martedì 29 gennaio 2013

[Recensione] Lincoln

Lincoln non è un biopic. 
Lincoln racconta come, nel 1865, il senato degli Stati Uniti approvò il XIII emendamento (quello che aboliva la schiavitù). 
Lincoln non spiega il presidente Lincoln, non spiega l'uomo Lincoln, non narra la storia della sua vita, nè ne descrive i romanzati retroscena. E nel portare a termine questa operazione (operazione a cui ha lavorato per oltre sei anni) Spielberg si avvale di uno dei più grandi attori viventi (Daniel Day-Lewis), circondato da una galleria di personaggi eccezionalmente recitati (Tommy Lee Jones nei panni di Thaddeus Stevens è solo uno dei tanti). Siamo sicuramente lontani dal peggiore "Spielberg 2.0", quello che ha macinato miliardi e strappato lacrime banali oltre ogni limite con orrori come A.I., Minority Report, Le avventure di Tintin e War Horse, quello che ha rovinato un personaggio meraviglioso con Indiana Jones e il teschio di cristallo e che ha torturato gli spettatori con tutti quei primi piani sul Tom Hanks di The Terminal. Così come siamo lontani dallo Spielberg che spaccia per grande verità storica un colossale videogioco bellico come Salvate il soldato Ryan (film di cui si salverei quaranta minuti) o che pretende addirittura di regalare lezioni di umanità al mondo con noiosi melò quali Il colore viola, L'impero del sole o ancora peggio Amistad. Dopo anni di attività cinematografica, sembra quasi che il papà de Lo squalo (quello sì che era un capolavoro!) si sia fermato e abbia voluto regalare una lezione di storia ad un pubblico che si aspettava un kolossal sulla guerra di secessione. 
Ed effettivamente la lezione riesce: Lincoln coglie ogni sfumatura politica legata alle vicende esposte, è preciso nei tempi, nella ricostruzione e nella recitazione di ogni singola comparsa. Ma è la precisione di una statua esposta al museo delle cere: bella e accurata, ma terribilmente fredda. Le luci del mago polacco Kaminski sono efficaci, così come le musiche del "veterano" John Williams e i dialoghi firmati da Tony Kushner (che torna con Spielberg dopo l'ottimo Munich). Per la maniacale ricostruzione di ogni attimo precedente all'approvazione dell'emendamento va sicuramente lodato il lavoro svolto in sala di montaggio, ma è l'unico momento in cui davvero si avverte l'odore di ottimo cinema. E così, dopo ben 150 minuti, si esce di sala, sicuramente arricchiti, ma indecisi fra il sostenere di aver appena visto un film candidato a 12 Oscar o un documentario di History Channel più lungo del dovuto e girato da dei veri professionisti.
[Ah, dimenticavo. Chi crede nell'Oscar come istituzione e come sinonimo di "grande cinema", sappia che 12 candidature sono un'esagerazione per un film simile. Dunque, o chi di dovere vuole veramente molto bene a Spielberg (in passato gliene hanno voluto anche troppo), o semplicemente il cinema è messo molto, molto male. Io, da parte mia credo poco nell'Oscar, anche solo per un motivo: Stanley Kubrick non ne ha mai vinto uno] 

Making of "Gianpoppo&Gianciccio" [Extra]

Sostenevo nella precedente rubrica Extra che mi sarebbe piaciuto scrivere su Gianpoppo&Gianciccio, altro sfortunato fumetto dalla lunga progettazione e dalla breve durata. E visto che negli ultimi mesi- complice una lunga operazione di "messa in ordine" domestica -sono riuscito a recuperare un cospicuo numero di schizzi e disegni preparatori, ho deciso di rispettare il mio buono proposito.

Gianpoppo versione "acne" (2003)
Se Talpwoman era nato e si era sviluppato fra i banchi di scuola, G&G era stato pensato tempo prima, ai tempi delle scuole medie. All'epoca disegnavo moltissimo e mi piaceva creare numerosi personaggi, pensati per ipotetiche serie. Dato che a undici anni è altamente improbabile che un editore si offra di pubblicare i tuoi fumetti (ma questo anche a ventiquattro), mi inventai una rivista: in realtà, disegnavo solo la copertina, di cui annunciavo- molto "marvellianamente"- gli incredibili contenuti. Ed è qui che iniziarono a comparire, verso il 2002, due ragazzi piuttosto bislacchi: uno, Gianpoppo, era basso e magro, con enormi denti da coniglio, occhiali dalla forma esagonale e capelli ritti suddivisi in tre parti; l'altro, Gianciccio, era alto e obeso, con un bel nasone, i capelli scuri tagliati corti e una maglietta su cui erano raffigurati due ossi incrociati. L'idea era venuta a me e a un amico osservando una coppia di studenti del primo anno che prendevano l'autobus con noi. Nacquero quindi come figure caricaturali (che, tradotto, voleva dire "presa per il culo"), ma io non mi limitai a trattarli come tali. Infatti, divennero due piccoli grandi uomini, due eroi della provincia più profonda e spietata. Gianpoppo era, già nei modi di fare e nell'abbigliamento, un piccolo-borghese di periferia, viziato, cinico ma con un suo codice d'onore; Gianciccio, invece, era il ragazzo povero, costretto ad arrangiarsi, amico di persone poco raccomandabili, insomma, un vero figlio della strada.
Gianciccio e Topolino (2002)
Le gesta di questi due rimasero nella mia testa fino al 2006, anno in cui mi ritrovai direttore artistico del giornale d'istituto e dunque padrone assoluto delle creature fumettistiche che ne avrebbero abitato le pagine finali. Dal momento che l'episodio conclusivo di Talpwoman non sarebbe uscito, iniziai a scervellarmi su cosa far pubblicare: da principio, presi in considerazione Le 7 giornate di Grecia, fumetto autobiografico a cui lavoravo dall'estate; tuttavia, avevo una gran paura di presentare una storia che sarebbe potuta risultare troppo personale, e bocciai il progetto. Tornai così alle "origini" e pensai che fosse una buona occasione per mostrare Gianpoppo e Gianciccio alle prese con qualche strampalata situazione. Scrissi una specie di soggetto di una pagina, dal titolo La casa acida, ispirato da un filmetto britannico che si intitolava, appunto, The Acid House. La trama, a grandi linee era questa:

Siamo in una località lagunare. Gianpoppo, giovanotto di periferia la cui unica preoccupazione è sperperare il cospicuo patrimonio familiare, viene invitato ad una misteriosa festa su un'isoletta. La villa palladiana che ospita l'evento è nota ai più come "la Casa Acida", dove si balla, si scopa e ci si droga. Alla festa, Gianpoppo incontra Gianciccio, spacciatore obeso perennemente in difficoltà col gentil sesso. I due si odiano a prima vista. Alle prime luci dell'alba, entrambi lasciano la festa, ma non trovano il vaporetto che li dovrebbe riportare in città, bensì uno strambo traghettatore chiamato Il Pittore. Questi scorta Gianpoppo e Gianciccio, assieme ad altri quattro sventurati, su una misteriosa isola vicina. Qua ne vedranno di cotte e di crude, incapaci di realizzare se si tratta della realtà o è una semplice allucinazione dovuta alle sostanze ingerite alla festa.
Le due tavole del secondo episodio di G&G (marzo 2006)

Inutile dire che anche in questo caso non avevo la più pallida idea di come sarebbe andata a finire la storia, ma sapevo che potevo dedicare moltissimo tempo ad organizzare il lavoro e a realizzare le tavole. Al contrario dell'anno precedente, avevo a disposizione solo due pagine per i miei fumetti, e i primi due numeri del giornale uscirono privi della sezione comics. Se questo, da una parte, ritardò il lavoro, dall'altra mi permise di curare maniacalmente i disegni. Tuttavia, la cura tecnica non fu lodata dal nostro piccolo pubblico, che si concentrò esclusivamente sulla storia, ritenuta priva di spessore e senso. Gianciccio era un personaggio già conosciuto: il fidanzato assassino di Talpwoman ora diventava un trippone drogato dal cuore tenero, e questa cosa non sembrava riscuotere il dovuto consenso. E poi G&G fu recepito come uno spin-off di Talpwoman. I primi due episodi usciti comparvero nei numeri III e IV del giornalino, e nessuno sembrò apprezzarli o capirli. Ma a me non interessava se la gente li capiva o meno: io volevo solo disegnare e mettere i miei personaggi in situazioni allucinate. Tuttavia, per il terzo numero avevo in mente di far comparire la mitica "donna talpa" e di presentare Lucignolo, la figura che avrebbe scortato Gianpoppo e Gianciccio nell'isola misteriosa. Ovviamente, il terzo numero non vide mai la luce, e G&G finì, per il sollievo di alcuni, nel dimenticatoio.

