots il migliore disco di Johnny Winter uscito da trent'anni a quella parte.
Assolutamente non da meno è stato Step Back, purtroppo uscito postumo nel settembre del 2014 e concepito e registrato in maniera analoga al precedente. Stavolta ci sono i Blues Brothers Horns, Ben Harper, Eric Clapton, Brian Setzer, Billy Gibbons, Joe Bonamassa, Jason Ricci, Leslie West, Joe Perry e Dr. John.
Due giorni dopo aver partecipato al Cahors Blues Festival in Francia, Johnny Winter venne trovato morto nella sua camera di albergo a Montreux, in Svizzera. Era il 16 luglio 2014.
Meno di un anno dopo, Step Back vinse il premio come miglior album blues ai Grammy Awards 2015. Il primo e unico della sua carriera, dopo decenni di candidature sfumate nel nulla. 

martedì 14 luglio 2015

Ascolti per una calda estate [Suggestioni uditive]

Considerando che l'estate è iniziata il 21 giugno e promette di durare ancora un bel po', si può dire che, almeno musicalmente, non manca la roba con cui rifugiarsi da radio strillate, tormentoni, mattinicinque, lineeverdi, serenivariabili, estatidirette, isoleditentazioni e compagnia cantante. Per una volta, il disco della mia estate 2015 lo firma un coetaneo: Daniel Bachman, nato un giorno prima del sottoscritto a Fredericksburg, Virginia e autore di River (Three Lobed, ★★★★), settima opera in studio e prima a godere di una distribuzione internazionale. Sette brani strumentali per sola chitarra. Niente voce, niente sovrincisioni, niente di niente. Con un po' di eco e un microfono, Daniel dice tutto quello di cui ha bisogno. Suona canzoni bellissime, rurali ed essenziali, produce la colonna sonora di un film che deve ancora essere girato e che magari non uscirà mai dalla testa di chi ascolta.

