venerdì 27 febbraio 2015

Jovanotti, "Lorenzo 2015 cc." [Suggestioni uditive]

Jovanotti,
Lorenzo 2015 cc.
(Universal, 2015, 2 Cd)














In tempi remoti, pubblicare un doppio album era una cosa importante. Significava che l'artista aveva superato il concetto di "raccolta di singoli" e questa sua scelta ne segnava, in qualche modo, il raggiungimento di una maturità umana e artistica che non avrebbe di certo lasciato indifferenti i fans. Con l'avvento del compact disc, che permetteva di contenere fino a ottanta minuti di musica, sorsero due tipologie di doppio album: il lavoro bello e necessario e il lavoro brutto e allungato.
Faccio un esempio di due opere appartenenti all'ultimo decennio molto diverse: Stadium Arcadium (2006) dei Red Hot Chili Peppers poteva tranquillamente essere composto da un solo disco, mentre il recente Down Where The Spirit Meets The Bone di Lucinda Williams (miglior album del 2014, per me e tantissime persone più competenti e preparate del sottoscritto) non avrebbe potuto essere che un susseguirsi di ventisette grandi brani. Proprio per supposta maturità, un grande artista sa decidere quali pezzi inserire e quali lasciare fuori o relegare al rango di b-sides, outtakes, scarti, materiale bonus (tutta roba utile che, nel periodo delle ristampe di molti classici, ha fatto la fortuna delle case discografiche).
Nel 1997 Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, , pubblicò un disco lungo e difficile: L'albero. Lo aveva registrato fra l'Italia, gli Stati Uniti e l'America Latina, coinvolgendo grandi musicisti e preferendo affiancare una vera band ai campionatori che tanto lo avevano reso famoso. Come si legge ne Il grande boh, tirò fuori materiale per una quarantina di pezzi, ne selezionò trenta e li incise. La Mercury dette la disponibilità per pubblicare un doppio, ma il Jova, in fase di missaggio, decise che i pezzi sarebbero divenuti diciannove. Una grande mossa di autocritica la sua, specie se si ascolta il risultato finale. L'albero è, a detta del suo stesso autore, il capolavoro di Jovanotti, un'opera coloratissima e completa dove il formidabile rap dei primi anni (e di tutti i suoi lavori migliori) incontra la passione per le sonorità alternative di mezza America. Solo il Lorenzo del 2008, quello ormai adulto e incupito di Safari, sarebbe andato vicino a replicare la magia de L'albero.
La sbornia per il cantautorato ha- ahimè -lasciato spazio a quella per la pista da ballo: ecco dunque arrivare l'atroce Ora (2011) e adesso, peggio che mai, il pretenzioso e borioso Lorenzo 2015 cc., che ci riconferma ciò che si sapeva da ormai tre lustri, e cioè che il Jova è ben contento di essere l'ennesimo cantante eco-bio-veg-democratic che si guarda allo specchio, osserva il ripetitivo microcosmo (fatto di buonismi e ninnananne politicamente corrette) che lo circonda e gode. Si dà il caso che questo tredicesimo disco sia un doppio album composto da trenta canzoni. Di buono c'è che sono tante e non rischiano di lasciare fuori nessun stereotipo. Almeno sulla carta, dovrebbe trattarsi dell'opera della maturità (è dal 2008 che usa queste parole per definire un proprio nuovo album), quella nata e registrata nella città dove è "ripartito da 0" Jovanotti, e cioè New York. Ma non gli piaceva tanto Cuba?
Jovanotti per primo ha paragonato 2015 cc. ad un cloud, una nuvola che- nell'era del cloundin' -fa piovere tutta la musica che uno desidera. Chi desidera questa musica la mattina si sveglia nel mulino del Mulino Bianco, fa una colazione col proprio partner che dura dalle sei alle nove ore, intervalla alle marmellatine biologiche lunghi e appassionati baci, poi esce per andare a lavoro (possibilmente col SUV, magari a metano, per sentirsi meno colpevoli) e ascolta L'alba, primo pezzo del primo cd. Si prosegue con Sabato, il singolo che è già stato remixato da 200 disc jokey più o meno sconosciuti (travolti dalla noia, potevate farlo anche voi col Garage Band dei vostri iPad) e si scivola giù, verso le banalità di Musica, dove si parla di musica nelle periferie e dove diviene immancabile la presenza della pop-star del Terzo Mondo Manu Dibango: perchè, in casi non ve ne foste accorti, in ogni disco di Jovanotti che si rispetti deve esserci almeno una collaborazione con almeno un artista del Terzo Mondo. A questo punto, il "jovanottiano" si sente ormai al sicuro, già totalmente rappresentato a un buon 70% dalle songs del suo beniamino.
2015 cc. prosegue con pezzi sconcertanti: Ragazza magica, Gli immortali, Il mondo è tuo (stasera), Libera, Perchè tu ci sei, Insieme. Il secondo disco è ancora più imperdonabile, poichè si tratta di una lunga sequela di riempitivi: gli ospiti world aumentano (ci sono la band afroamericana Antibalas e il cantastorie nigerino Bombino), il numero delle canzoni cala (12 invece di 18), mentre cresce la durata media di queste disco-ballatone melliflue e banali. Si parla in inglese (All The People, Gravity) e perfino in francese (La bohème), si parla tanto, ma si dice poco, e ormai è tardi. A sera, il "jovanottiano" e la "jovanottiana" tornano dal lavoro, mangiano poco, lei vomita convinta di poter riciclare ciò che ha appena ingurgitato e dice di essere felice. Lui ricambia amore e felicità e accende la televisione, sintonizzandola su RAI3. <<Muoviti a vomitare che stasera c'è Fazio... a vedere se intervista il Jova!>>.
Fazio c'è sempre, Jovanotti pure. Manca la musica, ma, alla fine, a chi importa più?
Ma soprattutto: la UFO Plast srl, per quella copertina, quanto ha pagato?

giovedì 26 febbraio 2015

Led Zeppelin, "Physical Graffiti Deluxe Edition" [Suggestioni uditive]

Led Zeppelin,
Physical Graffiti Deluxe Edition
(Atlantic Records, 2015)
★★















PREMESSA


Nello scorso giugno ascoltai molti dischi tutti insieme, prendendo appunti sparsi e decidendo, da ultimo, di recensirli tutti in una volta sola. In cima alla lista trovavano spazio le riedizioni dei primi tre album dei Led Zeppelin, restaurati e rimasterizzati da Jimmy Page in persona nell'arco degli ultimi due anni. Pur trovandomi di fronte a tre diversi capolavori che già conoscevo alla perfezione, non potei fare a meno di giudicare duramente sia il prezzo che l'effettiva qualità del materiale proposto: inedite (si fa per dire) scialbe e per nulla memorabili, mix radiofonici che suonavano piuttosto offensivi (specie se si pensa agli originali) e grafica "in negativo" a dir poco penosa. Per gli stessi motivi, non ho dedicato mezza riga neanche alle pompatissime super deluxe editions di IV e Houses Of The Holy, altre due pietre miliari riproposte con metodologie analoghe e povere di qualsiasi extra. Ma con Physical Graffiti non ce la faccio. Compie quarant'anni e mi sembra giusto parlare sia della storia che ci lega, sia della mediocre ristampa che i media stanno incensando in ogni angolo del globo.

