Fa piacere notare come l'Oscar vinto lo scorso anno e il gigantesco successo "commerciale" scaturito da La grande bellezza (2013) non abbiano snaturato l'arte di Paolo Sorrentino, sommo maestro napoletano che a quarantacinque anni, col nuovo Youth in concorso a Cannes, si dimostra di nuovo costituzionalmente incapace di fare del cinema mediocre.
Alla base di tutto c'è un capolavoro della letteratura del Novecento, ossia La montagna incantata di Thomas Mann. Ma se nel libro, era il giovane ingegnere Hans Castorp a trascorrere le sue vacanze nel sanatorio del Berghof di Davos e ad entrare in contatto con una schiera di personaggi che gli avrebbero cambiato per sempre l'esistenza, Youth, al contrario, vede protagonista una coppia di vecchi amici, Fred e Mick (Caine e Keitel). Se proprio si vuole, il ruolo di Kastorp potrebbe spettare a Jimmy (un eccezionale Paul Dano), giovane attore californiano che, "quando non tira coca o si sbatte la fidanzata anoressica", legge Novalis. Ma come già accaduto ai tempi de Le conseguenze dell'amore (che con Youth condivide l'ambientazione alberghiera, lo sfondo svizzero e non in ultimo una profonda, toccante concezione dell'amicizia fra due esseri umani) qui è il contorno a fare la differenza: che siano monaci presumibilmente incapaci di levitare o figlie scontrose e insoddisfatte (un po' discutibile il personaggio di Rachel Weisz), l'umanità con cui Fred e Mick si confrontano quotidianamente altro non è che il panorama di (quasi) tutte le correnti di pensiero del nostro tempo. Per colmo di ironia, in mezzo a tante forze contrastanti e al termine di riflessioni venate dall'amara constatazione di essere giunti al tramonto della vita, Fred finirà col trovare il proprio equilibrio e a compiere un ultimo, purificante atto di amore. Perchè Youth, come ogni film di Sorrentino, anche di amore parla, certo senza ricorrere alle massime dei Baci Perugina o ai toni erotici di una marca di slip (a quello ci pensano i video musicali della pop-star Paloma Faith, nuova, discutibile fiamma del figlio di Mick). Dalle mucche agli alberi, prende forma un'idea di luogo (cinematografico ancor prima che geografico) dove Sorrentino fa convergere impressioni, sensazioni, riflessioni ed emozioni: quelle stesse emozioni che Fred definisce "sopravvalutate" ma che, anche grazie a Mick, scoprirà essere "tutto ciò che abbiamo e tutto ciò che ci rimane".
Non ci sono le carrellate incredibili de La grande bellezza (forse sarebbero state di troppo), nè gli strazianti primi piani di Must Be The Place, nè la tensione de Il divo, ma tutto è più morbido, perfino più dolce. La fotografia di Bigazzi si evolve di nuovo facendosi più contenuta, esalando i profumi della montagna, il respiro del sanatorio, le ombre della sera, il silenzio degli orizzonti. Ad accompagnare il tutto, le grandi ballate di Mark Kozelek e i dondolii sonori che confinano con la musica classica (Fred è un compositore e direttore d'orchestra in pensione). E su questo mondo dove il tempo sembra fare strani scherzi e in cui tutto è profondamente simbolico e al contempo profondamente vero, gli occhi dell'ottantenne Michael Caine osservano luci e ombre della vita passata e disegnano una estrema e confortante radiografia dell'anima.
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