CONTENUTI SPECIALI
Disegni e altro

Gianpoppo e Gianciccio in compagnia del beccamorto Cimiblock (2002)

Un Gianciccio "noir" con tanto di lupara (2005)

Gianpoppo e Gianciccio incontrano Lucignolo, futuro maestro di vita (2005)

Autoritratto con Gianciccio (2006)

Annuncio "promozionale" per il terzo episodio mai utilizzato (2006)
Locandina mai utilizzata per il primo episodio (2005)

Due vignette destinate al terzo episodio mai realizzato (2006)
Studio di Gianciccio (2006)





lunedì 21 gennaio 2013

Cosa aspettarsi da "Sin City 2- Una donna per cui uccidere" [Scosse]

Basta guardare la grafica del mio blog per capire che Sin City mi piace. Tanto. Lo amo e lo odio Sin City: è un effetto che mi ha sempre fatto. Amo e odio le sue storie, i suoi personaggi, ma soprattutto quello che i suoi personaggi si dicono e quello che i suoi personaggi fanno. Sin Ciy non è solo un fumetto o un film: è semplicemente una gran bella opera d'arte, di quelle che mettono in piedi un universo in cui, a momenti, si vorrebbe quasi vivere. Anche se, come quasi sempre, si finisce con l'accontentarsi del sogno.

Di Sin City 2 si parlò già nel 2006. Rodriguez si era detto molto interessato a girare un sequel che "completasse" e approfondisse le situazioni e i personaggi presentati nel primo film. Poi il regista texano si perse in altri progetti, regalandoci opere riuscite solo in parte (Planet Terror) e capolavori del calibro di Machete, ma negli anni ha sempre continuato a puntualizzare che Sin City 2 si sarebbe fatto. Frank Miller, sfortunatamente sempre più lontano dal suo mestiere (i fumetti), si concesse prima a quel delinquente di Snyder per 300 e poi prese la briga di omaggiare i fumetti degli altri dirigendo The Spirit, stroncatissimo ma tutto sommato divertente. 
Ora che purtroppo Machete Kills (di cui ho già ampiamente parlato proprio qui sul blog, in questa stessa rubrica) è stato interrotto per motivi legali, Rodriguez pare avere preso di nuovo per mano il vecchio Frank Miller e assieme hanno approntato soggetto e sceneggiatura del sequel. Le scene legate all'episodio di apertura sono già pronte, stando a quanto dichiarato dallo stesso Rodriguez, così come il cast del film recupererà molti personaggi del precedente. Rivedremo il colossale Mickey Rourke nei panni di Marv, Michael Madsen in quelli di Bob e Bruce Willis tornerà per raccontarci chi era John Hartigan prima dello scontro con "quel Bastardo Giallo". Veniamo ora all'altra metà del cielo, la parte più bella e toccante dell'universo creato da Miller: ritorneranno sia la "valchiria" Rosario Dawson che la "piccola e tenera" Nancy. Ad aggiungersi alla "vecchia guardia" vanno: Ray Liotta, Juno Temple, Jeremy Piven, Josh Brolin (che sostituirà Clive Owen per il personaggio di Dwight) e Joseph Gordon-Levitt, reduce da un 2012 che lo ha visto all'opera con maestri del calibro di Nolan e Spielberg. Realizzato interamente in 3D (e qui devo dire <<Ahia!>>), Sin City 2- Una donna per cui uccidere uscirà nelle sale il 4 ottobre 2013 e pare sia già candidato all'apertura della Mostra del Cinema di Venezia. 
Da parte mia, sono affettuosamente curioso e commosso, anche se ho un interrogativo: Ava Lord, che è poi la "donna per cui uccidere" del titolo (la storia, semplicemente meravigliosa, la trovate qua), chi la interpreterà? Io un paio di nomi in mente ce li avrei... e voi? 


sabato 19 gennaio 2013

[Recensione] Frankenweenie

Nel 1984, un 26enne Tim Burton girò una macabra parodia del Frankenstein di Shelley, dove il piccolo Victor riportava in vita il suo cane Sparky, morto in un incidente. Questo cortometraggio (26 minuti) prodotto dalla Walt Disney fu un cocente insuccesso di pubblico, tant'è che Burton fu addirittura licenziato dalla casa produttrice. 
Nel 2013, un Tim Burton invecchiato non bene e reduce da sei pellicole una più scadente di un'altra firma Frankenweenie 3D, lungometraggio animato prodotto ovviamente dalla Disney (qui ci sta bene un <<W la coerenza!>>) e ultima grande delusione per chi, come me, ha creduto nel talento di Burton (pur riconoscendone anche i grossi limiti) fino al meraviglioso Big Fish
Essendo miope e portando ormai sempre più spesso gli occhiali, non amo vedere film in 3D: anzi, se posso li evito con tutto me stesso. Tuttavia, il 3D ha saputo regalarmi anche grandi emozioni (su tutte, Tron Legacy, l'unico film in cui lo stesso 3D è funzionale alla storia), dalle pirotecniche sparatorie degli ultimi Resident Evil fino al più recente Lo Hobbit di Jackson. Frankenweenie parte col piede sbagliato, visto che propone un 3D totalmente inutile, fastidioso e applicato ad un cartone in stop-motion bianco e nero. Quindi, la "forma" già fa schifo. Il disegno è il solito disegno sviluppato da malati di mente e destinato ad altrettanti malati di mente: e cioè agli unici che ancora hanno il coraggio di spendere belle parole per queste bimbe anoressiche vestite di nero, bianche come mozzarelle, con gli occhi a palla cerchiati da spesse occhiaie. Va bene, a fine anni '90, ai tempi di Nightmare Before Christmas, poteva essere un'idea originale, ma quando si inizia ad applicarla ai film con attori in carne ed ossa e a qualsiasi altro cartone animato creato da Burton&co., rompe le palle. Gli unici che forse fanno un po' di soldi grazie agli imbecilli innamorati di questo mondo pseudo-goth-dark sono i tatuatori, felici come pasque di realizzare in serie teschi sorridenti, mostriciattoli e spose cadavere varie. Ma tanto, al di là della cupezza delle sue figure, Frankenweenie è una storia profondamente disneyana, con l'immancabile happy-end, la morale carina e "il mostro che è il buono e i buoni sono i mostri". Anche quest'ultimo meccanismo è affascinante, sì, ma dobbiamo prendere atto che non vi si può costruire sopra un'intera carriera cinematografica. La trama del film può funzionare, ha delle buone idee, ma lo svolgimento è più adatto ad un corto di mezz'ora scarsa (quindi alla forma della pellicola originale) che a un'ora e mezza di dialoghi noiosi e prevedibili quanto l'agnello in tavola a Pasqua; i personaggi sono piatti, morti, senz'altro adatti al pubblico "cadaverico" dei burtoniani d.o.c., che vi si ritroveranno con sommo piacere; non c'è un minimo di senso del ritmo, della tensione; nulla.
Insomma, mi viene da parafrasare una celebre battuta del compianto Groucho Marx: "Grazie, ho trascorso una piacevole serata al cinema. Ma non è questa".

[Recensione] Django Unchained

Potrei scrivere tonnellate di parole su questo film e condensarlo in una sola, cioè "capolavoro". Lo dico perchè amo sin dall'infanzia il genere western e mi piace molto Tarantino. Tenterò una via di mezzo.

