Bob Dylan,
Shadows In The Night
(Columbia Records, 2015)
★★½
"Dylan ha cessato da tempo di essere un semplice artista. Ormai è una geografia, un universo semiotico, un'intera cultura concentrata in un singolo performer [...], un'infinita partita a scacchi tra la parola e la voce. [...] Dylan mantiene il diritto di cantare bene o male, di comportarsi in modo generoso o scostante, di salire sul palco lucidissimo o stordito, di presentare canzoni mai sentite in arrangiamenti straordinari o di ripetere una routine di brani che ci escono dalle orecchie. [...] Anche quando dà il peggio di sè, Dylan si rifiuta di essere mediocre."
Alessandro Carrera, La voce di Bob Dylan (Feltrinelli, 2011)
Il Bob Dylan del 2015 ha ancora addosso il sapore della libertà, e questa cosa rincuora.
Non si presta ad essere ospitato in salotti televisivi in cui si parla di eccessi, cadute, divorzi, overdose, disintossicazioni e ritorni in forma smagliante. Non smette di vivere on the road (il Never Ending Tour dura dal 1988 e, stando a quanto ho letto in un live reportage sul Buscadero di gennaio, prosegue piuttosto bene). Non è morto. Ma soprattutto non accenna a smettere di pensare, scrivere, suonare, cantare, incidere, produrre e vendere musica. Si è guadagnato (anche giustamente, dico io da dylaniano e dylaniato) il diritto di fare ciò che vuole. Vendere o meno, da qualche decennio a questa parte, gli interessa poco, e fidatevi: non è una frase fatta.
Non si presta ad essere ospitato in salotti televisivi in cui si parla di eccessi, cadute, divorzi, overdose, disintossicazioni e ritorni in forma smagliante. Non smette di vivere on the road (il Never Ending Tour dura dal 1988 e, stando a quanto ho letto in un live reportage sul Buscadero di gennaio, prosegue piuttosto bene). Non è morto. Ma soprattutto non accenna a smettere di pensare, scrivere, suonare, cantare, incidere, produrre e vendere musica. Si è guadagnato (anche giustamente, dico io da dylaniano e dylaniato) il diritto di fare ciò che vuole. Vendere o meno, da qualche decennio a questa parte, gli interessa poco, e fidatevi: non è una frase fatta.
Da anni racconta di odiare la tecnologia digitale e di incidere i propri dischi con microfoni e amplificatori che ormai si trovano solo su qualche bancarella e nelle teche dei collezionisti. Esige che sulle copertine degli album trovino spazio scritte quali "Viva-tonal recording" e "Grammophone Company", roba che la Columbia utilizzava negli anni Cinquanta: e non lo fa perchè è un vintagista consumato, ma perchè tutto questo fa parte della sua esperienza terrena di uomo e artista e lo fa stare bene. Shadows In The Night è il suo trentaseiesimo album in studio e il quarto a presentare esclusivamente brani non originali: tuttavia, non siamo di fronte ad una nuova raccolta di canti tradizionali pensata come un seguito di World Gone Wrong (1993) o dello strambo Christmas In The Heart (2009), bensì ad un disco di cover. Cover di Frank Sinatra, per l'esattezza.
Dylan ripropone dieci pezzi di repertorio dell'artista a cui, specie negli anni Sessanta, veniva contrapposto in maniera totale. Gli dedica un tributo tardivo, originale, appassionato e assolutamente non smosso da motivazioni particolari (occasioni, ricorrenze, anniversari, eccetera). La copertina ha una resa grafica che ricorda le soluzioni della Blue Tone ed è un palese omaggio a quella, mitologica, di Hub-Tones (1962) di Freddie Hubbard. Le canzoni, rigorosamente registrate in presa diretta e senza sovraincisioni, faranno storcere il naso a chi si aspettava fiati, coro e orchestra tipici di questi traditional pop. Le canta col tono grave e baritonale che sfoggia nei concerti e che, in tempi recenti, mi ha impedito di apprezzare molti aspetti di Tempest (2012). Non c'è un brano che sia uno a potersi adattare, anche solo per sbaglio, ad una qualsiasi heavy rotation dei nostri tempi, ma poco importa: Dylan non è un astro dello swing, non si chiama Michael Bublè, non ambisce a far sentire le sue Autumn Leaves o Full Moon And Empty Arms (cito i due pezzi che mi hanno maggiormente convinto) dentro i centri commerciali. Ha ormai scavalcato i concetti di classifiche, indici di ascolto, test di gradimento, passaggi in radio e in televisione. E Shadows In The Night è la prova ulteriore che anche sentirlo cimentarsi con un repertorio non suo (e con esiti tutt'altro che brillanti) può comunque rivelarsi un'esperienza interessante e istruttiva. Scrivo "istruttiva", perchè qua dentro non ritroverete My Way o New York, New York, ma pezzi di Sinatra "minori", lontani nel tempo (i brani originali sono materiale uscito fra il 1947 e il 1959 e spesso basato su standard risalenti agli anni Venti e Trenta) e molto poco conosciuti nel Vecchio Continente.
E' davvero vecchia musica pensata per vecchie persone, quella di Shadows In The Night, che a dispetto del titolo e di certi passaggi un po' più oscuri, di notturno ha ben poco e in più momenti non sembra prendersi neanche troppo sul serio. Purtroppo, a me piace Bob Dylan che canta Bob Dylan, anche quello del nuovo millennio, quello che ruba a destra e a manca e tira fuori capolavori come Love And Theft (2001) e Modern Times (2006) o dischi semplicemente belli come Together Through Life (2009). Forse queste canzoncine mi avrebbero detto poco anche se le avessi ascoltate cinquant'anni fa. Lo so, è una faccenda di gusti, e i miei sono quelli di un romantico mezzo scemo che non si è ancora stancato di sentirsi rotolare via come una pietra scalciata e che non condivide questa operazione di tributo. Poi mi fermo a pensare che quest'uomo, dopo quasi quaranta album e a settantaquattro anni, continua a far discutere il mondo sulle sue scelte artistiche e allora mi guardo intorno, sorrido e penso che è davvero il più grande di tutti.
E' davvero vecchia musica pensata per vecchie persone, quella di Shadows In The Night, che a dispetto del titolo e di certi passaggi un po' più oscuri, di notturno ha ben poco e in più momenti non sembra prendersi neanche troppo sul serio. Purtroppo, a me piace Bob Dylan che canta Bob Dylan, anche quello del nuovo millennio, quello che ruba a destra e a manca e tira fuori capolavori come Love And Theft (2001) e Modern Times (2006) o dischi semplicemente belli come Together Through Life (2009). Forse queste canzoncine mi avrebbero detto poco anche se le avessi ascoltate cinquant'anni fa. Lo so, è una faccenda di gusti, e i miei sono quelli di un romantico mezzo scemo che non si è ancora stancato di sentirsi rotolare via come una pietra scalciata e che non condivide questa operazione di tributo. Poi mi fermo a pensare che quest'uomo, dopo quasi quaranta album e a settantaquattro anni, continua a far discutere il mondo sulle sue scelte artistiche e allora mi guardo intorno, sorrido e penso che è davvero il più grande di tutti.
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