Qualche anno fa, uscii da un cinema pensando che se il film che avevo appena visto fosse stato scritto e diretto da persone che non rispondevano, rispettivamente, ai nomi di Aaron Sorkin e David Fincher sarebbe stato terribile. Quel film era The Social Network: l'ho rivisto almeno altre quattro volte da allora e rimango della mia idea. Ho trasalito quando ho saputo che lo stesso genio (perchè chi ha scritto un dialogo come quello con sui si apre The Social Network un po' genio è per forza) aveva finalmente affrontato l'annoso "caso Jobs" e messo la propria versione dei fatti al servizio di un bravo autore (Danny Boyle). Notizie di questo genere sono quanto di più straordinario potesse giungere alle mie orecchie cinefile: e non perchè ci fosse la necessità di un biopic su Steve Jobs (quale biopic è realmente necessario?), ma perchè mancava quel pizzico di decenza nel portare sullo schermo un personaggio che, nel bene e nel male, ha lasciato la propria firma nel mondo.
Già nel 1999 un primo Steve Jobs di finzione approdava sullo schermo , interpretato da Noah Wyle, in un osceno film televisivo dall'imbarazzante titolo I pirati della Silicon Valley. Nell'agosto 2011, una piccola produzione iniziava a lavorare a un biopic vero e proprio e Jobs- già malato terminale -veniva informato che per il suo ruolo era stato scelto Ashton Kutcher (il che può aver accellerato i tempi della sua malattia). Jobs è uscito nel 2013, mi sono risparmiato i due chilometri che mi separavano dalla sala più vicina a casa e l'ho visto in tv. Alla fine, sembra un brutto fan movie di quelli che proiettano sui muri durante Lucca Comics.
Lo Steve Jobs di Boyle, caratterizzato da un'interpretazione di Fassbender (che, sappiatelo ha tutte le carte per rivaleggiare con il Leo di Revenant) assoluta, intanto, prende una posizione netta: Steve Jobs non è un santo, non è un genio, non è legittimato a fare e dire ciò che farà nelle due ore (e tre scene) del film. Steve Jobs ha un problema serio, ossia il campo di distorsione della realtà (in medicina l'acronimo di questa malattia è RFD). Il film si svolge in tre distinti momenti della sua vita e in tre differenti backstages delle leggendarie e maniacali presentazioni dei suoi prodotti: quella del Mac (1984), quella del NeXT (1988) e quella dell'iMac (1998). Due creazioni su tre rappresenteranno i suoi più grandi fallimenti professionali (e, di conseguenza, umani, vista la sua manifesta incapacità di scindere i due aspetti) e ad essi partecipano, in maniera diversa, amici, colleghi e parenti (la figlia Lisa, riconosciuta solo nel 1986) per dire a Jobs cosa pensano di lui come persona prima ancora che come imprenditore. Il suo vecchio socio e migliore amico Woz (Rogen), il geniale tecnico Andy (Stuhlbarg), il suo ex-capo John (Daniels), la sua ex-compagna Chrissan (la splendida Katerine Waterston di Vizio di forma) e, ovviamente, la figlia Lisa (Jardene). A cercare di tenere insieme tutto senza mai crollare ci pensa l'inossidabile, paziente, premurosa Joanna Hoffman (Kate Winslet da Oscar), assistente personale di Jobs.
Il risultato è un susseguirsi di dialoghi magnifici e cineprese che si muovono incessantemente per corridoi, sgabuzzini, camerini e gabinetti. Sorkin ha ulteriormente affinato le tecniche di script-writing che hanno fatto di The Social Network il grande film che è e alla fine sovrasta tutto: regia, montaggio, musiche, tutto è in secondo piano all'infuori di una grande sceneggiatura e di una squadra- non gigantesca -di bravi attori. Un'opera teatrale, una biografia quasi intesa à la Derek Jarman, dove finalmente per l'uomo Jobs non si celano scuse, giustificazioni o mitizzazioni, ma solo realtà, crudezza e perfino offese.
Solo sul finale traspare un po' di buonismo, Fassbender cede e la tensione si abbassa. Scena muta e un ralenti che- con buona pace di Danny Boyle -puzzicchia di commediola ormonale. Fortuna vuole che alla fine arrivi Dylan (Shelter From The Storm) che davvero porta tutto a casa. Come solo lui sa fare.
Lo Steve Jobs di Boyle, caratterizzato da un'interpretazione di Fassbender (che, sappiatelo ha tutte le carte per rivaleggiare con il Leo di Revenant) assoluta, intanto, prende una posizione netta: Steve Jobs non è un santo, non è un genio, non è legittimato a fare e dire ciò che farà nelle due ore (e tre scene) del film. Steve Jobs ha un problema serio, ossia il campo di distorsione della realtà (in medicina l'acronimo di questa malattia è RFD). Il film si svolge in tre distinti momenti della sua vita e in tre differenti backstages delle leggendarie e maniacali presentazioni dei suoi prodotti: quella del Mac (1984), quella del NeXT (1988) e quella dell'iMac (1998). Due creazioni su tre rappresenteranno i suoi più grandi fallimenti professionali (e, di conseguenza, umani, vista la sua manifesta incapacità di scindere i due aspetti) e ad essi partecipano, in maniera diversa, amici, colleghi e parenti (la figlia Lisa, riconosciuta solo nel 1986) per dire a Jobs cosa pensano di lui come persona prima ancora che come imprenditore. Il suo vecchio socio e migliore amico Woz (Rogen), il geniale tecnico Andy (Stuhlbarg), il suo ex-capo John (Daniels), la sua ex-compagna Chrissan (la splendida Katerine Waterston di Vizio di forma) e, ovviamente, la figlia Lisa (Jardene). A cercare di tenere insieme tutto senza mai crollare ci pensa l'inossidabile, paziente, premurosa Joanna Hoffman (Kate Winslet da Oscar), assistente personale di Jobs.
Il risultato è un susseguirsi di dialoghi magnifici e cineprese che si muovono incessantemente per corridoi, sgabuzzini, camerini e gabinetti. Sorkin ha ulteriormente affinato le tecniche di script-writing che hanno fatto di The Social Network il grande film che è e alla fine sovrasta tutto: regia, montaggio, musiche, tutto è in secondo piano all'infuori di una grande sceneggiatura e di una squadra- non gigantesca -di bravi attori. Un'opera teatrale, una biografia quasi intesa à la Derek Jarman, dove finalmente per l'uomo Jobs non si celano scuse, giustificazioni o mitizzazioni, ma solo realtà, crudezza e perfino offese.
Solo sul finale traspare un po' di buonismo, Fassbender cede e la tensione si abbassa. Scena muta e un ralenti che- con buona pace di Danny Boyle -puzzicchia di commediola ormonale. Fortuna vuole che alla fine arrivi Dylan (Shelter From The Storm) che davvero porta tutto a casa. Come solo lui sa fare.
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