Un momento importante per noi adolescenti ascoltatori di buona musica era quando, solitamente al sabato pomeriggio, cercavamo di convincere i nostri genitori ad "allungare il brodo" della paghetta per correre a comprarci un disco. Se poi le stelle erano ben allineate, potevano darci un ulteriore extra, esattamente come accadde a me nel rigido inverno del 2004. La Warner Music aveva messo in sconto tutti gli album in studio dei Led Zeppelin. Era una promozione che attendevo da tempo, specie da quando all'autogestione a scuola, nella precedente primavera, avevo visto The Song Remains The Same di Peter Clifton e Joe Massot ed ero rimasto folgorato dalla chitarra di Jimmy Page e dalla batteria di John Bonham.
Nota a margine: il mio primo contatto coi Led Zeppelin risaliva all'anno prima, quando al concerto di fine anno (non so se nelle scuole ancora sopravvive questa bella usanza) un gruppo che si chiamava Rock Shot presentò una versione strumentale fantastica di Black Dog e io sentii i ragazzi più grandi pronunciare il nome del gruppo.
Comunque, oltre ai dieci euro che avevo già racimolato, mia mamma me ne dette altri cinque: pensavo mi sarebbero avanzati, ma non fu così. Di fatti, ben poco era rimasto della promozione della Warner sul catalogo degli Zep, o almeno su quella fetta di dischi che interessavano a me. Chi la sapeva lunga mi aveva detto di comprare uno a caso dei primi quattro, al limite Houses Of The Holy, e di lasciare perdere gli ultimi album che erano robaccia. In effetti, la splendida copertina dello studio Hipgnosis di Houses Of The Holy faceva capolino dallo scaffaletto, con i suoi bellissimi colori caldi e quelle sagome di giovani ragazze intente ad asciugarsi (?) sulla scogliera, ma la mia attenzione fu catturata da un disco diverso, quello con la foto di un palazzo che sulle prime mi ricordò West Side Story e con la scritta, minuscola e in stile liberty, "Led Zeppelin" posta in alto. Notai altre due cose: il simbolo "2 Cd" stampato sul bordo e il prezzo di 15,90 euro, ovvero i quindici che avevo più i novanta centesimi che mi sarebbero serviti al ritorno per il biglietto del Pollicino. Faceva freddo, è vero, ma a quindici anni della temperatura ti importa relativamente e musica rock può significare anche "lunghe camminate sotto la pioggia". Così, comprai la mia copia di Physical Graffiti (che oltre al primo disco dei Led Zeppelin fu anche il primo doppio album della mia vita) e mi convinsi che non avrei ascoltato altro fino al mese seguente.
Due ore dopo ero spiazzato. I Led Zeppelin (o almeno, i Led Zeppelin di Physical Graffiti) sembravano molto diversi da come me li aspettavo, un po' per la complessità del tessuto sonoro (The Rover, In My Time Of Dying o Kashmir non rientravano propriamente negli standard popolari del 2004), un po' perchè le melodie di questo disco sono oggettivamente meno immediate rispetto ai riff leggendari di Communication Breakdown, Whole Lotta Love e Rock&Roll. E se pure è vero che in III c'era Since I've Been Lovin'You, in IV Starway To Heaven e che Houses Of The Holy ospitava The Summer Song, qua la ballatona da stadio era un oggetto del desiderio mancante. Ma il vero problema è che io non conoscevo tutta questa schiera di grandi canzoni, non avevo secondi termini di paragone e perciò, sul momento, Physical Graffiti mi parve un disco difficile da assimilare e apprezzare. Del resto, fu pubblicato dopo una gestazione lunghissima: le quindici canzoni ospitate furono tutte incise fra il 1972 e il 1975, molte furono considerate (e lo erano) scarti di Houses Of The Holy e nessuna appariva troppo orecchiabile. Un doppio poi è sempre un azzardo: lo sapevano bene anche il Dylan di Blonde On Blonde, l'Hendrix di Electric Ladyland, gli Who di Tommy, gli Stones di Exile On Main Street e i Beatles del White Album, cinque opere complesse e sfaccettate, cinque capolavori che non conoscono data di scadenza e con cui tutti hanno dovuto fare i conti negli anni a venire.
Nei mesi successivi al mio importante acquisto, mi fu passato il primo compact dei Remasters zeppeliniani (una raccolta molto ben fatta, che tuttora potrebbe rappresentare, per i neofiti, il miglior strumento con cui avvicinarsi alla band). Copriva la prima fase della carriera del gruppo (1968-1974) e mi fu di grande aiuto per comprendere meglio l'imponente doppio disco. Fu come trovarsi dentro a una camera oscura: un poco alla volta, ascolto dopo ascolto, sentivo emergere sfumature nuove (The Rover e In My Time Of Dying), creare passaggi emozionanti che prima erano persi chissà dove (Kashmir, Bron-Yr-Aur, Ten Years Gone), le melodie farsi più orecchiabili (In The Light, Black Country Woman, Sick Again), le canzoni prendere finalmente forma. Eppure, scoprii che a molti Physical Graffiti aveva fatto lo stesso effetto: forse perchè somigliava molto poco sia ai primi quattro che a Houses Of The Holy, o forse perchè un po' tutti tendevano a spacciare per debolezza certi esperimenti che gli Zep si potevano permettere solo all'epoca, indipendentemente dalla volontà delle grandi case discografiche e con una propria etichetta (quella Swan Song del cui catalogo Physical fu proprio il primo numero). Sempre in questa occasione, capii anche l'immensa importanza che riveste, in generale, il secondo ascolto.
Oggi di Physical Graffiti, complice la sua ristampa, si torna a parlare molto. In questi quarant'anni, è continuato a piacere a tanti e a scontentare pochi. Al contrario di quanto occorso col successivo Presence, non si è assistito ad un processo di totale rivalutazione, perchè Physical convinse già nel 1975. Però è rimasto, a detta di tutti, il disco "difficile" degli Zed, lungo e ostico. Ho un amico che anni fa lo volle masterizzato su un singolo disco, lasciando fuori i pezzi più funkeggianti e portando la tracklist da quindici a dieci brani. Fu un esperimento curioso, ma utile a farmi capire che molto probabilmente anche io avrei effettuato la stessa, identica selezione. Analizzandone il lascito, ho ritrovato una magnifica The Rover in A Change Of Seasons dei Dream Theater e una passabile In My Time Of Dying nell'unico, omonimo album dei Pride&Glory, una vecchia band voluta da Zakk Wylde che pubblicava con Geffen. Di Kashmir continuo a considerare un capolavoro assoluto la versione presentata dai soli Page e Plant nel loro Unplugged (1994), così come amo le Ten Years Gone e Sick Again suonate sempre da Page coi Black Crowes in quel memorabile Live At Greek del 2000. Per il resto, non c'è tribute album che dedichi troppo spazio ai brani di Physical Graffiti, ma forse è meglio così. In questa ennesima, deludente deluxe edition zeppeliniana trovano spazio un paio di inedite e molte, troppe early versions delle canzoni presenti. Una buona opera di remix sulla batteria di Bonzo e la voce di Plant rilucidata al meglio, purtroppo, non bastano a giustificare i ventisette euro di spesa.

lunedì 23 febbraio 2015

Cowboy, "5'll Getcha Ten" [Suggestioni uditive]

Cowboy,
5'll Getcha Ten
(Real Gone Music, 2015)