Non si può dire invece che i frutti estivi del lavoro in studio di un anziano leone di nome Neil Young abbiano arrecato ulteriore lustro alla sua (ormai sterminata) discografia: l'opus n°36 The Monsanto Years (Reprise, ★★) risulterà interessante come disco di denuncia, ma è davvero miserella a livello di musica. Con questo non voglio passare come l'integralista che pretende la presenza dei Crazy Horse in studio (Young ha saputo farne a meno moltissime volte negli ultimi due decenni e la sua arte ne ha anche saputo trarre giovamento), ma davvero questi Promise Of The Real capitanati da Luke Nelson (figlio di Willie) non è che facciano scintille col maestro canadese. C'è una bella cavalcata elettrica di nome Big Box, ma poco altro.
Sempre di vecchi cantori e di gente della famiglia Nelson scrivo, invece, ascoltando Django & Jimmie (Legacy Recordings, ★★★½) di Willie Nelson e Merle Haggard. Questi due ottantenni hanno pensato bene di incidere il loro quarto disco di collaborazioni, e senza dubbio hanno fatto un lavorone sia per i loro standard (i lavori di Nelson, recentemente, tendevano abbastanza ad annoiare) che per quelli della country music odierna. Lungo (14 tracce), mutevole e a volte perfino un po' ruffiano, Django & Jimmie non è il dischetto facile da consigliare ai neofiti, ma se un po' di bene a questi due cowboys ancora attivissimi lo si vuole, non deluderà le aspettative di nessuno.
Difficile, poco "estivo" e minuziosamente cesellato dal suo artefice è invece un disco su cui tante riviste stanno spendendo litri di inchiostro: mi riferisco ad Ashes & Dust (Provogue, ★★★) di Warren Haynes. Capiamoci: a me Warren Haynes piace, non serve ridefinirlo anche qua uno dei cinque, dieci chitarristi migliori al mondo e per quanto mi riguarda chi, a 55 anni, ha già militato negli Allman, nei Grateful Dead e ha fondato i Gov't Mule, può davvero fare quello che vuole. Ashes & Dust è un disco sunato bene e prodotto benissimo. Si sente che dietro ad ogni brano c'è un lavoro grandissimo, un lavoro di settimane, se non di mesi: eppure soffre di quello di cui soffrivano i due precedenti album solisti di Warren. Leziosità, snobismo e una certa tendenza all'annoiare ritornano anche qua e io, purtroppo, non posso fare a meno di accorgermene. Ma anche dopo un ascolto complesso e poco esaltante, resta il piacere di sentire la chitarra di Warren Haynes, una chitarra udibile anche nella Simple Man suonata da lui e dai Muli in One More From The Fans (Ear Music, 2Cd, ★★), doppia testimonianza del concerto-omaggio a quel che resta dei Lynyrd Skynyrd catturata ad Atlanta lo scorso novembre. Qualche buona cover ci può anche stare, ma a parte i tributi di John Hiatt, Gregg Allman e, appunto, dei Gov't Mule, si respira un'aria abbastanza stantia. 
Che poi, a conti fatti, questa del 2015, almeno in amibito rock, è un'estate di ascolti concertistici e di live "ritrovati". Prendiamo ad esempio la punta di diamante del materiale di archivio emerso in questo periodo: Live 1968 At The Carousel Ballroom (Rockbeat, ★★★★ degli Electric Flag, uno dei tanti complessi "made by Mike Bloomfield", il più soul e quello dall'autonomia più breve (durò dal 1967 al 1969). La formazione ha del miracoloso: Bloomfield viene affiancato da Buddy Miles alle pelli, da Harvey Brooks al basso e dall'amico Nick Gravenites alla voce e alla seconda chitarra. C'è un quartetto di fiati pauroso e, nella seconda parte, al microfono arriva Erma Franklin (sorella di Aretha) che canta anche Piece Of My Heart con qualche anno di anticipo su una certa Janis. Un frullato di rock, jazz e soul emerso da non si da dove e ben restaurato, nonchè uno dei capolavori della musica ritrovata quest'anno.
Per intensità e groove ci si può avvicinare A&R Studios 1971 (Iconography, ★★★★) dei Delaney&Bonnie migliori, quelli reduci dal tour inglese con Eric Clapton (On Tour With Eric Clapton And Friends) e protagonisti di una lunga session radiofonica che vedeva coinvolti anche Duane e Gregg Allman, Sam Clayton e King Curtis al pianoforte. Non è roba inedita: sia su An Anthology Vol. II che nel box di Skydog erano emerse diverse canzoni, perlopiù incise nella prima parte, quella acustica. Le sorprese e le chicche arrivano più nella seconda, quella con la band vera e propria e con Curtis che pesta sui tasti del piano. Peccato per due sole cose: i lunghissimi, pallosi interventi dello speaker e un lavoro di pulizia del suono non sempre all'altezza.
Poetico e piacevole (specie per noi tifosi sfegatati dei fuorilegge) è Whole Coffeehouse, Minneapolis, MN, 9 November 1973 (Echoes, ★★★) di Townes Van Zandt, ma assai poco aggiunge alla sua discografia così minimale e così povera di materiale dal vivo. Del resto, quando si incide un disco come Live At The Old Quarter (1977) è abbastanza comprensibile che tutto il resto appaia superfluo.
Un periodo unico e trionfale per la loro carriera, è invece quello che attraversarono i Phish nel 1997, reduci dal successo commerciale di Billy Breathes e desiderosi di tornare in Europa. L'euforia e l'altissimo livello di maturità artistica sono due degli ingredienti essenziali nella buona riuscita di un'opera mastodontica come Amsterdam (Jemp Records, 8 Cd, ★★★½), boxset che presenta integralmente tre magnifici shows tenuti al Paradiso fra il febbraio e il luglio di quella splendida annata. Canzoni interminabili, estenuanti e ancora in grado di ammaliare. Tanto per ricordarci che i Phish sono stati, in termini di tempo, una delle ultime grandi american band della storia del rock. La location è mitologica, il pubblico è letteralmente inebriato da tutto quel ritmo, quelle vibrazioni e quel senso di ampio respiro di cui oggi, in un'epoca in cui gli artisti vengono portati via dal servizio d'ordine se sforano coi tempi (è successo poche settimane fa in Danimarca a Damon Albarn), si sente tanto il bisogno.
Se infine la fame di live non è ancora passata, sappiate che, sempre di questi tempi, sono usciti il The Marquee Club 1971 dei Rolling Stones, The Last Tour del compianto Lowell George, Live At Ebbets Field di Muddy Waters (la band è quella dei primi anni Settanta), un Live In Hollywood di B.B. King, il triplo Broadway Act One di Jerry Garcia e compagni, Live In 1967 di John Mayall con i Bluesbreakers dell'epoca (fra gli altri, Peter Green e Mick Fleetwood), Amazing Grace Coffee House della Emmylou Harris (qua, nel '75, ai tempi del suo primo tour solista). Vi bastano?
La buona musica non va in vacanza e sarò di nuovo per qua a parlare del nuovo album dei Chemical Brothers e di tante altre cosine.























