Physical Graffiti Deluxe Edition
(Atlantic Records, 2015)
★★
PREMESSA
Nello scorso giugno ascoltai molti dischi tutti insieme, prendendo appunti sparsi e decidendo, da ultimo, di recensirli tutti in una volta sola. In cima alla lista trovavano spazio le riedizioni dei primi tre album dei Led Zeppelin, restaurati e rimasterizzati da Jimmy Page in persona nell'arco degli ultimi due anni. Pur trovandomi di fronte a tre diversi capolavori che già conoscevo alla perfezione, non potei fare a meno di giudicare duramente sia il prezzo che l'effettiva qualità del materiale proposto: inedite (si fa per dire) scialbe e per nulla memorabili, mix radiofonici che suonavano piuttosto offensivi (specie se si pensa agli originali) e grafica "in negativo" a dir poco penosa. Per gli stessi motivi, non ho dedicato mezza riga neanche alle pompatissime super deluxe editions di IV e Houses Of The Holy, altre due pietre miliari riproposte con metodologie analoghe e povere di qualsiasi extra. Ma con Physical Graffiti non ce la faccio. Compie quarant'anni e mi sembra giusto parlare sia della storia che ci lega, sia della mediocre ristampa che i media stanno incensando in ogni angolo del globo.
Un momento importante per noi adolescenti ascoltatori di buona musica era quando, solitamente al sabato pomeriggio, cercavamo di convincere i nostri genitori ad "allungare il brodo" della paghetta per correre a comprarci un disco. Se poi le stelle erano ben allineate, potevano darci un ulteriore extra, esattamente come accadde a me nel rigido inverno del 2004. La Warner Music aveva messo in sconto tutti gli album in studio dei Led Zeppelin. Era una promozione che attendevo da tempo, specie da quando all'autogestione a scuola, nella precedente primavera, avevo visto The Song Remains The Same di Peter Clifton e Joe Massot ed ero rimasto folgorato dalla chitarra di Jimmy Page e dalla batteria di John Bonham.
Nota a margine: il mio primo contatto coi Led Zeppelin risaliva all'anno prima, quando al concerto di fine anno (non so se nelle scuole ancora sopravvive questa bella usanza) un gruppo che si chiamava Rock Shot presentò una versione strumentale fantastica di Black Dog e io sentii i ragazzi più grandi pronunciare il nome del gruppo.
Comunque, oltre ai dieci euro che avevo già racimolato, mia mamma me ne dette altri cinque: pensavo mi sarebbero avanzati, ma non fu così. Di fatti, ben poco era rimasto della promozione della Warner sul catalogo degli Zep, o almeno su quella fetta di dischi che interessavano a me. Chi la sapeva lunga mi aveva detto di comprare uno a caso dei primi quattro, al limite Houses Of The Holy, e di lasciare perdere gli ultimi album che erano robaccia. In effetti, la splendida copertina dello studio Hipgnosis di Houses Of The Holy faceva capolino dallo scaffaletto, con i suoi bellissimi colori caldi e quelle sagome di giovani ragazze intente ad asciugarsi (?) sulla scogliera, ma la mia attenzione fu catturata da un disco diverso, quello con la foto di un palazzo che sulle prime mi ricordò West Side Story e con la scritta, minuscola e in stile liberty, "Led Zeppelin" posta in alto. Notai altre due cose: il simbolo "2 Cd" stampato sul bordo e il prezzo di 15,90 euro, ovvero i quindici che avevo più i novanta centesimi che mi sarebbero serviti al ritorno per il biglietto del Pollicino. Faceva freddo, è vero, ma a quindici anni della temperatura ti importa relativamente e musica rock può significare anche "lunghe camminate sotto la pioggia". Così, comprai la mia copia di Physical Graffiti (che oltre al primo disco dei Led Zeppelin fu anche il primo doppio album della mia vita) e mi convinsi che non avrei ascoltato altro fino al mese seguente.
Due ore dopo ero spiazzato. I Led Zeppelin (o almeno, i Led Zeppelin di Physical Graffiti) sembravano molto diversi da come me li aspettavo, un po' per la complessità del tessuto sonoro (The Rover, In My Time Of Dying o Kashmir non rientravano propriamente negli standard popolari del 2004), un po' perchè le melodie di questo disco sono oggettivamente meno immediate rispetto ai riff leggendari di Communication Breakdown, Whole Lotta Love e Rock&Roll. E se pure è vero che in III c'era Since I've Been Lovin'You, in IV Starway To Heaven e che Houses Of The Holy ospitava The Summer Song, qua la ballatona da stadio era un oggetto del desiderio mancante. Ma il vero problema è che io non conoscevo tutta questa schiera di grandi canzoni, non avevo secondi termini di paragone e perciò, sul momento, Physical Graffiti mi parve un disco difficile da assimilare e apprezzare. Del resto, fu pubblicato dopo una gestazione lunghissima: le quindici canzoni ospitate furono tutte incise fra il 1972 e il 1975, molte furono considerate (e lo erano) scarti di Houses Of The Holy e nessuna appariva troppo orecchiabile. Un doppio poi è sempre un azzardo: lo sapevano bene anche il Dylan di Blonde On Blonde, l'Hendrix di Electric Ladyland, gli Who di Tommy, gli Stones di Exile On Main Street e i Beatles del White Album, cinque opere complesse e sfaccettate, cinque capolavori che non conoscono data di scadenza e con cui tutti hanno dovuto fare i conti negli anni a venire.