★★★★
















Ad averlo saputo prima, forse era meglio nascere in epoche meno generose, riuscire comunque ad appassionarsi alla musica e diventare uno dei manager o produttori che, verso la fine degli anni Sessanta, si ritrovarono a lavorare per la Capricorn Records di Macon, Georgia, capitanata dai fratelli Phil e Alan Walden. Queste persone, solitamente appartenenti alla middle-class bianca e protestante, arrivavano un po' da tutto il Sud-Ovest ed erano molto diversi dai ricchissimi magnati dell'industria discografica che vivevano a New York, Los Angeles e Chicago. Illuminati sulla questione razziale e di idee progressiste, i produttori Capricorn erano abituati a muoversi in località sperdute, a frequentare saloon polverosi e malfamati e perfino fattorie e paludi pur di scoprire nuovi talenti della voce, della chitarra, dei fiati. La Capricon sarebbe divenuta l'etichetta sudista per eccellenza, dando fiducia a band spesso sconosciute e seguendo, con l'affetto che spesso si destinerebbe a dei figli, ogni artista messo sotto contratto nei suoi dieci anni di attività (avrebbe chiuso nel 1979 per poi riaprire prima a Nashville, nel 1991, e poi ad Atlanta, nel 2000, dove avrebbe chiuso nel giro di un paio d'anni). 
Un elemento non di poco conto fu che i fratelli Walden, emulando le major, decisero di aprire degli studi annessi all'etichetta: fu così che, sempre a Macon, sorsero i leggendari (e ancora visibili, per quanto chiusi da decenni) Capricorn Sound Studios. E fu proprio di là che, fra i tanti, capitarono i Cowboy, un sestetto nato principalmente on the road per volere dei suoi due leader, Tommy Talton e Scott Boyer. Tommy era una specie di hobo che, partito dalla natìa California con solo chitarra e quadernone di liriche, arrivò fino in Florida. Il sound della West-Coast si era ormai definitivamente imposto: i Doors e i Grateful Dead erano band da milioni di copie vendute, Neil Young era ormai un californiano d.o.c.g. e la seconda generazione, composta da futuri pezzi da novanta come Jackson Browne, stava già bussando alle porte. Il giovane Tommy Talton, invece, aveva preferito fare come Dylan (che in quei giorni lontani era a Nashville, a registrare Nashville Skyline) e puntare verso Sud. Boyer, invece, veniva da un paesello dello stato di New York e aveva un grosso problema: una rovente passione per il country-rock. I due si trovarono subito d'accordo e, ad Orlando, si misero sulle tracce di valenti musicisti per suonare canzoni che ricordassero i Poco, CSN&Y e Gram Parsons. Li trovarono e con Tom Wynn (batteria), George Clarke (basso), Bill Pillmore (tastiere) e Pete Kowalke (chitarra) fondarono i Cowboy, una band che non sarebbe certo passata alla storia della musica, nè avrebbe conosciuto il successo che tese ad investire altri complessi sudisti (e non mi riferisco solo alla sacra triade "Allman-Lynyrd-Marshall Tucker", che per noi southern-rockers è nettamente più importante del "Padre-Figlio-Spiritossanto"), ma che è comunque piacevole riscoprire.
Sono ben quattro gli album incisi in studio dai Cowboy, e i primi tre non sono mai più stati ristampati integralmente dall'anno della loro uscita ad oggi. Precisamente un anno fa, la Real Gone Music, etichetta specializzata nel riproporre tesori sepolti e dimenticati, ha presentato l'esordio Reach For The Sky (1970), timida silloge dalle sonorità soft-country prodotta dal noto Johnny Sandlin e abbastanza ai margini rispetto a quanto i fratelli Walden erano soliti offrire in quel periodo (tanto per dare un'idea, nel 1970 fecero uscire anche Ton-Ton Macoute! di Johnny Jenkins, Idlewild South degli Allman e l'esordio omonimo di Livingston Taylor, tutti dischi dalle forti venature blues che trovarono facilmente mercato e furono da subito riconoscibili come opere pienamente Southern). E oggi, a un anno di distanza, è arrivato, finalmente restaurato e su cd, il ben più noto 5'll Getcha Ten, pubbicato originariamente nel 1971 e secondo frutto della produzione di Johnny Sandlin.
Questo disco può essere definito, a pieno titolo, il loro capolavoro. E non solo perchè contiene la meravigliosa Please Be With Me (poi rifatta da Eric Clapton in 461 Ocean Boulevard), o perchè in diversi brani c'è- alla chitarra o al dobro, poco importa -una divinità chiamata Duane Allman, o ancora perchè il buon Pillmore passi in più di un pezzo dalle tastiere alla terza chitarra, cedendo volentieri il posto a un giovane e già fenomenale Chuck Leavell (futuro leader dei Sea Level e sessionman sia per gli Allman che per gli Stones, presso i quali è tuttora impiegato) e anticipando di pochi anni certi intrecci à la Lynyrd Skynyrd. 5'll Getcha Ten  è un grande disco, perchè quando un'opera inizia con un brano come She Carries A Child può trattarsi solo di un grande disco, e a riconfermarlo ci pensa la title-track. The Wonder è uno spettacolare lento che ricorda, senza problemi, tanti capolavori dell'epoca firmati dai Byrds o dalla Band. Ma finora, se si può dire, non c'è nulla di nuovo sotto il sole rispetto a Reach For The Sky: le effusioni hard rock di Shoestring e di Seven Four Tune e l'avvolgente cappotto bluesy che la chitarra di Duane Allman cuce addosso alla splendida Lookin'For You rappresentano al meglio i nuovi ingredienti che Talton e (soprattutto) Boyer- con la complicità di Sandlin e degli ospiti famosi -inserirono nel sound dei Cowboy. C'è spazio perfino per la psichedelia in Right On Friend (unico pezzo che stona notevolmente col resto in cui tornano a galla le origini West Coast di Talton) e per il country nudo e crudo, sia in un riempitivo mignon quale Innocence Song che nella splendida chiusura What I Want Is You. Ma la canzone forse più bella di 5'll Getcha Ten è un'altra ballata, quella meravigliosa All My Friends che risente di tutta una precisa atmosfera legata a luoghi, persone ed epoche che non torneranno più, ma che è bello poter almeno percepire, immaginare, sognare. 

giovedì 19 febbraio 2015

L'Oriana [Recensione]

<<Non ho bisogno di un biografo, né per me né per la mia famiglia. Come ho detto un'infinità di volte, ho sempre respinto attraverso i miei avvocati tutte le richieste di scrivere la storia della mia vita eccetera, e i miei legali hanno sempre bloccato ogni tentativo di altri, letterario o cinematografico che fosse. Non permetterò mai, mai, mai una cosa del genere>>. Parole pronunciate, nel 1993, da Oriana Fallaci, scrittrice e giornalista fiorentina scomparsa nel 2006 e di certo poco bisognosa di presentazioni ulteriori.
I suoi avvocati, così attenti e amorevoli, devono avere evidentemente chiuso lo studio, dal momento in cui è stato permesso alla premiata ditta Procacci&Co. di produrre e distribuire, sia in televisione (due puntate mandate in onda su RAI1 il 16 e il 17 febbraio) che al cinema (il film dura 106 minuti, è uscito il 3 febbraio ed è la versione di cui sto scrivendo), questo terrificante L'Oriana, una biografia ai limiti del tragicomico sul personaggio della Fallaci.
Vittoria Puccini è una macchietta che odora di parodistico, la regia di Marco Turco è un'offesa verso chi bussa da un ventennio alla porta di Viale Mazzini e non ha spinte per superare nemmeno i custodi. L'adattamento cura molto le parti che possono suonare politicamente corrette e riduce alla durata di pochi secondi la parte finale della carriera della Fallaci, forse giudicata "poco costruttiva" da chi questo cesso di biopic lo ha finanziato di tasca propria. La stampa destrorsa ha tirato su un bel vespaio sull'argomento, ma ha omesso un particolare di non poco conto: se anche L'Oriana avesse affrontato con sereno realismo e un minimo di onestà intellettuale in più gli ultimi anni di vita della Fallaci, sarebbe comunque stato un film di merda.

mercoledì 18 febbraio 2015

Pops Staples, "Don't Lose This" [Suggestioni uditive]