Per cominciare, sfatiamo subito un paio di opinioni insensatamente diffuse. Django Unchained (che, per chi non lo sapesse, è l'ottava pellicola diretta da Quentin Tarantino) non è nella maniera più assoluta un film iscrivibile fra gli "spaghetti-western". I motivi sono semplici: basti dire che non è un film italiano (aspetto "geneticamente" indispensabile), e inoltre che gli "spaghetti-western"sono andati in pensione nel 1978, quando uscì Stella d'argento di Fulci. Ad ogni modo, se Django fosse stato uno "spaghetto", sarebbe stato sicuramente il migliore: una vera delizia per il palato del cinefilo. Quando, nel 2007, alla Mostra del Cinema di Venezia, sono stati presentati trentadue titoli appartenenti a questo fortunato filone, è stato proiettato (quasi) tutto il meglio del genere. Tarantino potrà aver contribuito a "riscoprire" un paio di opere, ma per il resto si trattava di film già famosi, realizzati da persone che il loro mestiere lo sapevano fare e molto bene; e i frutti di questo mestiere sono stati celebrati al meglio, in quell'occasione, e fine della storia. Insomma, quello che voglio dire è: si può organizzare una retrospettiva dedicata al cinema espressionista tedesco, ma nessuno dovrà per forza girare un elaborato e ultratecnologico remake hollywoodiano de Il gabinetto del dottor Caligari; e la stessa regola va applicata al Django di Corbucci, che non si è "reincarnato" nel Django tarantiniano in seguito ad una elaborata operazione "cinefilologica". E questa cosa, almeno in Italia, sembrano non averla capita tutti, visto che sia in sala che (cosa ben più grave) sulla stampa specializzata si continua a parlare di "rimandi", "omaggi" e altre amenità. Lo si capisce analizzando, a grandi linee, la trama.
1858. Il dottor King Schultz (Cristoph Waltz) è un atipico dentista tedesco che da quattro anni pratica la professione di bounty-killer nel profondo sud degli Stati Uniti. Uomo colto, illuminato e contrario alla schiavitù, libera il nero Django (Jamie Foxx), lo "ripulisce" e gli chiede la sua collaborazione nello scovare i fratelli Brittle, macellai religiosi e torturatori di schiavi. Durante il viaggio, i due si conoscono meglio, Django racconta a Schultz del suo passato e del suo matrimonio con Brunhilda (Kerry Washington), una bella e giovane schiava da cui è stato separato per mano del suo vecchio padrone. Egli è animato dalla voglia di ritrovarla e di renderla una donna libera; Schultz è colpito dal racconto del giovane nero, in cui ravvisa (complice anche il nome della ragazza) delle notevoli analogie con L'anello del Nibelungo. Dopo aver trovato, nella piantagione del "gentiluomo" del Tenneessee Big Daddy (Don Johnson), i Brittle e averli uccisi, Schultz propone a Django di lavorare insieme fino allo sciogliersi delle nevi, dopodichè lo aiuterà a trovare Brunhilda. E così accade. Grazie alle ricerche effettuate al mercato di schiavi di Greenville, i due scoprono che la giovane è stata venduta al famigerato Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), imperatore del cotone. Introdotti nelle sue grazie con la scusa di acquistare per una cifra sbalorditiva un lottatore di mandingo, i due cacciatori di taglie arriveranno fino a Candieland, dove dovranno tirare su una gigantesca e precisa "commedia", in cui nulla dovrà andare storto. E invece...
Opera immensa e ambiziosa, Django Unchained risulta essere il più bel film western dai tempi de Gli spietati di Eastwood, nonchè l'ennesimo capolavoro del percorso registico di Tarantino. Inoltre, con i suoi 165 minuti di durata, è l'opera più lunga del regista (finora deteneva il primato Pulp Fiction, con 154 minuti). Come già successo nel precedente Bastardi senza gloria, è la Storia ad essere al centro dell'attenzione: in questo caso, è una "storia orribile" (per citare una frase di Schultz, all'inizio del film), quella della schiavitù. Stia buono Spike Lee, che non ha visto il film ma ne ha comunque parlato malissimo, accusando (per l'ennesima volta) Tarantino di essere razzista: la verità è che Tarantino, pur non esitando a mostrare i negri più cattivi del mondo (in Django spetta nuovamente a Samuel L. Jackson questo arduo compito), porta da sempre avanti un'idea di cinema fortemente anti-razzista. Nei Bastardi un ebreo interpretato da un ebreo (Eli Roth) massacrava i nazisti con una mazza da baseball, qui Django uccide americani in cambio di denaro. L'americano, o meglio l'americano degli stati del sud è una persona di merda, e va punito con qualsiasi mezzo. La violenza che si scatena su persone che hanno agito indisturbate torturando e massacrando negri è non solo giustificata, ma quasi istruttiva: lo dimostra Django quando chiama attorno a sè i "fratelli", domanda <<Volete vedere una cosa?>>, e scarica il tamburo della Remington sull'uomo che frustava sua moglie. Django è l'uomo che la Storia ha messo in gabbia, e che, una volta liberato, non indugia e agisce, ribellandosi alla Storia stessa. Invece, se analizziamo i neri di molti film di Spike Lee (il caso più clamoroso e vergognoso è Miracolo a Sant'Anna) avremmo a che fare con personaggi che il regista priva della loro forza, della loro dignità, riducendoli a figure in grado solo di subire, manco fossero dei venditori ambulanti da spiaggia.
Il cast risulta curato come e forse più di sempre: Jamie Foxx è bravissimo; Cristoph Waltz è uno dei più grandi attori di tutti i tempi; Leonardo Di Caprio è uno dei cattivi più cattivi della storia del Cinema; Samuel L. Jackson è la versione oscura, cinica e malvagia dello Zio Tom; Don Johnson è un precursore del KKK, ignorante e stupido come un leghista nostrano; Kerry Washington non è la classica creatura femminile tarantiniana, ma brilla per bravura e intensità nei panni di quello che è forse il personaggio più drammatico; Michael Parks (che ha vestito i panni dello sceriffo Earl McGraw già sei volte, di cui tre con Tarantino dietro la macchina da presa) interpreta un ruolo marginale, ma "l'importante è esserci"; e lo stesso vale per Tom Savini (i suoi cani rabbiosi parlano per lui), Zoe Bell (ha sempre il volto coperto da un fazzoletto rosso, ma i suoi occhi sono ben riconoscibili), Ted Neeley, Robert Carradine, Franco Nero, RZA e lo stesso Tarantino (visibilmente ingrassato). Insomma, ogni singolo personaggio, anche il più secondario, è interpretato con classe.
E come il cast, tutto il film è lavorato con una perizia certosina (non esistono errori storici, ad esempio, nella scelta delle armi) e una mano ferma tipica solo di pochi geniali professionisti del Cinema. La musica è meravigliosa, così come la fotografia di Richardson. Abbondano, come sempre, gli omaggi a vecchi film: da Sentieri selvaggi a Navajo Joe, da Mandingo a Spartacus, da Arancia Meccanica a Il buono, il brutto e il cattivo, da Taxi Driver al Django di Corbucci; così come non mancano analogie con altre opere di Tarantino, da sempre appassionato "autocitazionista".
Si esce dal cinema coscienti di aver visto un film praticamente privo di difetti. E sono cose che succedono molto, molto raramente.


sabato 12 gennaio 2013

[Recensione-Scontro] Jack Reacher Vs. Cloud Atlas


Jack Reacher di Christopher McQuarrie è il tipico film d'azione intelligente. Intelligente perchè mette davanti a tutto un vero protagonista (Jack Reacher, appunto): fortissimo, grintoso, formidabile e che pur col suo metro e cinquanta (per forza, è Tom Cruise) di altezza fa piazza pulita come farebbe quell'impedito di Vin Diesel (il tipo di attore che Linneo avrebbe inserito volentieri nel suo catalogo delle specie animali). La regia è buona, senza troppe piroette pretenziose o effetti speciali dannosi; inoltre, c'è un lavoro di sceneggiatura eccellente, portato avanti dallo stesso McQuarrie, regista e sceneggiatore, fra gli altri, de I soliti sospetti (che non a caso, nel 1996, gli valse l'Oscar come miglior sceneggiatore): la storia infatti non è intricata e i personaggi sono tutti molto ben delineati (bravissimo Robert Duvall nei panni del marine in pensione), anche i più stupidi (l'avvocato non capisce veramente niente, i poliziotti anche meno). Werner Herzog (il grande maestro del cinema, esatto) è il cattivo del film, ed è cosa "buona e giusta". Tom Cruise veste un personaggio libero dall'imbecillità dei suoi ruoli "da duro" (su tutti, Top Gun e L'ultimo samurai) e si muove fra cazzotti ben assestati, una mira degna del miglior John Wayne e delle battute fenomenali. Infine, desidero puntualizzare che questo film contiene uno dei migliori inseguimenti di auto degli ultimi anni, lontano anni luce dalle cromature testosteroniche alla Fast and Furious. Insomma, chi esce dalla sala ammirando Jack Reacher e invidiando la sua forza e il suo carattere, può stare tranquillo: è puro cinema di intrattenimento, di quello buono. E va bene così. 

