Ho letto Revenant di Michael Punke all'indomani del mio venticinquesimo compleanno, nel novembre 2014. Un bel libro di avventura, moderno, asciutto, fedele alla cronaca storica e assai poco incline al romanticismo e, tantomeno, al filosofico. Nulla di nuovo per chi la storia di Hugh Glass (che nel film è interpretato da un bravissimo Leonardo di Caprio) il trapper già la conosceva. Perchè quando si cresce sognando personaggi come i fumettistici Jed Smith di Rino Albertarelli e Gesuit Joe di Hugo Pratt o il Jeremiah Baker interpretato da Robert Redford in Corvo Rosso non avrai il mio scalpo si finisce con l'imparare un sacco di cose sul grande Nord, i suoi abitanti, i cacciatori di oro e di pellicce, gli indiani, le guerre e altre avventure che aspettano solo di essere trasposte sul grande schermo.
Dal romanzo storico di Punke, Alejandro G. Iñàrritu e lo sceneggiatore Mark L.Smith estrapolano il minimo indispensabile (ovvero quella parte in cui Glass viene aggredito da un orso e, soccorso e abbandonato dai suoi stessi compagni, inizia un lungo viaggio in cui le priorità sono sopravvivenza e vendetta) e aggiungono due particolari di non poco conto: l'omicidio di Hawk, figlio meticcio di Glass, e il rapimento di Powaqa, figlia di un sanguinario capo indiano che farà di tutto pur di riaverla indietro.
Insomma, alla fine la storia è quella di una vendetta, una vendetta indiana a dispetto di quel "la vendetta è nelle mani di Dio" che campeggia sul poster italiota quasi fosse un obbligo "ammiccare" alla divinità nazional-popolare per eccellenza. In compenso, esplicazioni e riferimenti al contesto storico e politico in cui i nativi e gli esploratori si muovevano ad inizio Ottocento nel Nordovest americano sono praticamente nulli (tutte probabilità in più per conquistare uno dei dodici Oscar a cui il film è candidato). Le pesanti inserzioni onirico-visionarie con cui Iñàrritu riempie quei venti, trenta minuti di troppo di Revenant rappresentano due evidenti impossibilità: l'impossibilità di far confluire nel medesimo spazio forma e contenuto (un giochetto che sia in Birdman, che, soprattutto, in Babel, era riuscito in maniera superba) e l'impossibilità di far somigliare il proprio inferno- perchè questo film, in produzione dal 2001, è stato il girone infernale di diversa gente -a un film di Malick, i cui direttori della fotografia (Emmanuel Lubezki) e scenografi (Jack Fisk) Revenant prende in prestito.
L'immensa fortuna del regista messicano risiede non tanto nell'aver portato a termine al meglio un progetto difficile, funestato da mille problemi (non ultimo quello di girare per poche ore al giorno su set canadesi e argentini dove si arrivava anche a -40°) e segnato da un budget che è esponenzialmente aumentato dai 60 milioni di dollari ai 135 finali (fa piacere apprendere che simili cifre non vengano spese solo per coglionate in costume da super-eroi), ma nell'avere dalla propria parte una completa e impeccabile padronanza del mezzo e delle forme cinematografiche. Iñàrritu non è uno sprovveduto: sa che nel cinema l'immagine viene prima di tutto e dunque l'immagine, in Revenant, riesce ad avere la meglio su tutto. Anche su una coppia di attori (Di Caprio e Tom Hardy) straordinaria e ben scritta e su una colonna sonora sottile ma ricercatissima.
Alla fine di tutti gli strazi, le rigenerazioni, le torture, le carni dilaniate, i testicoli mozzati, i cavalli sparati e sventrati, i martiri, i tradimenti e i deliri, quel che resta di Revenant sono:
- il primo quarto d'ora, dove neanche mezza inquadratura va sprecata.
- gli ambienti e le ricostruzioni di Fisk, che qua lavora anche meglio che in The New World (il film di Malick che comunque continuo ad amare di meno).
- un combattimento uomo-orso di inaudita ferocia che nessuno riuscirà mai più a girare.