Pops Staples,
Don't Lose This
(Anti Records, 2015)
★★★★















Se non fosse morto il 19 dicembre del 2000, Pops Staples sarebbe oggi un magnifico ometto centenario e avrebbe una marea di aneddoti da raccontare a una telecamera nel corso della conferenza stampa del suo quarto album solista, questo Don't Lose This che esce per la Anti Records. E' stato un grande maestro, uno dei primi a fuggire dalle piantagioni di cotone (ultimo di quattordici figli, era nato e cresciuto in una fattoria fuori Winona, Mississippi) per seguire gli insegnamenti di Robert Johnson, Charlie Patton e Son House. Ed è stato uno dei "padri fondatori" del soul, ottenuto miscelando blues e gospel
Solitamente, non mi convincono i dischi postumi, le canzoni "ritrovate" in un cassetto e gli album che "se fosse stato sempre vivo...": le ritengo operazioni commerciali di dubbio gusto, spesso mirate ad arricchire una o più famiglie o peggio ancora un singolo, potente e avido manager che ha solo avuto la fortuna di essersi circondato degli avvocati giusti. Chi conosce a grandi linee il destino riservato alla gigantesca quantità di nastri di Hendrix dopo il suo decesso, sa di cosa parlo. E neanche l'incantato mondo del Pop è alieno a simili nefandezze: basti pensare ai vergognosi Michael (2010) e Xscape (2014) prodotti, in comune accordo, dai familiari di Michael Jackson e dalla Epic. Ma nel caso di Don't Lose This il discorso si complica. Pare infatti che la figlia Mavis avesse ricevuto, al capezzale del padre, alcuni nastri incisi rudimentalmente da Pops nell'arco dell'anno precedente e che proprio lui si fosse raccomandato di <<Don't Lose This>>. Si trattava di dieci canzoni, prevalentemente blues e gospel, con le sole chitarra e voce. Da brava figlia e collega, Mavis Staples ha aspettato quasi quindici anni  prima di rendere pubbliche quelle registrazioni, che ha preferito ripulire e arricchire di nuovi strumenti e voci con l'aiuto di Jeff Tweedy (leader dei Wilco e co-produttore di Don't Lose This, oltre che vecchio amico di famiglia). Grande assente, nell'opera di sovraincisione, è stata Cleotha Staples, figlia maggiore di Pops morta nel 2013: ma in compenso, sia Mavis che Yvonne si sono date un gran da fare nel tirare fuori la voce giusta per i cori di Somebody Was Watching, Better Home e Friendship o nel costruire un suggestivo, toccante dialogo col padre nella sublime Sweet Home. Ci sarebbe da sventolare il cappello anche di fronte a quei piccoli ma impagabili "ritocchi" di rhytm guitar firmati da Jeff Tweedy, al solido lavoro di batteria del di lui figlio (neanche ventenne) Spencer e al bel piano Wurlitzer di Scott Ligon, pronto ad arrivare laddove la chitarra del patriarca Pops sembra cadere.
Non è un album allegro o frivolo, Don't Lose This. Evidentemente, il Pops di fine anni Novanta bramava un ritorno ad una certa essenzialità di matrice blues che fino a quel momento era rimasta abbastanza adombrata nella sua discontinua (tre soli dischi in oltre quarant'anni di fervente attività) carriera solista: basta ascoltare la sua ennesima versione di Nobody's Fault But Mine per rendersi conto di quanto il soul, l'R&B e perfino il funk fossero ingredienti ormai superati. Con questo non voglio certo dire che Jammed Together (1969), Peace In The Neighborood (1992) e Father Father (1994) fossero brutti dischi, ma nessuno di loro si avvicina, per intensità e qualità, a quest'opera postuma. La rilettura di un paio di classici degli Staple Singers (la già citata Better Home, ma soprattutto Will The Circle Be Unbroken) e le covers (spicca quella di Gotta Serve Somebody, picco creativo del Dylan cristiano rinato) fanno il resto e confermano Don't Lose This come la degna conclusione della parabola artistica di Pops Staples.

martedì 17 febbraio 2015

Aidan, "Témno" [Suggestioni uditive]

Aidan,
Témno EP
(Red Sound Records, 2015)
★★★½
















In Levnad, breve, misterioso e quasi crudele incipit di Témno (primo EP e seconda uscita discografica ufficiale dei padovani Aidan), si riassumono molti influssi e molte costellazioni, oltre all'intera anima di questo nuovo lavoro del gruppo. Non solo è possibile percepire un'atmosfera di tensione interamente costruita sulle note di una viola, ma in tre minuti e mezzo capiamo che il cerchio aperto col difficile esordio The Relation Between Brain And Behaviour si è irreversibilmente chiuso. L'ars poetica degli Aidan non si è arenata in un post-metal che citava Sleep e Melvins, ma è andata oltre, utilizzando, fra l'altro, un mezzo ormai in disuso quale può essere l'EP, ormai svilito- un po' in tutti i generi -a mero strumento di promozione commerciale e non a raccolta breve di canzoni inedite e omogenee. Merito delle scelte del gruppo e della Red Sound Records per cui Témno è uscito, lo scorso 9 febbraio.
A dimostrazione della crescita qualitativa che ha avuto luogo negli ultimi due anni, troviamo Negazione dell'appartenenza/ appartenenza della negazione: doppio titolo e doppio ossimoro per questo straordinario pezzo strumentale e ipnotico. Un brano che altera la percezione all'atto dell'ascolto è già di per sè sintomo di un eccellente lavoro. E se è vero che le canzoni sono pensieri e danno la sensazione di fermare il tempo, meglio ancora è riuscirci con un pezzo del livello de Il terzo escluso, forse il migliore dei quattro, con le chitarre in primissimo piano e la drum-section (che nell'esordio poteva suonare un po' come il "tallone d'Achille" degli Aidan) intenta a fare il suo lavoro al meglio. Sempre ne Il terzo escluso trova posto un'ulteriore, graditissima sorpresa (almeno per un consumato cinefilo come me), ovvero uno stralcio del dialogo sulla bellezza che hanno Alfred e Gustav in Morte a Venezia di Visconti. 
Non è una tematica casuale, quella della Bellezza, nè l'inserimento della componente filmica va preso come mero capriccio formale o come semplicistico e patriottico omaggio a un tipo di cinema ormai in via di estinzione. Tutto Témno cerca di mostrare che nella musica, arte del tempo e del suo fluire, si nasconde un'utopia estetica precisa. E' un messaggio, o meglio ancora una visione musicale che rsi avvicina di più agli sporadici capolavori dei Tool piuttosto che ad un ennesimo esercizio di stile (magari anche riuscito) di una band post-tutto e sludge-metal qualsiasi, ma è anche una concezione della propria arte lontana dal rozzo spirito di commercio che ha ormai investito ogni cosa. Una concezione che ritorna (come ritorna, fin dal titolo, Morte a Venezia) e si palesa, in maniera definitiva, nella quarta canzone, Ora puoi scendere nella fossa insieme alla tua musica. Meno "di impatto" rispetto a Il terzo escluso, ma comunque funerea e ben ricollegabile all'introduttiva Levnad (di nuovo la viola), questa traccia di chiusura di media durata (5'28'') riaccosta mondi incomunicabili, ne esplica i contrasti ricorrendo al momento più duro del dialogo del film e tentando di cancellare dal suo orizzonte lo scorrere del tempo. Gli strumenti vanno annullandosi uno dopo l'altro; rimane soltanto il synth, che va a sfumare, come l'anima dell'artista che spira nella fossa del titolo. Non sarei in grado di dire se la musica di Témno (quattro brani, 2+2chiuda un cerchio, vada avanti o addirittura torni indietro: ascoltando la tracklist al contrario (non le singole canzoni, sia chiaro!), sembrerebbe quasi che gli Aidan viaggino verso regioni presignificanti e simultanee di un canto non scritto e non trascrivibile (i pezzi sono comunque tutti strumentali). Tuttavia, la loro musica guarda al futuro, ponendosi oltre una determinata e ormai quasi parodistica collocazione "di genere" e protendendosi verso qualcos'altro rispetto al mondo che conosciamo. 

lunedì 16 febbraio 2015

Cinquanta sfumature di grigio [Recensione]