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C'era una volta Larry Wachowsky, che si era rotto le palle di essere uno dei due fratelli Wachowsky e aveva deciso di diventare donna. L'operazione riuscì (neanche poi tanto bene), ma risultò essere estremamente costosa. Allora Larry (che nel frattempo era diventato Lana) si ricordò che la sua nuova compagna di toilette Natalie Portman gli aveva regalato, alcuni anni prima, un romanzo intitolato L'atlante delle nuvole di David Mitchell. Parlò al fratello Andy di tirarne fuori un film, i cui giganteschi incassi avrebbero contribuito a coprire le spese mediche. Nel 2009 il progetto Cloud Atlas iniziò dunque a prendere forma, in gran segreto. Tutto era avvolto nel mistero, perchè i Wachowsky forse già sapevano che si sarebbe trattato di un film di merda e un po' si vergognavano. Dopo tutto, almeno un film a garbo lo avevano girato (Matrix) nella loro carriera (non uno di più, parliamoci chiaro). Il cast fu scelto di conseguenza: Tom Hanks, non lavorando ormai da anni con Spielberg ed essendo di conseguenza disoccupato, aveva bisogno di forti somme di denaro, per farsi una pensione; Hugh Grant, a causa delle sue numerose famiglie, giustificò la sua partecipazione con frasi come <<C'è crisi>> o <<Scusate, ma devo portare a casa la pagnotta>>; Halle Berry aveva in vista una chirurgia plastica al pancreas e alcune centinaia di migliaia di dollari in più non le avrebbero fatto scomodo; Susan Sarandon- che io amo e apprezzo molto -doveva comunque trovare il modo di continuare a comprarsi quantità industirali di sigarette; a pensarci bene, l'unico grande assente è Nicolas Cage. La trama, noiosa e inconsistente, ha il vantaggio di essere facilmente riassumibile. Cloud Atlas è un film che contiene sei storie, le quali si svolgono in un arco di tempo che va dal 1839 al 2321; i vari attori vestono molteplici ruoli in tutte le epoche e questi episodi hanno qualcosa in comune: fanno cacare. Cento milioni e passa di budget, tre registi (ai Wachowsky si affianca Tom Tykwer, regista teutonico famoso per il buon spy-movie The International e per l'imbarazzante Profumo), due direttori della fotografia ed effetti speciali freddi come la morte, e per cosa? Per quasi tre ore di pastiche fanta-storico-filosofico firmato da una coppia di artisti fra i più sopravvalutati della storia del cinema? Esatto. Cloud Atlas è come il film di  Operazione vacanze: la dimostrazione che al peggio non c'è mai fine. 

Play It Again, "Sam"! [Extra]


Sam è un progetto a fumetti a cui lavoro da agosto. 
Sam è una semplice fiaba metropolitana.
Sono alla ricerca di un disegnatore.
Chiunque fosse interessato può contattarmi inviando una mail a ferrucciobellesi@gmail.com.
Oppure rivolgendosi alla mia pagina Facebook (http://www.facebook.com/ferruccio.bellesi) o a quella del Plural Vision Studio (http://www.facebook.com/PluralVisionStudio).
O ancora contattandomi tramite questo blog.
Vi ringrazio anticipatamente.
E spero che il 2013 possa essere l'anno di Sam.


venerdì 11 gennaio 2013

Inverno bonelliano [Pt. 2]

LE STORIE #4
"NO SMOKING"
testi: Ruju/ disegni: Ambrosini
114 pag., BN, 3,50 €

★★★★★

Le Storie sono la collana Bonelli di cui ormai attendo maggiormente l'uscita in edicola, perchè mi incuriosisce e mi appaga leggere un albo autoconclusivo che mensilmente affronta periodi storici e argomenti diversi, e poi perchè si tratta di un'operazione editoriale unica in Italia. Si dà il caso che questa quarta uscita sia un fumetto gangster, uno dei miei generi prediletti, sia che si parli di fumetti, che di cinema, che di letteratura: e manco a farlo apposta mi ritrovo fra le mani quello che, almeno per adesso, è il numero de Le Storie che mi è piaciuto di più. Un protagonista apparentemente timido e introverso come Angelì potrebbe risultare noioso, quasi inconsistente ai fini di una vicenda dove non mancano gli inseguimenti mozzafiato in auto, le sparatorie violente, gli spaghetti, le rapine, le "donnacce" (la bella Manuela) e anche elementi più pulp come il cattivissimo U Lupinariu: e invece è proprio Angelì il nucleo attorno al quale No Smoking si costruisce, fino ad arrivare ad un colpo di scena degno davvero di qualche grande maestro del cinema di genere. Nell'editoriale, Gianmaria Contro cita pellicole immancabili quali Scarface (non tanto quello di De Palma, quanto quello di Hawks), Gli angeli con la faccia sporca di Curtiz e La furia umana  di Walsh, ma si potrebbero "pescare" vari omaggi anche ad altri film (forse esagero, ma le sacche contenenti le teste dei rapinatori mi hanno fatto tornare in mente un capolavoro come Voglio la testa di Garcia di Peckinpah). E poi non è un caso che uno dei migliori fumetti italiani di gangster degli ultimi trent'anni fosse nato proprio per la collana Un uomo, un'avventura, sempre Bonelli: sto parlando del bellissimo L'uomo di Chicago di Alessandrini. Che Ambrosini fosse un disegnatore dalle forti tinte noir lo avevamo già visto sulle pagine di Dylan Dog e soprattutto di Napoleone (una serie che rimpiango molto), ma stavolta ha davvero raggiunto un ottimo risultato: sembra quasi di sentire "la puzza della strada", quella che faceva aprire i polmoni a Noodles in C'era una volta in America. E infine, standing ovation per Pasquale Ruju, che si conferma uno dei migliori narratori per immagini dei nostri giorni: il suo uso di un meccanismo talvolta "rischioso" e abusato come quello del monologo interiore risulta appassionante ed efficace. Da leggere e rileggere.

