Tre album sono sufficienti per scorgere la costanza ossessiva con cui, nella musica di Lucinda Williams, la Morte è trapiantata altrove (West, il doppio capolavoro Down Where The Spirit Meets The Bone e questo ultimo The Ghosts Of Highway 20). Nella sua voce e nella sua mente, stavolta, va in scena il funerale del padre poeta recentemente scomparso, mentre il dolore scalfisce i solchi dei nastri ricorrendo a incubi, racconti e visioni (ghosts). West, introducendo il tema dell'amore naufragato e dell'elaborazione del lutto per la morte della madre, conteneva viaggi e spostamenti che si condensavano nel titolo e nell'effettistica allucinatoria del missaggio finale (alcuni pezzi sembrano prodotti da Daniel Lanois). In DWTSPMTB la poetica paterna veniva in primo piano (la traccia di apertura è una poesia del padre) per accompagnare l'autrice in un'ascensione ribaltata, laddove ossa e spirito, materiale e immateriale, si compenetrano e si annientano nel placido canto funebre per J.J. Cale, di cui, come ultima traccia, veniva intonata la più bella Magnolia di sempre.
The Ghosts Of Highway 20 è più terreno e meno spirituale del suo fortunato e doppio predecessore. La Williams- mai stata così disinteressata alla papabile commercialità di un proprio disco -gioca come voce fuori campo per i racconti di altri outsiders e per le storie raccolte in quella lingua di asfalto che scende dal South Carolina fino al Texas e che risponde al nome di Interstate 20. Già in Dust le chitarre di Greg Leisz e Bill Frisell conducono l'ascoltatore ai bordi di un sentiero selvaggio. Non tanto un sentiero della Storia o- come nel caso dell'altro grande fantasma, il Ghost Of Tom Joad springsteeniano (ma prima fordiano e prima ancora steinbeckiano) -del Cinema, ma della Musica. Il sentiero dell'interstatale 20 di Lucinda Williams sconfina nel territorio del Country, si parla di case da costruire, mutui da pagare, mariti, mogli, figli e routine. La cantante condivide queste tematiche con i vari Steve Earle, John Hiatt, Bruce Springsteen (la cui firma è qui presente nella cover di Factory), Townes Van Zandt e Guy Clark, fino ad andare ad abbracciare gli antichi spiriti di Hank Williams e Johnny Cash o il mood produttivo di un T-Bone Burnett (che con Lucinda, però, non ha mai lavorato). La rinuncia alle finezze del pregevole e metropolitano Blessed e alle sconfinate libertà autoproduttive di DWTSMTB non pregudica eccessi, sprechi o mancanze di controllo nella cabina di regia. C'è un gusto quasi retrò negli arrangiamenti delle lunghe, epiche Louisiana Story, Ghosts Of Highway 20 e Faith&Grace, perfettamente distribuite lungo tutto l'album. Completamente affondata nelle proprie radici sudiste, Lucinda paga i propri debiti verso gli oscuri cantori delle paludi in pezzi come Death Came e Can't Close The Door On Love e risente più che in passato della difficoltà di situarsi dentro i generi (ma anche questo fa parte del suo fascino). I suoi fantasmi, a cui solo da ultimo è andato ad aggiungersi quello del padre, sembrano essere memorie che si stratificano disco dopo disco, prendendo posto all'interno di un grande quadro in movimento che è la musica americana. Più che la famiglia (autentico tema portante del suo massimo successo Car Wheels On A Gravel Road) qua trovano spazio i rapporti di parentela, drammatici e convenzionali (House Of Heart, Bitter Memory), e un modo di vivere l'amicizia (Place Of My Heart, Doors Of Heaven) che rinvia a percorsi solitari, primordiali, mitici e a confronti essenziali che trovano uno sfondo comune proprio sulla Highway 20.
E i musicisti? Leisz e Frisell sono passati da un disco di guitar rock ad un altro pianeta in cui non mancano assoli profondi e spigolosi. Ogni tanto sbuca Val McCallum, ma mai per affiancarsi ai due masters. Un paio di riempitivi e un certo piattume nella sezione ritmica riportano l'opera della Williams a una condizione più "umana" delle ultime prove in studio. Si percepisce un'incertezza quasi programmatica in tutto The Ghosts Of Highway 20 e che, fondamentalmente, mina quei due, tre momenti divini del disco. La sicurezza con cui Lucinda dapprima scarnifica e spella la hit springsteeniana trascinandola, sanguinante, sulla prateria riconferma la sua straordinaria abilità di cantastorie, mentre il lento incedere dei tredici minuti di Faith&Grace dimostra che siamo davvero approdati alla fine del Sogno Americano.
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