- la luce naturale dei set (e con essa i cieli stellati del grande Nord, le aurore, i fuochi, i rumori).
- l'uso che fa Lubezki della camera digitale Alexa 65 mm fatta costruire dalla Arri appositamente per questo film, pensata per un ricorso incessante alle inquadrature dal basso e ai campi larghi e autentica sorgente delle meraviglie di questo film (io l'Oscar lo darei a lei).
Dal romanzo storico di Punke, Alejandro G. Iñàrritu e lo sceneggiatore Mark L.Smith estrapolano il minimo indispensabile (ovvero quella parte in cui Glass viene aggredito da un orso e, soccorso e abbandonato dai suoi stessi compagni, inizia un lungo viaggio in cui le priorità sono sopravvivenza e vendetta) e aggiungono due particolari di non poco conto: l'omicidio di Hawk, figlio meticcio di Glass, e il rapimento di Powaqa, figlia di un sanguinario capo indiano che farà di tutto pur di riaverla indietro.
Insomma, alla fine la storia è quella di una vendetta, una vendetta indiana a dispetto di quel "la vendetta è nelle mani di Dio" che campeggia sul poster italiota quasi fosse un obbligo "ammiccare" alla divinità nazional-popolare per eccellenza. In compenso, esplicazioni e riferimenti al contesto storico e politico in cui i nativi e gli esploratori si muovevano ad inizio Ottocento nel Nordovest americano sono praticamente nulli (tutte probabilità in più per conquistare uno dei dodici Oscar a cui il film è candidato). Le pesanti inserzioni onirico-visionarie con cui Iñàrritu riempie quei venti, trenta minuti di troppo di Revenant rappresentano due evidenti impossibilità: l'impossibilità di far confluire nel medesimo spazio forma e contenuto (un giochetto che sia in Birdman, che, soprattutto, in Babel, era riuscito in maniera superba) e l'impossibilità di far somigliare il proprio inferno- perchè questo film, in produzione dal 2001, è stato il girone infernale di diversa gente -a un film di Malick, i cui direttori della fotografia (Emmanuel Lubezki) e scenografi (Jack Fisk) Revenant prende in prestito.
L'immensa fortuna del regista messicano risiede non tanto nell'aver portato a termine al meglio un progetto difficile, funestato da mille problemi (non ultimo quello di girare per poche ore al giorno su set canadesi e argentini dove si arrivava anche a -40°) e segnato da un budget che è esponenzialmente aumentato dai 60 milioni di dollari ai 135 finali (fa piacere apprendere che simili cifre non vengano spese solo per coglionate in costume da super-eroi), ma nell'avere dalla propria parte una completa e impeccabile padronanza del mezzo e delle forme cinematografiche. Iñàrritu non è uno sprovveduto: sa che nel cinema l'immagine viene prima di tutto e dunque l'immagine, in Revenant, riesce ad avere la meglio su tutto. Anche su una coppia di attori (Di Caprio e Tom Hardy) straordinaria e ben scritta e su una colonna sonora sottile ma ricercatissima.
Alla fine di tutti gli strazi, le rigenerazioni, le torture, le carni dilaniate, i testicoli mozzati, i cavalli sparati e sventrati, i martiri, i tradimenti e i deliri, quel che resta di Revenant sono:
- il primo quarto d'ora, dove neanche mezza inquadratura va sprecata.
- gli ambienti e le ricostruzioni di Fisk, che qua lavora anche meglio che in The New World (il film di Malick che comunque continuo ad amare di meno).
- un combattimento uomo-orso di inaudita ferocia che nessuno riuscirà mai più a girare.
- la luce naturale dei set (e con essa i cieli stellati del grande Nord, le aurore, i fuochi, i rumori).
- l'uso che fa Lubezki della camera digitale Alexa 65 mm fatta costruire dalla Arri appositamente per questo film, pensata per un ricorso incessante alle inquadrature dal basso e ai campi larghi e autentica sorgente delle meraviglie di questo film (io l'Oscar lo darei a lei).
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