giovedì 10 gennaio 2013

[Recensione] La migliore offerta

Al di là dell'enorme peso mediatico che viene loro attribuito, gli Oscar non contano molto. Certo, fa sempre piacere vedere un film che abbiamo amato molto vincere una statuetta (finora, mi è successo pochissime volte), ma la realtà è che i registi i cui film vincono un Oscar non necessariamente possono risultare registi da Oscar. Giuseppe Tornatore è uno di questi: statuetta al Miglior Film Straniero conquistata nel 1990 (a 34 anni) con Nuovo Cinema Paradiso, e un paio di buone pellicole a seguire (Stanno tutti bene e Una pura formalità). Poi sono iniziati i problemi, quelli grossi. Uno dei problemi si chiama La leggenda del pianista sull'Oceano, tratto dal libro più breve (ma non per questo meno palloso) del mondo, Novecento di Baricco. Ecco, se ci sono trasposizioni cinematografiche di libri da evitare sono quelle ispirate ai romanzi di Baricco: una regola che ho inventato io e che, almeno secondo i miei gusti, questo film conferma in pieno. Il fondo fu toccato, nel 2000, da Malèna, un prodotto destinato al mercato dei segaioli coi guanti di velluto, intellettualmente disonesto, preconfezionato e spacciato per Arte pura. Le cose non migliorarono con La sconosciuta, uscito sei anni dopo e molto atteso come "ritorno al cinema di Tornatore": chi trova straordinari esempi di settima arte i lagnosi filmetti di Ozpetek, metterà La sconosciuta fra i suoi dieci film preferiti. Poi abbiamo avuto Baarìa, brutto, incomprensibile (non tanto per l'uso del dialetto, quanto per una trama priva sia di capo che di coda) e fotografato come una fiction di RAI 1. 
La cosa buffa è che La migliore offerta non mi è solo piaciuto: l'ho proprio ammirato. L'ho ammirato come Godfrey Rush (attore che da solo fa il film) ammira i ritratti di donne nella stanza segreta della sua villa. Il suo personaggio è quello dell'antiquario e battitore d'asta Virgil Goldman, misantropo, diffidente anche verso la propria ombra e poco incline a spezzare una routine fatta di costosissime cene solitarie, orari ferrei, appuntamenti importanti, aste prestigiose (durante le quali è aiutato dal complice Billy per portare a termine alcune truffe) e nessun legame sentimentale. Farà un'eccezione nei confronti di Clara (Sylvia Oeks),  misteriosa (abita da dodici anni in una stanza della sua enorme casa), agorafobica e ricchissima ereditiera che invita Goldman a valutare l'immenso patrimonio di famiglia. Il vecchio antiquario si innamora di questa fragile creatura che parrebbe assomigliargli molto, ed elabora (complice un giovane e vispo aggiustatutto di nome Robert, impersonato da John Sturgess) un corteggiamento lungo e complesso. Pian piano, lei aprirà a Goldman le stanze segrete della sua casa e della sua anima. Il problema è che- come dice lo stesso Billy (Donald Shuterland, sempre in gran forma) -"i sentimenti umani sono come le opere, si possono simulare". Ed è questo che il vecchio Goldman, perdutamente innamorato per la prima volta nella sua vita, non ha preso in considerazione...
Per prima cosa, va detto che al di là delle forti tinte di thriller (accentuate dalla seconda parte del film in poi), La migliore offerta non è assolutamente un blockbuster con Nicolas Cage sui misteri delle opere d'arte. E' vero che contiene molti temi: una storia d'amore quasi da fiaba, la malattia di una bella ragazza, le difficoltà di un uomo che si avvia verso il declino di accettarsi e piacersi (la tinta dei capelli). Ma al di là di tutto, l'opera di Tornatore non parla di truffe, nè di amore: parla della Bellezza. Dall'inizio alla fine, il film è una riflessione continua sull'estetica. La stanza segreta di Virgil è il luogo dove egli ha accumulato tutta la bellezza riprodotta e messa su tela da alcuni dei più grandi artisti di tutti i tempi, una bellezza accessibile  a lui solamente. Le donne dei quadri di Goldman, meravigliose e immortali, non possono tradirlo, dal momento che infrangerebbero la sua realtà e il suo unico modo di essere felice. Il colpo di scena c'è, ed è uno di quelli belli, inattesi, uno di quelli che ti colpiscono sulla poltrona del cinema come una coltellata. 
Non aggiungo altro, se non che non voglio sentire per un bel pezzo discorsi come: <<I film italiani fanno tutti schifo>>, <<Il nostro cinema è morto>>, <<Minchia, zio, stiamo messi merda, cioè, dopo questo film proprio ammazzati>>. Il nuovo di Tornatore vola al di sopra della pellicola italiana media (cioè del film voluto e prodotto da Procacci), e va bene così. Quarant'anni fa, storie di questo tipo, girate con questo stile, fotografate bene così e interpretate da un cast internazionale, le giravano registi del calibro di Visconti e Antonioni. Meditate su quest'ultimo punto. Meditate.

domenica 6 gennaio 2013

[Recensione] The Master

Ho visto il primo DVD nel 2001: avevo dodici anni compiuti da poco, mi trovavo a cena a casa di un amico fotografo e il film era Magnolia di Paul Thomas Anderson. Rimasi folgorato.
Stasera sono arrivato al cinema dieci minuti prima e ho indugiato fumando una sigaretta e guardando la locandina di The Master, il film che sarei andato a vedere. In un'altra sala proiettavano Jack Reacher, il nuovo con Tom Cruise, e un quartetto di trentenni "faceva la conta" fra i due film. L'intellettuale del gruppo (dico "intellettuale" visto che aveva la barbetta incolta da capra, il cappello a forma di preservativo, i Wayfarer da vista, puzzava di chiuso e brandiva un iPhone sintonizzato sulla home page di Mymovies) ha iniziato a indicare la locandina di The Master (una locandina tutto sommato brutta, diciamolo) e a parlare del cast. Una delle due ragazze presenti gli ha domandato se il film era opera di "uno famoso", e lui le ha risposto- con una sicurezza virile che avrebbe fatto bagnare qualsiasi femmina - <<Ma no... questo è quello di quell'esordiente... uno giovane... emerso da poco...>>. Poi ha abbassato lo sguardo, scorgendo in basso a sinistra la scritta a caratteri cubitali "Vincitore del Leone d'Argento come miglior regista", seguita a ruota da "Vincitore della coppa Volpi al miglior attore protagonista"; ed è allora che un ghigno da ebete gli si è disegnato in volto. Ovviamente, hanno deciso di andare a vedere Jack Reacher, che magari non è male.
Una cosa giusta però il 30enne l'ha detta: Anderson è giovane. Giovane, chiaramente, come si intende oggi, quando uno come Renzi (che ha 37 anni) è il più giovane di tutti. Il cinema, in questo, assomiglia molto alla politica. Il regista che aveva 29 anni quando ha girato Magnolia, ha ormai abbandonato il cinema corale, quello dai tanti personaggi e dalle molte storie che si intersecano. Già con il superbo Il petroliere (2007) era passato a dirigere film epici, monumentali, ma costruiti attorno ad una sola figura. In questo caso, The Master è la storia (con nomi cambiati e situazioni romanzate) di Freddie, reduce solo e alcolizzato (un Joaquin Phoenix da Oscar immediato) che incontra per caso Lancaster Dodd (interpretato dallo statuario Philip Seymour Hoffman), un guru tuttologo che altro non è che l'alter ego di Ron Hubbard (1911-1986), fondatore di Scientology (nel film, La Causa). Freddie rimane, suo malgrado, affascinato dai fittizi sermoni di questo astrofisicoromanzierecapitanopretefilosofo e finisce col diventare uno degli elementi più importanti della setta. Sono i primi anni Cinquanta, e Dodd si sposta come può per gli States, scortato dal suo fedele seguito (una famiglia numerosa, il genero e Freddie): porta avanti teorie folli, in bilico fra religione orientale e televendite di marchiana memoria, ma in molti sembrano rispettarlo, o addirittura temerlo. Dopo la pubblicazione del suo secondo libro, Dodd confessa a Freddie di riporre grande fiducia nelle sue capacità, facendogli intendere che il loro è un legame insolubile e che potrebbe essere proprio il giovane reduce, un giorno, a prendere il suo posto nel guidare la setta. In una meravigliosa scena nel deserto dell'Arizona, vediamo Freddie prendere una moto e correre via, alla ricerca di quella vita vuota che conduceva prima. Ma La Causa non si dimentica di lui...
Il problema di un film come The Master è che parla veramente di tante cose. Se lo volessimo vedere come una bella pagina di storia americana, è non solo la cronaca romanzata della nascita di una nuova religione (Scientology), ma la fotografia di una persona che, uscita dalla seconda guerra mondiale, è totalmente incapace di ritagliarsi un posto nella società civile: Freddie, privato del conflitto, non riesce a crearsi una vita, un'identità, e come lui migliaia di giovani americani all'epoca. Freddie è il cane randagio che incontra Lancaster, il padrone buono e protettivo, ma pur sempre un padrone. E il padrone pretende solo una cosa: la fedeltà. Questo meccanismo calza a pennello con La Causa, così come calza bene con Scientology, e più in generale con le tantissime sette più o meno religiose che tuttora continuano a imperversare sia in Occidente che in Oriente. Abbiamo poi uno scontro fra due grandi personalità: quella debole ma al contempo sfrontata, simpatica e coraggiosa di Freddie, e quella avida, tetra, fanatica e morbosa di Lancaster. Così, come nel Petroliere Daniel Day-Lewis era lo zelante self-made man alle prese con una comunità di bigotti indottrinati dal fanatico Padre Eli, qui Joaquin Phoenix è uno svogliato parassita imbottito di alcool fatto in casa e costretto a vedersela con un qualcosa molto più grande di lui. Forse i lettori di siti come Alfemminile.it vedono Scientology come un enorme toga-party, dove al posto dei soliti volgari coatti nostrani trovano posto personalità del calibro di John Travolta, Tom Cruise o Roby Facchinetti: ecco, queste persone possono lucidarsi il cervello leggendo qui la storia dell'organizzatore del toga-party, oppure guardare The Master, un film non semplice che affronta tematiche solitamente lasciate da una parte. E vista la bravura degli attori, la delirante complessità dei protagonisti (tutti accomunati da un'anaffettività terrificante) e la maestosità della regia di Anderson (che ha imparato a fare il regista guardando videocassette), sarà molto difficile che a qualcuno venga voglia di girare altre pellicole su questi argomenti. 
Almeno per ora.