Era dai tempi di Melissa P. di Luca Guadagnino che non si vedeva un film sul sesso, o meglio sulla formazione sessuale, vuoto e insulso come Cinquanta sfumature di grigio di Sam Taylor Johnson. Non che il cinema si faccia con i "se", ma davvero viene da chiederselo: chissà quale poteva essere il risultato, "se" davvero Erika Leonard James avesse ceduto i diritti dei suoi libroni per la trasposizione scritta da Bret Easton Ellis e diretta da Gus Van Sant? Probabile che il prodotto scaturito da questo incontro di autentici talenti sarebbe stato complessivamente superiore. Anche perchè da una novella simile perfino Bruno Mattei avrebbe saputo trarre un filmetto a luci rosse scorrevole, senza pretese e interpretato meglio dei due cani a cui è spettato questo "onore".
Sempre per essere chiari, ci tengo a specificare che io i libri non li ho letti e che, no, finora non me sono pentito. Temo di essere terribilmente snob in quello che leggo, così come lo sono in quello che ascolto e in quello che guardo. E di fronte a Cinquanta sfumature di grigio si palesa il pensiero che solo lo snobismo, quello autentico e genuino che ci portiamo dentro da tutta la vita, possa salvarci. La perdita di controllo a cui rimanda la frasetta ad effetto posta sulla locandina si verifica nel giro di otto minuti e va di pari passo con la perdità della lucidità di chi, seguendo questa storiella di passione fra una giornalista vestita come una ciellina e un giovane miliardario dall'oscuro passato e dalle capacità vicine a quelle di un super-eroe DC Comics, si annoia fino allo svenimento.
Qualche film sull'argomento da vedere al posto di Cinquanta sfumature di grigio? Tento un ordine cronologico, dopodichè mi perdo e sparo a caso:
1) Lolita di Kubrick.
2) Pretty Baby di Malle. 
3) Ecco l'impero dei sensi di Oshima (morto in questi giorni, fra l'altro).
4) L'adolescente  della Breillat (ma forse della Breillat vale la pena di vederli tutti i film).
5) la tripletta bertolucciana Ultimo tango a Parigi, Io ballo da sola e The Dreamers.
6) il recente Giovane e bella di Ozon.
7) Fish Tank di Andrea Arnold.
8) solo per chi se la sente, Visitor Q di Takashi Miike.
9) Turn Me On, Dammit!, film norvegese di cui mi sfugge la paternità (o maternità, non ricordo).
10) restando sui nordici, Fucking Amal di Moodysson, che ai tempi incassò quanto Titanic.
11) come dimenticare quell'altro recente capolavoro che è La vita di Adele?
12) Thirteen- 13 anni, che uscì quando anche io avevo (ancora per poco) tredici anni.
13) se riuscite a trovarlo, Naissance des pieuvres della brava Céline Sciamma.
14) c'è spazio pure per la commedia, grazie a Secretary di Shainberg.
15) Fuga dalla scuola media di Todd Solondz, che se avete delle figlie sarà bene vederlo dopo che hanno finito le medie. 
16) Charlotte For Ever di quel geniaccio di Serge Gainsbourg, che fra le tante ha trovato pure il tempo di fare il regista politicamente scorretto e di parlare di incesto.
17) Noche Blanche, con la Vanessa Paradis che ancora non poteva guidare neanche il motorino.
18) cult o scult che sia, anche Avere vent'anni di Fernando di Leo può rientrare, di diritto in questa lista.
19) Nymph()maniac: e c'è da chiederselo? Con ogni probabilità il film sul sesso definitivo.
20) qualsiasi videoclip di genere riusciate a trovare in rete sui siti specializzati. Devo proprio linkarli?

venerdì 13 febbraio 2015

Selma- La strada per la libertà [Recensione]

Biopic, questo sconosciuto.
Un genere difficile da sempre, che si espone pericolosamente alla rovina a causa della sua esposizione ai luoghi comuni, sottoposto ad attente analisi da parte del pubblico riguardanti la somiglianza fra attori e personaggi reali, talvolta superabile da pellicole successive che approfonderanno meglio certe vicende. I passati Golden Globe (e di conseguenza gli imminenti Oscar) sono stati simili a una lunga rassegna di film biografici: dagli appannaggi del genio di The Imitation Game e La teoria del tutto fino al magnifico American Sniper (che è prima una biografia, e poi un film di guerra), tante sembrano le vite di figure realmente esistite ad avere suscitato l'interesse di Hollywood negli ultimi mesi.
E poi c'è Selma di Ava Du Vernay, un perfetto caso di "film necessario" (ogni tanto le tagline ci indovinano!), intelligente, veritiero e riuscito. Qualità che non sempre convivono pacificamente fra loro. La pellicola racconta della marcia di protesta che il dottor Martin Luther King Jr. (David Oyelowo) intraprese nel 1965, quando la sua lotta per i diritti dei neri negli USA era già divenuta celebre ed egli aveva già ricevuto il Premio Nobel, recandosi da Selma a Montgomery, in Alabama. Ai margini il difficile e ipocrita dialogo con le istituzioni bianche, le persecuzioni razziali, gli omicidi, la follia legalizzata da sceriffi e giudici (a loro volta pilotati dall'odioso governatore Wallace, che offre una nuova straordinaria prova attoriale a Tim Roth) e perpetrata dai rednecks gretti e conservatori. 
La regia della Du Vernay è asciutta, secca, ma neanche troppo documentaristica: a confronto, la Bigelow è un esempio lontano. La macchina da presa non regala virtuosismi e le scene di folla (ovvero quelle della marcia) appaiono semplici ma comunque importanti. Qualche eccesso di lirismo nella descrizione del rapporto fra King e la moglie Coretta (Carmen Ejogo) lo si può trovare, ma non danneggia di certo una sceneggiatura limpida che fila via liscia come l'olio per poco più di due ore. Il risultato non è quello di un capolavoro, ma di un qualcosa che comunque merita di essere vista e che si pone nettamente al di sopra della media dei film di genere.
All'interno di Selma si trova non solo la crème de la crème degli attori afroamericani emersi negli ultimi quindici anni (e pure qualche veterano di lusso, tipo Oprah Winfery), ma anche una fotografia (reale) su un paese che non sembra l'America, ma che lo è. O meglio, lo era, visto che proprio grazie a persone come Martin Luther King il paese più potente del mondo ha saputo progredire un minimo sui piani di cultura e pari opportunità. Le battaglie che King e i suoi colleghi della SCLC portavano avanti nel 1965, potevano giustamente apparire come roba da medioevo a chi viveva nella vecchia Europa. 
Un film che non è melenso, ma riesce comunque a penetrare sottopelle. Ricostruzione storica impeccabile, anche se il presidente Johnson (il grande Tom Wilkinson) da ultimo diventa forse un po' troppo bonaccione. Colonna sonora di livello, e mi riferisco più alla eccellente selezione di brani gospel e R&B che non all'effettivo soundtrack approntato, fra gli altri, da Common e John Legend, entrambi premiati ai Golden Globe per la migliore canzone (Glory, udibile nei titoli di coda). 
In sala, a vederlo, eravamo in due.

mercoledì 11 febbraio 2015

Steve Earle, "Terraplane" [Suggestioni uditive]

Steve Earle & The Dukes,
Terraplane
(New West Records, 2015)