"True Detective", 2x04 [Recensione]

Bene, siamo esattamente a metà della seconda stagione e True Detective si riconferma ampiamente la serie della (mia) vita.
Questa puntata di mezzo, Down Will Come, descrive il crollo- essenzialmente psicologico -di almeno tre quarti dei protagonisti della serie. Per prima cosa, esplode il caso Woodrugh, che nell'arco di poco tempo è passato dall'essere il poliziotto-motociclista-scopatore all'apparire come l'ennesimo soldatino tormentato dai rimorsi, segretamente bisessuale e braccato dai giornalisti avidi di ottenere informazioni sui suoi crimini di guerra.
La frustrazione inizia a farsi spazio anche nella vita di Frank: sua moglie Jordan (personaggio della cui magnificenza non si è forse parlato a sufficienza) è palesemente stufa di test, medici e sterilità. Ma anche i suoi ex-sottomessi iniziano a guardare con un certo astio a questa sua urgenza di ritornare  nel "giro". Eppure nulla sembra dissuaderlo e il fantasma della povertà è giusto dietro l'angolo.
Tuttavia, Down Will Come passa alla storia anche solo per risultare il primo momento in cui il personaggio di Ani viene messo in ginocchio: incastrata da superiori potenti e consapevoli della sua debolezza per il gioco e a rischio licenziamento per colpa di un ex-amante ottuso e caro alle alte sfere del PD (qua inteso come Police Department e non come Partito Democratico),  finisce col rivolgersi alla sorella (nel dialogo più bello della puntata) e al padre (bel personaggio, anche se un po'troppo tendente a superare il livello di credibilità delle coincidenze di un serial).
Rimane Velcoro, protagonista di un intenso abbraccio a bordo piscina col piccolo Chad e di una risalita dall'inferno dell'alcool che pare costargli non poca fatica.
Jeremy Podeswa (canadese che si segnalò a fine anni novanta con I cinque sensi per poi passare al piccolo schermo) firma una regia essenziale e piuttosto priva di invenzioni e virtuosismi, e ciò nonostante regala una sparatoria di quasi minuti come al cinema non se ne vedono. Tanto per ribadire la superiorità di True Detective 2.

sabato 11 luglio 2015

Terminator Genisys [Recensione]

Raramente il destino si è accanito tanto duramente su una saga cinematografica come nel caso di Terminator.
Ridendo e scherzando, sono passati trentuno anni da quando un cyborg (termine allora relativamente consueto) arrivava nella Città degli Angeli dal 2029 al solo scopo di uccidere Sarah Connor, cameriera premestruata che si ritrovava, suo malgrado, ad essere protagonista del primo Terminator di James Cameron, film superbo superato soltanto dal sequel, Terminator 2- Il giorno del giudizio (1991).
Si potrebbe scrivere un libro sui pregi dei primi due Terminator, capolavori a cui, però, la peggiore industria cinermatografica del mondo ha voluto dare un continuum. Prima è toccato a Terminator 3- Le macchine ribelli (2003), poi al perfino peggiore (nonchè il più costoso dell'intera saga) Terminator Salvation (2009) e oggi, in era di resetting, spetta a Terminator Genisys l'arduo compito di affossare ancora di più la saga.
E anzi che perfino i fan più accecati avevano accolto con sollievo la notizia che McG (uno dei peggiori registi al mondo e autore del Salvation) si fosse ritirato dal progetto. Peccato che anche Alan Taylor, l'uomo che ci ha tediato un paio di anni or sono con Thor- The Dark World, non si sia rivelato propriamente il migliore dei rimpiazzi vociferati in un primo momento (fra gli altri, Ang Lee e Denis Villeneuve).
E anzi che Emilia Clarke poteva rivelarsi quasi una scelta azzeccata.
Resta il fatto che il tempo è un giudice inesorabile e che l' "I'll Be Back" di Schwarzy non impressiona, non commuove e, soprattutto, non interessa più a nessuno. Di action movies in salsa fantascientifica ne sono usciti e ne escono annualmente pochi, ma tutti nettamente migliori di questo Genisys, che, a poche ore dall'uscita, sembra già vecchio e si lascia pure dimenticare tanto volentieri.

lunedì 6 luglio 2015

"True Detective", 2x03 [Recensione]