Making of "Talpwoman" [Extra]


Sono passati esattamente otto anni da quando abbozzai le prime idee riguardanti Talpwoman, fumetto demenzial-psichedelico a puntate (tre in tutto, di cui solo due pubblicate) che sarebbe uscito fra l'aprile e il giugno del 2005 sulle pagine del "Volta Pagina", giornale d'istituto del mio liceo. Iniziai scrivendo recensioni cinematografiche in quinta ginnasio, verso la fine del 2004, ma presto manifestai le intenzioni di sceneggiare e disegnare un fumetto mio. Partii da un'idea semplicissima: immaginai la rivoluzione privata di una studentessa bigotta, studiosa (ma non per questo intelligente) e oppressa dalla famiglia. Insomma, una storia semplice, come se ne vedono e se ne sentono tante fra i banchi di un liceo classico. Il modello di ispirazione di questa famigerata "donna-talpa" fu proprio una mia compagna di scuola. Unii lei ad un personaggio del videogioco Yoshi's Island, mia grande passione ai tempi del Super Nintendo: lo Yoshi Giallo, che come gli altri Yoshi colorati poteva tramutarsi in qualche animale bizzarro e che diventata una gigantesca talpa corazzata con tanto di cingoli (vd. disegno sotto a destra).
Buttai giù disegni e schizzi e li presentai ad una leggendaria riunione del giornalino, dove l'allora direttore responsabile Pietro approvò il progetto. Si sarebbe trattato di tre tavole a numero, per un massimo di nove vignette a tavola: totale libertà espressiva e linguistica. Effettivamente, lavorai senza alcuna idea di sceneggiatura: disegno e dialoghi nascevano vignetta per vignetta, seguendo un metodo di lavoro che oggi rifiuterei categoricamente. Ad ogni modo, il primo episodio di Talpwoman uscì e fece sorgere fra i lettori almeno un paio di domande: la prima riguardava cosa questo famigerato 7.B. mangiasse la sera o di quali droghe fosse solito fare uso; la seconda domanda era <<Ma di che cazzo sa questa storia?!>>. In effetti, era un esercizio di stile scritto malissimo, molto autocompiacente e volutamente esasperato, ma qualcuno finiva col riderci. Per un breve periodo, questa Talpwoman divenne un po' l'archetipo della sfigata "casa&chiesa" e fece nascere anche tutta una "gadgettistica" prodotta dal sottoscritto: ho disegnato quella meravigliosa talpa bionda ovunque, sui banchi, sugli schienali delle sedie in legno, sulla lavagna di classe, sui libri di testo miei e dei miei compagni. Le vicende narrate nel primo numero erano estremamente chiare:
- Il tutto inizia con Talpwoman a cinque anni, all'inizio della scuola elementare; il terribile Padre Padrone le molla un calcio in bocca e le vieta giochi e distrazioni, urlandole, in francese, <<Non è che l'inizio!>>.
-Dieci anni dopo, nulla è cambiato; incontriamo la Madre (modellata sulla Wendy Koopa dei videogiochi) che addirittura lascia la figlia senza cibo per tre giorni, perchè questa non ha finito i compiti in tempo.
-Vediamo però che Talpwoman, nel suo torpore vegetale e pur vivendo in un totale stato di sottomissione, è innamorata; infatti Gianciccio, romantico teppistello di periferia obeso e ignorante, va a trovarla di nascosto (qui inserii una scena lievemente "shakespeariana", con tanto di balcone).
-Gianciccio e Talpwoman decidono di fuggire con un Ape 50cc, allo scopo di lasciarsi alle spalle questa brutta esistenza piena di errori e imposizioni inutili; il Padre si mette di mezzo, pretende che Talpwoman stia a casa a fare i compiti, ma Gianciccio non è un santo e gli fa esplodere le cervella con una doppietta.
Prime due tavole del primo numero di Talpwoman (aprile 2005)
Devo dire che la vignetta finale (che potete ammirare a sinistra) non fu molto gradita ad alcune persone troppo sensibili; così, alla riunione dove decidevamo i contenuti del nuovo numero del giornalino (il terzo dell'anno scolastico e il più importante, visto che veniva stampato pochi giorni prima della fine della scuola) mi fu chiesto di "ammorbidire" i toni e di essere meno esplicito nelle scene violente. 
Il secondo episodio è ancora più veloce e immediato, ma mette comunque in scena un pesante sviluppo della storia:
- Talpwoman e Gianciccio sono braccati da due mesi; si sono rifugiati in una grande città e sanno di avere la polizia alle costole.
-La Madre di Talpwoman tenta di accordarsi col capo della polizia (il tetro Samuel O. The Rainbow) sulle condizioni della cattura della figlia; lei la vorrebbe "viva e laureata", ma il poliziotto non sente ragioni e dichiara che Talpwoman è una ricercata a tutti gli effetti, da riportare solo morta.
-La Madre, vedova inconsolabile, cede e sembra avere pensieri peccaminosi sul capo della polizia.
-Nel frattempo, Talpwoman e Gianciccio tentano di lasciare la città, ma uno sbirro li riconosce; spara per colpire la donna talpa, ma centra la testa di Gianciccio, che muore sul colpo.
Per ciò che concerne la lavorazione grafica di questo secondo episodio, ho molti ricordi: tanto per cominciare, sembrava che questo terzo numero potesse uscire in un'elegante edizione a colori; non so chi fu il pazzo della nostra sgangerata "redazione" ad avere messo questa voce a giro, ma me ne convinsi e lavorai esclusivamente in vista di un fumetto a colori (come si evince dalla prova di colore che ho messo in cima al post). E poi lavorai molto più velocemente: forse perchè (miracolo!) dovevo studiare e dunque avevo meno tempo a disposizione, o forse perchè dovevamo muoverci nel preparare il terzo numero e stamparlo entro l'ultimo giorno di scuola. Per la prima tavola adottai la furbata della splash-page americana (i palazzi sono copiati da un gigantesco libro di Little Nemo, che in quel periodo leggevo di gusto), mentre nella seconda pagina è possibile notare come gli sfondi siano tutti bianchi e poco curati. 
Poi venne l'estate, e con l'estate il grande vuoto. Da principio, mi salvò un'amica di lunga data, compagna di classe e appassionata lettrice e sostenitrice di Talpwoman: mi domandò cosa avessi in mente per il nuovo anno scolastico, che cosa sarebbe successo alla talpa e che fine le avrei fatto fare. Disegnai un bel capitolo finale (credo fossero un paio di tavole) e le regalai l'unica copia che avevo, cioè l'originale. Ma, verso la fine di luglio, mi trovavo al mare coi miei genitori e fui preso dalla smania di disegnare il vero episodio conclusivo di Talpwoman. Detestando la spiaggia, mi risultava estremamente gradevole rimanere a casa al fresco, assorto nei miei pensieri, nelle mie letture e nei miei ascolti musicali (che all'epoca si riducevano al glam-rock anni '80 e alle sinfonie di Mendelsshon). Il terzo episodio vedeva una Talpwoman sola e delusa, che decide comunque di dare filo da torcere alla polizia e alla madre, che nel frattempo si è accoppiata con un nuovo personaggio (tale Bartholomew). Inizialmente, mi balenò per la testa di farla morire, ma cambiai idea rapidamente; infatti, la storia sarebbe finita con la maturità di Talpwoman. La cosa buffa fu che quando tornai a scuola cambiarono (in meglio) molte cose per me, e diventai direttore del giornalino per l'anno scolastico 2005/2006. Decisi di dedicarmi ad altri fumetti (fra cui il famoso spin-off  dal titolo Gianpoppo&Gianciccio, di cui prima o poi mi piacerebbe parlare qui sul blog) e presi la decisione di non pubblicare il lungo episodio finale della donna talpa. 
Non so perchè lo feci, ma allora (come del resto anche adesso) agivo seguendo l'uccello, e non il raziocinio. Oggi sono tornato ad agire "d'uccello" e ho deciso di pubblicare questa ultima, sudata storia di Talpwoman.