★★★★













Una volta, in rete, lessi una grande verità, e cioè che esistono due tipi di musica: la musica pop e la musica dell'anima
Si sa, la prima va presa per quello che è: testi semplici, melodie poco immaginifiche, commerciale e dunque obbligatoriamente furba, ripetitiva, infantile. Tanto complessa da scrivere e immettere sul mercato (la concorrenza è tanta e spietata), quanto facile da reperire, ascoltare e memorizzare, la musica pop di rado si impone come un qualcosa che cambia il nostro modo di vedere il mondo, in quanto nata da un'esigenza innocua e facile da soddisfare: quella di ascoltare e riascoltare lo stesso motivetto il più a lungo possibile. Perciò, se si prende atto di questi limiti, si capisce bene che il pop non è un'etichetta da affibbiare a tutto ciò che vende più di un tot, quanto un genere musicale vero e proprio in cui ci sono più regole che in qualunque altro e a cui appartengono canzoni belle o brutte che- a prescindere  dal loro effettivo valore artistico -possono godere di un successo planetario o rivelarsi cocenti fallimenti. 
Molto meno semplice è spiegare cos'è (in assoluto e anche per quanto riguarda me stesso) la musica dell'anima, ma ai fini della recensione mi limito a dire che è quel tipo di musica suonata da gente come Steve Earle. Se poi ci sono una voce bella come la sua, dei testi degni di un romanziere (e Steve, con Le rose della colpa, si è cimentato pure col romanzo) e dei grandi musicisti di contorno, meglio ancora.
Ora, pur con qualche caduta artistica (cadute mai imperdonabili) e un'esistenza non facile segnata da carcere, droga, avvocati e sette mogli, Steve Earle è un artista che ha abituato il suo uditorio a standard parecchio, parecchio alti. Già ai tempi di Guitar Town (1986) e Copperhead Road (1988), era facile intuire che questo virginiano cresciuto in Texas aveva del talento da vendere e che proprio grazie a lui l'outlaw rock- che aveva avuto Gram Parsons come padrino e Townes Van Zandt come portabandiera -sarebbe sopravvissuto agli anni duri della musica di plastica, alle batterie elettroniche e a Reagan. Dopo la galera (Earle fu rinchiuso dal 1993 al 1994) vennero la disintossicazione e i capolavori assoluti della sua carriera: il semiacustico Train A Comin' (1995) e l'eterno El Corazon (1997). A questi fecero seguito i suoi dischi politici (Earle è da sempre un democratico pacifista di ferro), roba tosta come Jerusalem (2002) o The Revolution Starts Now (2004) e non marcette buoniste à la U2.
Con il nuovo Terraplane (in uscita il 17 febbraio, ma già godibile in audio-streaming) Steve è di nuovo coi suoi Dukes e ambisce a un risultato superiore al precedente The Low Highway (2013). Gli ingredienti principali a venire portati in tavola sono il blues e le chitarre acustiche dei "duchi", ulteriormente sporcate di fango per l'occasione. Alle spalle, c'è l'ennesimo matrimonio naufragato, quello con la cantante Allison Moorer, ma ad Earle non interessa fare gossip. Il suo Terraplane è un disco che profuma di aria condizionata, birra sudista (il disco è stato totalmente inciso alla House Of Blues di Nashville, con i fidi R.S. Fields e Ray Kennedy in console) ed eros. Ad un primo ascolto, suona come una versione più grezza e selvatica di quel bel lavoro prodotto da T-Bone Burnett che si rivelò essere  I'll Never Get Out Of This World Alive (2011). Il titolo Terraplane, ovviamente, fa venire in mente il Terraplane Blues di Robert Johnson, oltre che al macchinone anni Trenta che capeggia anche nella coloratissima copertina in perfetto stile Earle. E' un disco sul maschio adulto che rimane solo in un mondo distrutto e governato dalla futilità. L'incipit Baby Baby Baby (Baby) è una roba pazzesca che sembra uscire fuori da qualche 45 giri di Charlie Musselwhite, e allo stesso modo la rabbia mandolinesca su cui i Dukes costruiscono Acquainted With The Wind è un feroce omaggio a Chuck Berry. Non mancano le consuete grandi pagine di country texano: Gamblin'Blues parla di giocatori d'azzardo, ma ancora più convincente, nel suo genere, è Ain't Nobody's Daddy Now. C'è un piccolo accenno di sacralità nelle toccanti note gospel di Go Go Boots Are Back, ma poi è di nuovo il diavolaccio a prendere il sopravvento e a spingere il pedale sulla Terraplane di Steve e dei Dukes. E così via, in un tripudio di pagine di livello eccelso: lo strascicato singolo You're The Best Lover That I Ever Had, il romanzesco talkin' di The Tennessee Kid, la ballata meravigliosa e commovente (ma a me Steve Earle commuove spesso) Better Off Alone, l'avveniristico finale d'opera rappresentato da King Of The Blues sono testimonianze definitive di un uomo che la musica la vive sulla propria pelle e che per nulla al mondo smetterà mai di cantare. Almeno spero.

martedì 10 febbraio 2015

Birdman [Recensione]

La cosa che più apprezzo, da sempre, nel cinema di Iñarritu è che ha un notevole spessore di cose da dire e da lasciare e che riesce sempre a portarmi oltre quel genere di decine di visioni assorbite e succhiate via in un momento ogni mese. E' una dote che è andata perdendosi nel tempo: un po' perchè molti grandi maestri sono morti, un po' perchè troppi pochi ne sono rinati nell'ultimo ventennio.
Come nel caso dell'ultimo Antonioni, non tutti i film del regista messicano sono stati, per me, dei colpi messi a segno (continuo a detestare 21 grammi e non ho amato troppo neanche il recente Biutiful), ma sicuramente ci troviamo sempre di fronte a un cinema di pensiero, pura rarità in un'epoca di non-pensiero. Un'epoca che Birdman, prodotto da Fox e candidato a nove Oscar, riesce a descrivere perfettamente pur mantenendo il fascino di un'opera fuori dal tempo e dagli schemi. Obbiettivamente, chi se lo poteva aspettare un film che racconta di un attore da blockbuster in rovina (Michael Keaton nel ruolo dell'anno) che decide di tirare su uno spettacolo a Broadway tratto da Di cosa parliamo quando parliamo di amore? di Carver? E poi l'ambizione dell'attore non ancora famoso Mike Shiner (Edward Norton), i problemi con la figlia ex-tossica Sam (Emma Stone), la simpatia del manager Jake (l'attore dal nome impronunciabile è meglio conosciuto come "Alan di Una notte da Leoni"), l'idea del super-eroe che si insinua- fisicamente -nel cervello del protagonista e lo fa diventare il paladino della città, l'azzeramento dello scarto percettivo fra vita e teatro. E' tutto perfetto, tutto posato, dalla musica alla scenografia, fino alla geniale illuminazione di costruire il film in un lungo, tortuoso, falso piano-sequenza. E perfino la comicità è fantastica, perchè alla fine Birdman è veramente una commedia: tosta, nera, pirandelliana, ma comunque commedia
Iñarritu riprende la sua indagine sulla condizione umana e allarga le proprie mire, condannando aspramente lo star-system statunitense e ribaltandone i luoghi comuni per mostrare il proprio punto di vista. Lo fa esibendo una dote che mi piace avvicinare a Lynch o a Tarantino, e cioè costruendo la scena di modo che somigli alla Terra, solo spostata in un'altra dimensione. Il modo in cui si presenta il mondo di Birdman (che poi è il mondo di Babel, quello di 21 Grammi e prima ancora quello di Amores perros) oscilla fra l'allegorico e il disgustoso, ma Iñarritu non se la sente di dare spiegazioni compiute: lui che da sempre è un noto moralista (il sottotitolo del film è Le imprevedibili virtù dell'ignoranza) che non rilascia moralismi. 
Molto probabilmente il cinema tradizionale ha davvero fatto il suo tempo (qualcuno se ne è accorto da tempo, basta guardare Inland Empire o Maps To The Stars per rendersene conto) e Birdman è un'altra di quelle opere d'arte che arrivano da non si sa bene dove al solo scopo di rammentarcelo. Come dimostra il Birdman seduto sul cesso, alla fine del film, non siamo più noi a guardare i super-eroi, ma i super-eroi a guardare noi, ad assicurarsi che il livello di ossessione per la nostra immagine sia alla giusta temperatura e che si stia davvero tutti morendo.

sabato 7 febbraio 2015

The Iceman [Recensione]