<<Maybe Tomorrow The Good Lord Will Take You Away>>, cantavano gli Aerosmith nel loro primo, tiepido successo del 1973. Potrebbe benissimo essere la frase saltata alla mente di Ray Velcoro dopo che un qualcuno mascherato da corvo gli ha piantato due sonori colpi in pancia alla fine della precedente puntata. <<Forse domani il Buon Dio verrà a prendermi... ma di certo non oggi!>>.  
Il Maybe Tomorrow di True Detective è come il You Only Live Twice di 007: una resurrezione, un viaggio all'Inferno (il solito bar, un padre poliziotto afflitto dagli stessi vizi del figlio, Conway Twitty che canta The Rose) e un ritorno ad un Inferno perfino peggiore (la realtà). Ma <<Maybe Tomorrow>> è anche la frase con cui, nel suo privato, Frank Semyon si congeda dalla moglie, desiderosa di fare pace alla fine di quella che è stata, per entrambi, una dura giornata: lei ha dovuto fare i conti di nuovo con l'impotenza del marito, lui ha pestato a sangue un vecchio socio e gli ha tolto un'intera arcata di denti con una pinza.
L'indagine è in corso. Antigone e Paul si dividono fra ville dove figli di politicanti fumano crack e possono permettersi pure di cacciare la polizia e locali notturni dove gli sbirri non sono graditi e  la legge viene dettata da prostitute, gigolo e transgender.
Dai margini della storia affiorano esami medici imbarazzanti, webcam scomparse, un Velcoro Sr. molto simpatico, set di film fantasy orrendi, ex-mogli sempre più amareggiate. In più, si può dire che Maybe Tomorrow è la prima puntata dove Taylor Kitsch trova una sua ragione di essere e gode di qualche inquadratura in più: soffre ancora in silenzio e di nuovo glissa sul suo passato con i colleghi, ma il passato viene a cercarlo lo stesso, anche alla fine di una gara di motocross. Insomma, per farla breve, il personaggio verso cui finora nutrivo più riserve è quello che mi ha entusiasmato di più ad episodio concluso.
Note a margine:
1- la puntata ha avuto ottimi ascolti ma è piaciuta molto poco al pubblico americano.
2- True Detective 2 non è Il trono di spade.
3- Maybe Tomorrow è la migliore delle tre puntate uscite finora (Janus Metz, un danese che non conosco ma che ha girato il tutto talmente bene che Justin Lin dovrebbe telefonargli ogni giorno per fargli i complimenti).
Infine, una richiesta: chiunque sappia come si chiama e di chi è la canzone dei titoli di coda, mi scriva. Grazie.


giovedì 2 luglio 2015

#TBT Best Of 1985 [Suggestioni uditive]

Best of 1985

Il mondo affoga nella musica di plastica, il Rock, ormai svuotato e asservito alle regole di MTV, sopravvive.
Gli Stones e Dylan sfornano musica per le piste da ballo, mentre il Boss entra in una fase di imborghesimento anticipato, forte dell'eccessivo successo di Born In The USA.
Ma esistono le eccezioni: Tom Waits firma uno dei suoi tre capolavori assoluti proprio nel 1985, e altrettanto fanno i Dire Straits.
Grande movimento nel mondo del metallo pesante: gli Iron Maiden documentano il trionfale tour mondiale di Powerslave con il doppio Live After Death, mentre i Megadeth irrompono sulla scena e dimostrano che, nel giro di un decennio, saranno davvero la più grande band trash metal sulla piazza. Si gettano le basi per la rinascita sudista degli anni Novanta, fra esordienti "di lusso" come Steve Earle e padrini cowpunk quali Jason & The Scorchers. Si segnalano gli indipendenti Jesus And Mary Chain, i Del Fuegos, ma, soprattutto, un certo John Mellencamp pubblica il primo disco veramente bello della sua carriera: è già a giro da un decennio, è antipatico e stronzo come pochi altri artisti, ma una cosa come Scarecrow non viene fuori tutti i giorni e dimostra che, sotto la spocchia, ci può essere ben altro.

1.
Tom Waits, Rain Dogs (Elektra)

2.
Dire Straits, Brothers In Arms (Vertigo)

3.
Jesus And The Mary Chain, Psychocandy (Blanco Y Negro)


4.
Robert Palmer, Riptide (Island Records)

5.
Megadeth, Killing Is My Business... And The Business Is Good (Combat Records)

6.
Jason And The Scorchers, Lost And Found (EMI)

7.
John Mellencamp, Scarecrow (Riva Records)

8.
Iron Maiden, Live After Death (EMI)

9.
Del Fuegos, Boston, Mass. (Wounded Bird Records)

10.
Steve Earle, Guitartown (MCA)