CONTENUTI SPECIALI
Disegni e altro
Immagine pubblicitaria del ritorno di Talpwoman mai utilizzata

Vignetta del 2006 dove Talpwoman fa una comparsata

Autoritratto del 2005 con tanto di Talpwoman

Pensato per l'invito ad una festa in campagna e mai finito, vi compare una Talp-mobile

Talpwoman era talmente importante per me, da meritare addirittura l'acquarello




sabato 5 gennaio 2013

Comics on the road 2013

Fra le molte belle cose che la Scuola Internazionale di Comics mi ha offerto annovero sicuramente l'incontro con Lorenzo Bianchi, artista fiorentino a (quasi) 360° col quale ho avuto modo di stringere da subito un buon rapporto di amicizia, coltivato sia fra i banchi del corso di sceneggiatura che fuori dall'istituto. 
Che ci mettano davanti una pizza (offerta "a turno") alla pizzeria sottoscuola o un Double Big Whooper con tanta cipolla al Burger King, io e Lorenzo parliamo di una sola cosa: fumetti. E non ci limitiamo a dire <<Questa settimana ho letto questo...>> o <<Domani mi arriva questo...>>: parliamo di "fare fumetti", di come riuscire a pubblicare qualcosa, per conto nostro (magari tramite il Plural Vision Studio) o per conto di altri. Questa nostra intesa ci ha spesso portati a spasso per la Toscana (e non solo), rendendoci partecipi appassionati di tutto quello che il panorama delle fiere è in grado di offrire: dalla maestosa Lucca alla più piccola (ma non per questo meno ricca) Prato, è raro che ci sfugga una fiera cui prendere parte. E se il 2012 è stato un anno tutto sommato "discreto" da questo punto di vista, nel 2013 incrementeremo ulteriormente le nostre "gite fuori porta", che finiscono sempre col rivelarsi giornate piacevoli. Si ride, si mangia, si guardano i fumetti, si stringono mani, si scrive, si disegna, si parla di fumetti, si comprano i fumetti. 
Cominceremo domenica 13/01/13 da Empoli e poi ci terremo caldi fino al 26/01/13, quando partiremo alla volta di Arezzo
Stay tuned (on the road)...



venerdì 4 gennaio 2013

[Recensione] La regola del silenzio

Da diversi anni i film di Robert Redford finiscono col piacermi molto: mi è successo nel 2007 con Leoni per agnelli, un paio di anni fa con The Conspirator e oggi replico con La regola del silenzio, un bel thriller uscito lo scorso 20 dicembre.
Attenzione, il film non si limita ad essere il racconto dai ritmi serrati che vede i buoni ex-hippie latitanti (una sfilza di attoroni del calibro di Susan Sarandon, Julie Christie, Sam Elliott, Nick Nolte e lo stesso Redford) scontrarsi contro i cattivissimi agenti federali, ma è molto di più: il meccanismo collaudato ai tempi di Come eravamo (interpretato, guarda caso, da Redford) stavolta si tinge di sangue, di pessimismo e di redenzione. L'azione (molto ben fotografata da Adriano Goldman) sposa le tempistiche del thriller, e il tutto passa attraverso una ricetta non tanto da film politico, quanto da film sulla politica. E' eccitante vedere un avvocato settantenne (vissuto sotto falso nome per trent'anni) tenere in pugno l'FBI e correre per quelli che un tempo furono i luoghi della rivolta giovanile (Big Sur, Flint, ecc.), prendendo coscienza del fatto che la rivolta, per lui e i suoi compagni dell'epoca, non si è spenta, ma ha solo cambiato meccanismi. Se una storia simile l'avessimo adattata ad uno sfondo "italico" avrebbe fatto ridere, per non dire vomitare, ma non pensiamoci: prendiamolo come un film che registicamente riunisce la maestria di Pollack, la smania di "storiografare" di Eastwood e i dialoghi (firmati da Lem Dobbs) del miglior Arthur Penn. Shia LaBeouf se la cava egregiamente nei panni del giornalista "maledettorompicoglioni", anche se in alcuni momenti risente dell'assenza di Optimus Prime sullo schermo. Innocente o colpevole, il personaggio di Redford è comunque un morto che cammina, un disilluso, una persona che ha vissuto più vite e che si è dimenticato la sua vita vera. E se c'è una cosa che davvero amo, è quando il passato viene a cercare certi personaggi.
Dunque ringraziamo ancora una volta Robert Redford, un uomo a cui il cinema deve molto.   

giovedì 3 gennaio 2013

Scene da una filmografia, ovvero pro e contro della nuova edizione italiana dei capolavori di Ingmar Bergman [Album]


Chi mi conosce personalmente o chi ha avuto modo di leggere un paio di miei post qui sul blog avrà avuto modo di evincere la mia grande passione per il cinema scandinavo, e in particolar modo per quello di Ingmar Bergman.
Ora, si dà il caso che 01 Distribution abbia iniziato a dare alle stampe, dallo scorso 21 novembre, moltissimi DVD del maestro svedese, tutti arricchiti da extra di vario genere e finemente impacchettati. Un procedimento analogo era già stato collaudato alcuni anni fa, quando Bim (pure coinvolta in questa ri-edizione) pubblicò una sontuosa Bergman Collection di dieci DVD, comprendente film conosciutissimi accompagnati solo raramente da contenuti inediti interessanti e da dei buoni book interni. A quelle pellicole se ne vanno ad aggiungere oggi molte altre, tutte interamente restaurate dalla Cineteca di Bologna. 
Nota: ogni DVD comprende, fra gli extra, un e-book critico curato dalla Cineteca di Bologna; il prezzo di ogni DVD è di 12,99 €; sono tutti a disco singolo salvo un paio, per un totale di 24 dischi e 32 film.

1- UN'ESTATE D'AMORE (1951)
Forse è il primo film bergmaniano al 100%, rimasto in disparte e ingiustamente bollato come "opera adolescenziale". Da recuperare a tutti i costi.
Extra: il film Città portuale (1948).

2- DONNE IN ATTESA (1952)
Commedia in rosa sui rapporti amorosi; si ride, ma si ride verde. Non un capolavoro, ma di sicuro una delle migliori commedie di Bergman.
Extra: il film Eva (1948) di Gustav Molander, su soggetto e sceneggiatura di Bergman. 

3- MONICA E IL DESIDERIO (1953)
Il matrimonio è la tomba dell'amore. Una teoria sempre molto cara a Bergman, che qui getta i semi delle sue riflessioni sul rapporto fra uomini e donne, sull'adulterio, sull'eros. Per capire con che capolavoro abbiamo a che fare, mi basta dire che senza questo film non sarebbe esistita la Nouvelle Vague. 
Extra: il documentario italiano Bergman e la censura. Il caso "Monica e il desiderio", fortemente sconsigliato ai cattolici.

4- UNA LEZIONE D'AMORE (1954)
Commedia debole già in partenza, non trova arricchimenti in questa nuova edizione home video.
Extra: comprende solo l'e-book critico.

5- SORRISI DI UNA NOTTE D'ESTATE (1955)
Film ricchissimo di contenuti, personaggi e situazioni, è la miglior commedia di Bergman. Da vedere almeno una volta nella vita. 
Extra: il making of Sul set di "Sorrisi di una notte d'estate" e il documentario Bergman e la censura. Il caso di "Sorrisi di una notte d'estate".

6- L'OCCHIO DEL DIAVOLO (1960)
Non dico nulla sul film non avendolo mai visto.
Extra: il documentario/intervista italiano Ritratto di un regista (2008) di Gian Luigi Rondi.