Nei mesi successivi al mio importante acquisto, mi fu passato il primo compact dei Remasters zeppeliniani (una raccolta molto ben fatta, che tuttora potrebbe rappresentare, per i neofiti, il miglior strumento con cui avvicinarsi alla band). Copriva la prima fase della carriera del gruppo (1968-1974) e mi fu di grande aiuto per comprendere meglio l'imponente doppio disco. Fu come trovarsi dentro a una camera oscura: un poco alla volta, ascolto dopo ascolto, sentivo emergere sfumature nuove (The Rover e In My Time Of Dying), creare passaggi emozionanti che prima erano persi chissà dove (Kashmir, Bron-Yr-Aur, Ten Years Gone), le melodie farsi più orecchiabili (In The Light, Black Country Woman, Sick Again), le canzoni prendere finalmente forma. Eppure, scoprii che a molti Physical Graffiti aveva fatto lo stesso effetto: forse perchè somigliava molto poco sia ai primi quattro che a Houses Of The Holy, o forse perchè un po' tutti tendevano a spacciare per debolezza certi esperimenti che gli Zep si potevano permettere solo all'epoca, indipendentemente dalla volontà delle grandi case discografiche e con una propria etichetta (quella Swan Song del cui catalogo Physical fu proprio il primo numero). Sempre in questa occasione, capii anche l'immensa importanza che riveste, in generale, il secondo ascolto.
Oggi di Physical Graffiti, complice la sua ristampa, si torna a parlare molto. In questi quarant'anni, è continuato a piacere a tanti e a scontentare pochi. Al contrario di quanto occorso col successivo Presence, non si è assistito ad un processo di totale rivalutazione, perchè Physical convinse già nel 1975. Però è rimasto, a detta di tutti, il disco "difficile" degli Zed, lungo e ostico. Ho un amico che anni fa lo volle masterizzato su un singolo disco, lasciando fuori i pezzi più funkeggianti e portando la tracklist da quindici a dieci brani. Fu un esperimento curioso, ma utile a farmi capire che molto probabilmente anche io avrei effettuato la stessa, identica selezione. Analizzandone il lascito, ho ritrovato una magnifica The Rover in A Change Of Seasons dei Dream Theater e una passabile In My Time Of Dying nell'unico, omonimo album dei Pride&Glory, una vecchia band voluta da Zakk Wylde che pubblicava con Geffen. Di Kashmir continuo a considerare un capolavoro assoluto la versione presentata dai soli Page e Plant nel loro Unplugged (1994), così come amo le Ten Years Gone e Sick Again suonate sempre da Page coi Black Crowes in quel memorabile Live At Greek del 2000. Per il resto, non c'è tribute album che dedichi troppo spazio ai brani di Physical Graffiti, ma forse è meglio così. In questa ennesima, deludente deluxe edition zeppeliniana trovano spazio un paio di inedite e molte, troppe early versions delle canzoni presenti. Una buona opera di remix sulla batteria di Bonzo e la voce di Plant rilucidata al meglio, purtroppo, non bastano a giustificare i ventisette euro di spesa.
Nota a margine: il mio primo contatto coi Led Zeppelin risaliva all'anno prima, quando al concerto di fine anno (non so se nelle scuole ancora sopravvive questa bella usanza) un gruppo che si chiamava Rock Shot presentò una versione strumentale fantastica di Black Dog e io sentii i ragazzi più grandi pronunciare il nome del gruppo.
Comunque, oltre ai dieci euro che avevo già racimolato, mia mamma me ne dette altri cinque: pensavo mi sarebbero avanzati, ma non fu così. Di fatti, ben poco era rimasto della promozione della Warner sul catalogo degli Zep, o almeno su quella fetta di dischi che interessavano a me. Chi la sapeva lunga mi aveva detto di comprare uno a caso dei primi quattro, al limite Houses Of The Holy, e di lasciare perdere gli ultimi album che erano robaccia. In effetti, la splendida copertina dello studio Hipgnosis di Houses Of The Holy faceva capolino dallo scaffaletto, con i suoi bellissimi colori caldi e quelle sagome di giovani ragazze intente ad asciugarsi (?) sulla scogliera, ma la mia attenzione fu catturata da un disco diverso, quello con la foto di un palazzo che sulle prime mi ricordò West Side Story e con la scritta, minuscola e in stile liberty, "Led Zeppelin" posta in alto. Notai altre due cose: il simbolo "2 Cd" stampato sul bordo e il prezzo di 15,90 euro, ovvero i quindici che avevo più i novanta centesimi che mi sarebbero serviti al ritorno per il biglietto del Pollicino. Faceva freddo, è vero, ma a quindici anni della temperatura ti importa relativamente e musica rock può significare anche "lunghe camminate sotto la pioggia". Così, comprai la mia copia di Physical Graffiti (che oltre al primo disco dei Led Zeppelin fu anche il primo doppio album della mia vita) e mi convinsi che non avrei ascoltato altro fino al mese seguente.