In un certo senso, si può dire che la storia di Iceman l'aveva già raccontata il Boss in una splendida outtake del 1978 poi inserita in Tracks. Frasi quali "I'm the Iceman, Fighting for the Right to Live" oppure "Got My Arms Open Wide and My Blood Is Running Hot" farebbero pensare che Sprigsteen quasi conoscesse, almeno di fama, il famigerato conterraneo Richard Kulinski (1935-2006), detto Iceman per due motivi: il primo, una grande freddezza nel lavoro e nella vita (anche se si scioglieva solo per amore delle figlie e della moglie), il secondo, la pratica adottata dalla fine degli anni Settanta in poi e mirata al congelamento dei cadaveri delle proprie vittime.
Non era un tenerone, Kulinski, e per rendere l'idea ci voleva un film all'altezza del personaggio, un'opera che scavasse a fondo e ne delineasse la complessa psicologia e l'inquietante monumentalità fisica. Entrambi questi aspetti sono stati resi nel migliore dei modi da The Iceman, film diretto nel 2012 dall'israeliano Ariel Vromen e con protagonista Michael Shannon, attore feticcio di Jeff Nichols e interprete che ci riporta con gli occhi e col pensiero al cinema degli anni Sessanta (quanti cattivi da film di Hitchcock sarebbe potuto essere, questo omone largo due metri e alto tre?). Intorno a lui, una sfilza di grandi caratteristi: da Ray Liotta a Winona Ryder, da Chris Evans (ma quanto è bravo poi Chris Evans quando si sceglie i progetti e non si traveste da coglione?) a James Franco. 
Vromen carica tutto sul protagonista, lasciando indietro sia gli stilemmi del classico gangster-movie (anche se qua e là esce fuori qualche debituccio verso Scorsese, ma credo sia inevitabile) che quelli del thriller oscuro e "invecchiato" à la Zodiac. E non c'è redenzione in The Iceman, o almeno non nel personaggio di Michael Shannon, che è un delinquente polacco vestito male e pure un po' antipatico, lontano da quei banditi fortissimi che bucano lo schermo e divengono modelli da imitare. Kulinski è un operaio, uno che lavora senza tregua per mantenere una famiglia: c'è chi lo fa scaricando container in un porto, c'è chi lo fa collezionando omicidi. Un bel po' di omicidi. 
I colpi di scena sono molto calibrati e tutto il film  percorre due binari: quello violento e quello intimo, privato, riguardante il Kulinski marito fedele e padre devoto. E se fotografia e montaggio si avvicinano più al cinema francese, la totale assenza della struttura narrativa che vede il Bene contrapporsi al Male  appartiene maggiormente al cinema (e più in generale alla cultura) orientale. Vromen ne ha un po' per tutti, specie nel monologo finale, girato in un primo piano scurissimo che mostra un killer ormai distrutto e rassegnato a finire la propria esistenza in carcere. Non è il film del mese nè un capolavoro, questo The Iceman, ma fa parte sicuramente di quella fitta schiera di film americani che vorremmo vedere più spesso e che o arrivano con cocente ritardo o finiscono sottotitolati, per la gioia di pochi, in qualche sito di streaming. Consigliatissimo però a chiunque, perchè chiunque sia abituato al concetto di "buon film" potrà sicuramente trovarci qualcosa di buono.

giovedì 5 febbraio 2015

Unbroken [Recensione]

L'esperienza insegna che quando un film viene proiettato privatamente a casa del Papa, non si rivelerà poi un granchè. 
Ha ovviamente destato scalpore l'anteprima vaticana di Unbroken, secondo film della Jolie regista, che al contrario di quello che si può pensare non è per niente "accia" dietro la macchina da presa. Prendete In The Land Of Blood And Honey (2011), melò bellico ad alto tasso lacrimare che da noi uscirà (forse) doppiato (forse) in home video a breve: il classico buon film di guerra e sentimenti che ben poco ha da invidiare a Il paziente inglese e che vale un'ottantina di Mandolini del capitano Corelli. E già in quell'occasione, pur con un budget abbastanza ridotto, Angelina aveva dimostrato di essere un'ottima direttrice di interpreti.
Con Unbroken, purtroppo, le cose si complicano. Il film dura molto, a momenti annoia, a momenti esagera. Esagera, ad esempio, lo spirito da "Sogno americano" che permea ogni singolo istante  e che permette al mezzofondista olimpico Louis Zamperini di sopravvivere a un'infanzia difficile, ad un incidente aereo, a quarantasette giorni alla deriva nel Pacifico (indubbiamente la parte più riuscita di tutta la pellicola) e a due anni di torture e vessazioni in un campo di concentramento giapponese al cui confronto Auschwitz era un asilo nido. Intensa e riuscita la recitazione del meritevole Jack O'Connell, totalmente a suo agio nel ruolo che nel 1957, quando il soggetto fu depositato, doveva andare a Tony Curtis. Dialoghi piuttosto prevedibili, scritti da quattro diversi sceneggiatori (fra cui i Coen, mica i Vanzina!) e adattissimi per un pubblico il più ampio possibile. Peccato che, anche a ripensarci, Unbroken non lasci nello spettatore un'idea che sia una degna di essere tramandata e che le cose da dire su un film così insipido siano davvero poche.

martedì 3 febbraio 2015

Bob Dylan, "Shadows In The Night" [Suggestioni uditive]

Bob Dylan,
Shadows In The Night
(Columbia Records, 2015)
★★½















"Dylan ha cessato da tempo di essere un semplice artista. Ormai è una geografia, un universo semiotico, un'intera cultura concentrata in un singolo performer [...], un'infinita partita a scacchi tra la parola e la voce. [...] Dylan mantiene il diritto di cantare bene o male, di comportarsi in modo generoso o scostante, di salire sul palco lucidissimo o stordito, di presentare canzoni mai sentite in arrangiamenti straordinari o di ripetere una routine di brani che ci escono dalle orecchie. [...] Anche quando dà il peggio di sè, Dylan si rifiuta di essere mediocre."
Alessandro Carrera, La voce di Bob Dylan (Feltrinelli, 2011)

Il Bob Dylan del 2015 ha ancora addosso il sapore della libertà, e questa cosa rincuora.
Non si presta ad essere ospitato in salotti televisivi in cui si parla di eccessi, cadute, divorzi, overdose, disintossicazioni e ritorni in forma smagliante. Non smette di vivere on the road (il Never Ending Tour dura dal 1988 e, stando a quanto ho letto in un live reportage sul Buscadero di gennaio, prosegue piuttosto bene). Non è morto. Ma soprattutto non accenna a smettere di pensare, scrivere, suonare, cantare, incidere, produrre e vendere musica. Si è guadagnato (anche giustamente, dico io da dylaniano e dylaniato) il diritto di fare ciò che vuole. Vendere o meno, da qualche decennio a questa parte, gli interessa poco, e fidatevi: non è una frase fatta. 
Da anni racconta di odiare la tecnologia digitale e di incidere i propri dischi con microfoni e amplificatori che ormai si trovano solo su qualche bancarella e nelle teche dei collezionisti. Esige che sulle copertine degli album trovino spazio scritte quali "Viva-tonal recording" e "Grammophone Company", roba che la Columbia utilizzava negli anni Cinquanta: e non lo fa perchè è un vintagista consumato, ma perchè tutto questo fa parte della sua esperienza terrena di uomo e artista e lo fa stare bene. Shadows In The Night è il suo trentaseiesimo album in studio e il quarto a presentare esclusivamente brani non originali: tuttavia, non siamo di fronte ad una nuova raccolta di canti tradizionali pensata come un seguito di World Gone Wrong (1993) o dello strambo Christmas In The Heart (2009), bensì ad un disco di cover. Cover di Frank Sinatra, per l'esattezza. 
Dylan ripropone dieci pezzi di repertorio dell'artista a cui, specie negli anni Sessanta, veniva contrapposto in maniera totale. Gli dedica un tributo tardivo, originale, appassionato e assolutamente non smosso da motivazioni particolari (occasioni, ricorrenze, anniversari, eccetera). La copertina ha una resa grafica che ricorda le soluzioni della Blue Tone ed è un palese omaggio a quella, mitologica, di Hub-Tones (1962) di Freddie Hubbard. Le canzoni, rigorosamente registrate in presa diretta e senza sovraincisioni, faranno storcere il naso a chi si aspettava fiati, coro e orchestra tipici di questi traditional pop. Le canta col tono grave e baritonale che sfoggia nei concerti e che, in tempi recenti, mi ha impedito di apprezzare molti aspetti di Tempest (2012). Non c'è un brano che sia uno a potersi adattare, anche solo per sbaglio, ad una qualsiasi heavy rotation dei nostri tempi, ma poco importa: Dylan non è  un astro dello swing, non si chiama Michael Bublè, non ambisce a far sentire le sue Autumn Leaves o Full Moon And Empty Arms (cito i due pezzi che mi hanno maggiormente convinto) dentro i centri commerciali. Ha ormai scavalcato i concetti di classifiche, indici di ascolto, test di gradimento, passaggi in radio e in televisione. E Shadows In The Night è la prova ulteriore che anche sentirlo cimentarsi con un repertorio non suo (e con esiti tutt'altro che brillanti) può comunque rivelarsi un'esperienza interessante e istruttiva. Scrivo "istruttiva", perchè qua dentro non ritroverete My Way o New York, New York, ma pezzi di Sinatra "minori", lontani nel tempo (i brani originali sono materiale uscito fra il 1947 e il 1959 e spesso basato su standard risalenti agli anni Venti e Trenta) e molto poco conosciuti nel Vecchio Continente.
E' davvero vecchia musica pensata per vecchie persone, quella di Shadows In The Night, che a dispetto del titolo e di certi passaggi un po' più oscuri, di notturno ha ben poco e in più momenti non sembra prendersi neanche troppo sul serio. Purtroppo, a me piace Bob Dylan che canta Bob Dylan, anche quello del nuovo millennio, quello che ruba a destra e a manca e tira fuori capolavori come Love And Theft (2001) e Modern Times (2006) o dischi semplicemente belli come Together Through Life (2009). Forse queste canzoncine mi avrebbero detto poco anche se le avessi ascoltate cinquant'anni fa. Lo so, è una faccenda di gusti, e i miei sono quelli di un romantico mezzo scemo che non si è ancora stancato di sentirsi rotolare via come una pietra scalciata e che non condivide questa operazione di tributo. Poi mi fermo a pensare che quest'uomo, dopo quasi quaranta album e a settantaquattro anni, continua a far discutere il mondo sulle sue scelte artistiche e allora mi guardo intorno, sorrido e penso che è davvero il più grande di tutti.