7- FANNY E ALEXANDER (1982)
Uno dei film più belli di sempre: lungo, estremo, meraviglioso, perfetto. Torna finalmente in doppio DVD dopo aver visto la luce in un'edizione molto costosa diversi anni fa (da me segretamente bramata, ma mai ottenuta). Un bellissimo regalo, pensato per chi ama il Cinema.
Extra: il making of Dokument Fanny och Alexander (1986) curato dallo stesso Bergman.

8- CRISI (1946)
Esordio alla regia di Bergman: si tratta di una pellicola difficile da digerire e importante solo per il suo valore storico. Roba da fanatici.
Extra: Sete (1949) di Bergman e Spasimo (1944) di Alf Sjoberg; quest'ultimo film potrebbe quasi valere la spesa di tutto il (doppio) DVD.

9- IL SETTIMO SIGILLO (1957)
Cult-movie che si presenta da solo, in un'edizione restaurata benissimo (la famosa shilouette finale è nitida come non era mai stata) e arricchita (per coloro che se lo gustano in svedese) da sottotitoli in italiano incensurati. 
Extra: il making of Sul set de "Il settimo sigillo" e il documentario Bergman e la censura. Il caso de "Il settimo sigillo".

10- IL VOLTO (1958)
Ispirato dal cinema espressionista tedesco e leggermente snobbato dalla critica nostrana, è il film di Bergman che più si avvicina al thriller nei toni e nei contenuti. Da rivalutare.
Extra: intervista a Max Von Sydow. 

11- LA FONTANA DELLA VERGINE (1960)
Il capostipite dei rape&revenge movies è un'opera dai ritmi impeccabili che ha come sfondo un medioevo violento e primitivo. Oscar come miglior film straniero e censuratissimo in Italia.
Extra: il making of Sul set de "La fontana della vergine" e il documentario Bergman e la censura. Il caso de "La fontana della vergine".

12- COME IN UNO SPECCHIO (1961)
Primo tassello della "trilogia del Silenzio di Dio" (e, se si vuole, della "tetralogia isolana"), è uno dei punti più alti della produzione di Bergman. Un film unico e irripetibile, con un cast come sempre immenso.
Extra: interviste a Max Von Sydow, Gunnar Bjornstrand e un inedito Backstage.

13- LUCI D'INVERNO (1963)
Secondo capitolo della "trilogia", è il miglior film mai fatto sulla figura del sacerdote.
Extra: Sul set di "Luci d'inverno" e Bergman e la censura. Il caso di "Luci d'inverno".

14- IL SILENZIO (1963)
A dieci anni dall'uscita di Monica, Bergman torna ad indagare sull'erotismo: lo fa puntando la luce su un eros meno adolescenziale e più scandaloso, analizzando senza troppo pudore i meccanismi di un tabù come l'incesto. Capitolo conclusivo della "trilogia", è indubbiamente il suo film più kafkiano e fra i più censurati (fino ad oggi, visto che questa è una versione integrale mai portata in Italia).
Extra: il documentario Light Keeps Me Company (2000) di Carl Gustav Nykvist (figlio dell'immenso direttore della fotografia Sven) e Bergman e la censura. Il caso de "Il silenzio".

15- A PROPOSITO DI TUTTE QUESTE SIGNORE (1964)
Film leggero ma curatissimo, questa brillante commedia non sfigurerebbe accanto a qualche excursus metalinguistico di Woody Allen (che non a caso è un accanito sostenitore della pellicola). Notevole.
Extra: il documentario Casa del cinema: Liv Ullmann parla di Bergman e Fellini.

16- PERSONA (1966)
Opera rivoluzionaria, sperimentale, meravigliosa, Persona torna in questa nuova edizione semplicemente imperdibile. Perchè? Perchè è Persona, perchè è un capolavoro che si spiega solo se viene visto.

Extra: comprende solo l'e-book critico.


17- IL RITO (1969)
Il film più "da camera" di Bergman è anche uno dei più teatrali, violenti e crudi (lo stupro finale ne è solo un esempio). Rivalutato solo recentemente, è un autentico tour de force per appena un'ora di durata.

Extra: comprende solo l'e-book critico.


18- SUSSURRI E GRIDA (1972)
Se esistesse un "podio-Bergman", metterei su di esso Il posto delle fragole al primo posto e Sussurri e grida subito dopo: è un'opera che non si limita a portare elegantemente in scena il dolore e l'odio, ma anche a darne una spiegazione, analizzando, separatamente l'una dall'altra, le vite private di quattro donne meravigliose. Come se non bastasse, è uno dei dieci film meglio fotografati della storia del cinema (giustamente, Oscar) e il più grande successo commerciale di Bergman.

Extra: comprende solo l'e-book critico.


19- SCENE DA UN MATRIMONIO (1973)
Tanti lo ritengono sopravvalutato. Per me, è più utile di un mese di sedute psicoanalitiche. Dialoghi da manuale.
Extra: il film televisivo The image makers (2000) di Ingmar Bergman.

20- SINFONIA D'AUTUNNO (1978)
Il primo dei film tedeschi di Bergman è un'opera estremamente attenta alla messinscena, all'uso delle parole e della colonna sonora (una delle migliori, fra le tante belle della sua filmografia): soffre, tuttavia, dell'apporto della recitazione troppo hollywoodiana di Ingrid Bergman (già malata durante le riprese) e di una Liv Ullmann non ai suoi massimi storici come attrice.
Extra: comprende solo l'e-book critico.

21- UN MONDO DI MARIONETTE (1980)
Bizzarro thriller psicologico pensato inizialmente per la televisione, è l'ultimo film del periodo tedesco di Bergman, che lo girò e ambientò a Monaco di Baviera. Spettacolare alternanza fra bianco e nero e colore e almeno due sequenze memorabili (il sogno e il finale in carcere).
Extra: comprende solo l'e-book critico.

22- DOPO LA PROVA (1984)
Dato l'addio al cinema, Bergman approda alla televisione con questo piccolo e meraviglioso omaggio al teatro, il suo primo mestiere e la sua passione più grande. Interpreti clamorosi, personaggi eterni.  

Extra: comprende solo l'e-book critico.

23- IL POSTO DELLE FRAGOLE (1957)
Un'opera d'arte, un capolavoro assoluto. C'è tutto, non gli manca niente e non c'è troppo. 
Extra: il cortometraggio Karin's Face (1984) di Ingmar Bergman, il making of Sul set de "Il posto delle fragole" e Ingmar Bergman e la censura. Il caso de "Il posto delle fragole".

24- A LOVE STORY: LIV & INGMAR (2010)
L'indiano Dheerjai Akolkar indaga sulla storia d'amore fra Liv Ullmann e Ingmar Bergman. Un disco bonus leggermente forzato, ma valido per un extra inedito.
Extra: il documentario ...But film is my mistress (2010), prodotto da Scorsese e diretto da Stig Bjorkman. 

CONCLUSIONE (?)

Questa è una bella raccolta? Lo è senza ombra di dubbio: la qualità audio video è eccellente e gli extra sono validi, soprattutto quelli inediti. Tuttavia...
Tuttavia non cambia il destino di molti capolavori di Bergman estremamente difficili da reperire in DVD nel nostro paese. Ad esempio, tre anni fa la Flamingo Video e Teodora curarono un'edizione che ospitava per la prima volta in home video La vergogna (1968) e Passione (1969), opere molto belle e importanti, facenti parte della "tetralogia isolana" e inspiegabilmente non riproposte da 01. Sempre in questo cofanetto era compresa la prima parte del documentario di Bjorkman inserito come extra nel 24° DVD. Ma ad ogni modo, chi vuole a tutti i costi vedere i film citati sopra, può acquistare tranquillamente il cofanetto di Flamingo Video.
Destino ben più beffardo spetta ai seguenti titoli, famosi ma introvabili: L'ora del lupo (1968), L'adultera (1971), Il flauto magico (1974), L'immagine allo specchio (1976), L'uovo del serpente (1978), Il segno (1986), Vanità e affanni (1997) e il testamento artistico Sarabanda (2002). Insomma, forse si poteva aspettare un po' più tempo, ma fare un'edizione leggermente più completa.