Due ore dopo ero spiazzato. I Led Zeppelin (o almeno, i Led Zeppelin di Physical Graffiti) sembravano molto diversi da come me li aspettavo, un po' per la complessità del tessuto sonoro (The Rover, In My Time Of Dying o Kashmir non rientravano propriamente negli standard popolari del 2004), un po' perchè le melodie di questo disco sono oggettivamente meno immediate rispetto ai riff leggendari di Communication Breakdown, Whole Lotta Love e Rock&Roll. E se pure è vero che in III c'era Since I've Been Lovin'You, in IV Starway To Heaven e che Houses Of The Holy ospitava The Summer Song, qua la ballatona da stadio era un oggetto del desiderio mancante. Ma il vero problema è che io non conoscevo tutta questa schiera di grandi canzoni, non avevo secondi termini di paragone e perciò, sul momento, Physical Graffiti mi parve un disco difficile da assimilare e apprezzare. Del resto, fu pubblicato dopo una gestazione lunghissima: le quindici canzoni ospitate furono tutte incise fra il 1972 e il 1975, molte furono considerate (e lo erano) scarti di Houses Of The Holy e nessuna appariva troppo orecchiabile. Un doppio poi è sempre un azzardo: lo sapevano bene anche il Dylan di Blonde On Blonde, l'Hendrix di Electric Ladyland, gli Who di Tommy, gli Stones di Exile On Main Street e i Beatles del White Album, cinque opere complesse e sfaccettate, cinque capolavori che non conoscono data di scadenza e con cui tutti hanno dovuto fare i conti negli anni a venire.
Nei mesi successivi al mio importante acquisto, mi fu passato il primo compact dei Remasters zeppeliniani (una raccolta molto ben fatta, che tuttora potrebbe rappresentare, per i neofiti, il miglior strumento con cui avvicinarsi alla band). Copriva la prima fase della carriera del gruppo (1968-1974) e mi fu di grande aiuto per comprendere meglio l'imponente doppio disco. Fu come trovarsi dentro a una camera oscura: un poco alla volta, ascolto dopo ascolto, sentivo emergere sfumature nuove (The Rover e In My Time Of Dying), creare passaggi emozionanti che prima erano persi chissà dove (Kashmir, Bron-Yr-Aur, Ten Years Gone), le melodie farsi più orecchiabili (In The Light, Black Country Woman, Sick Again), le canzoni prendere finalmente forma. Eppure, scoprii che a molti Physical Graffiti aveva fatto lo stesso effetto: forse perchè somigliava molto poco sia ai primi quattro che a Houses Of The Holy, o forse perchè un po' tutti tendevano a spacciare per debolezza certi esperimenti che gli Zep si potevano permettere solo all'epoca, indipendentemente dalla volontà delle grandi case discografiche e con una propria etichetta (quella Swan Song del cui catalogo Physical fu proprio il primo numero). Sempre in questa occasione, capii anche l'immensa importanza che riveste, in generale, il secondo ascolto.
Oggi di Physical Graffiti, complice la sua ristampa, si torna a parlare molto. In questi quarant'anni, è continuato a piacere a tanti e a scontentare pochi. Al contrario di quanto occorso col successivo Presence, non si è assistito ad un processo di totale rivalutazione, perchè Physical convinse già nel 1975. Però è rimasto, a detta di tutti, il disco "difficile" degli Zed, lungo e ostico. Ho un amico che anni fa lo volle masterizzato su un singolo disco, lasciando fuori i pezzi più funkeggianti e portando la tracklist da quindici a dieci brani. Fu un esperimento curioso, ma utile a farmi capire che molto probabilmente anche io avrei effettuato la stessa, identica selezione. Analizzandone il lascito, ho ritrovato una magnifica The Rover in A Change Of Seasons dei Dream Theater e una passabile In My Time Of Dying nell'unico, omonimo album dei Pride&Glory, una vecchia band voluta da Zakk Wylde che pubblicava con Geffen. Di Kashmir continuo a considerare un capolavoro assoluto la versione presentata dai soli Page e Plant nel loro Unplugged (1994), così come amo le Ten Years Gone e Sick Again suonate sempre da Page coi Black Crowes in quel memorabile Live At Greek del 2000. Per il resto, non c'è tribute album che dedichi troppo spazio ai brani di Physical Graffiti, ma forse è meglio così. In questa ennesima, deludente deluxe edition zeppeliniana trovano spazio un paio di inedite e molte, troppe early versions delle canzoni presenti. Una buona opera di remix sulla batteria di Bonzo e la voce di Plant rilucidata al meglio, purtroppo, non bastano a giustificare i ventisette euro di spesa.
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