domenica 1 febbraio 2015

Italiano Medio [Recensione]

C'è una buona fetta di gente che pensa solo ad arrivare al sabato vestita in un certo modo. 
C'è chi alle 20:00 è a fare l'aperitivo, alle 23:00 va a ballare e alle 02:00 si cala una pasticca. 
C'è chi vuole solo vedere un determinato genere di film: mi riferisco a questo pubblico di post-adolescenti che sembra gradire esclusivamente "cazzotti&cazzate".
E poi c'è un certo tipo di rivalsa, quella di autori come Maccio Capatonda e la sua cricca. Una piccola squadra nata negli anni novanta, grazie ai finti spot di Mai dire e approdata poi a serie televisive di maggiore durata (Mario su MTV, venti minuti a puntata). Una squadra che, in questo primo approdo sul grande schermo, recupera il surrealismo tematico e lo sfondone linguistico (cose vecchie quanto la commedia popolare stessa), che ruba e non si vergogna ad ammetterlo, che omaggia il cinema vero del passato e del presente (si va da Kubrick ad Hunger Games) e attinge alla grande fonte della cultura pop. La demenza in Italiano Medio c'è, deve esserci e non ha epigoni. Oggi che il cinepanettone è finalmente irrancidito, che i comici della tv fanno brutti film (Biggio&Mandelli su tutti) e che- mentre tutti gli altri generi sono già morti -i produttori uccidono l'ultima forma redditizia del cinema italiano, Italiano medio sembra un fulmine a ciel sereno, riesce a fare centro laddove neanche Smetto quando voglio era arrivato. Maccio Capatonda ci regala la sua consueta galleria di grandi caratteristi (Herbert Ballerina e Rupert Sciamenna su tutti, ma anche la brava Tabita si comporta benone) e gira perfettamente. Parla di noi, certo, e non ha bisogno di essere quadrato o lineare: nel mondo dell'Italiano medio (allegorico, caustico e profondamente simile al nostro) non c'è spazio per bontà e cattiveria, per giusto e sbagliato. 
Lontano da tutto e tutti, odiato da molti, costato pochissimo e girato con un'intelligenza e una premura che gente come Virzì o Genovese possono solo sognare, Italiano medio è la grande commedia del nostro tempo, un carnevale che racconta questa epoca di falsa crisi, prendendosi gioco di una società fasulla e distruttrice come forse solo il Sorrentino de La grande bellezza ha saputo fare. Godiamocelo, Maccio Capatonda! Anche perchè, non appena ritornerà Checco Zalone, tutti saranno di nuovo intenti a sorridersi e volersi bene.

Blind Guardian, "Beyond The Red Mirror" [Suggestioni uditive]

Blind Guardian,
Beyond The Red Mirror
(Nuclear Blast, 2015)

★★★★
















"Successo e fallimento sono le due esperienze della vita adulta", disse Cesare Pavese. Virando questa affermazione verso l'universo Metal, persone come i Blind Guardian risulterebbero le tipiche eccezioni che confermano la regola. Tedeschi, solidamente uniti dal 1984 (anche se, allora, si facevano chiamare Lucifer's Heritage), cresciuti all'ombra del successo di band quali Helloween o Grave Digger, strenui sostenitori del "gioco di squadra" e incalliti compositori, già nella prima ora, di quella rivoluzione power che proprio in Germania trovò la propria scintilla di inizio. Gli ascoltatori più attenti amano differenziare alcune fasi nella carriera dei Bardi (ad esempio, dagli esordi fino al 1992, anno di uscita del sublime Somewhere Far Beyond, vengono collocate pesanti influenze trash e speed che si adattavano fino a un certo punto a draghi, spade, re del nord, battaglie, onore, sangue e acciaio), ma sono i primi ad ammettere che i Blind Guardian siano la più grande band power metal mai esistita: più raffinati dei Manowar, più romantici dei connazionali Grave Digger, più completi degli "allievi" Hammerfall, Hansi e soci costituiscono, ad oggi, una realtà insuperata in ambito metallaro.
Beyond The Red Mirror segue- coraggiosamente e con un ritardo di vent'anni -uno dei loro maggiori successi di critica e pubblico di sempre, e cioè il meraviglioso concept album Imaginations From The Other Side). Dalla doppietta iniziale The Ninth Wave e Twilight Of The Gods, si capisce che tutto il disco (il decimo della loro carriera) correrà sul filo di una pericolosa reminescenza del passato. I gorghi del "già sentito" potrebbero essere vicini, ma l'insistita capacità di ricavare una tremenda energia dal caos che loro stessi scatenano porta i Blind Guardian a scrivere alcune fra le pagine misteriosamente più potenti della loro carriera, direttamente proporzionali al livello che la loro tecnica può avere raggiunto in questi anni della maturità artistica: The Throne, Beyond The Red Mirror e Ashes Of Eternity sono scrigni senza fondo, ogni volta che si apriranno uscirà qualcosa di nuovo, soprattutto nel sentirle proposte dal vivo. E basta spingere la mano più a fondo per veder emergere altri tesori e toccare lo strato (massicciamente presente in tutto ciò che i Blind Guardian hanno inciso da A Night At The Opera in poi) più affine alla musica folk e sinfonica. Miracle Machine e la semiconclusiva Gran Parade sono grandi canzoni popolari con cui una band-feticcio del Metal incontra di nuovo il Sublime. Scrivo "di nuovo" perchè era già successo negli anni Novanta, sia col già citato Imaginations che con Nightfall In The Middle Earth (il disco tolkieniano). E il Sublime di Beyond The Red Mirror è la risposta dei Bardi alla vastità e alla potenza della natura, una risposta fatta di terrore, di vertigine e di esaltazione. Altrettanto sublimi, in questo senso, sono gli scenari aperti dall'ingente opera di produzione che contraddistingue ogni disco dei Blind Guardian: dirige come sempre Bauerfeind (il sesto componente della band, un po' come Ian Stewart nei Rolling Stones), suonano le orchestre sinfoniche ungheresi e cecoslovacche, il pianoforte trionfa sulle pianole, i cori chiamati ad intervenire non sono realizzati con Pro Tools ma arrivano da Budapest, Praga e Boston.
E' il primo febbraio, e c'è da scommettere che sia appena uscito uno dei più bei dischi Metal dell'anno.