Non deve essere semplice raccontare al cinema, per l'ennesima volta, il trauma che ossessiona di più gli Stati Uniti (e in generale l'Occidente) negli ultimi anni: il crollo del sistema economico (o "il default, o la crisi del capitalismo, o come vi pare). Ancor più dura deve essere riuscirci utilizzando i toni della commedia, magari quella un po' assurda e cara ad un autore come Adam McKay che per anni ne ha scritte e girate di ottime (i due Anchorman, Rick Bobby e lo sbellicante I poliziotti di riserva) e che proprio di banche, soldi e imbrogli ha voluto parlare nel nuovo La grande scommessa.
E' un film strano La grande scommessa, di quelli che fanno ridere e riflettere allo stesso tempo (una materia a cui ormai siamo tendenzialmente poco abituati). Ad esempio, per il primo quarto d'ora mi è rimasto sulle palle. Quel modo di girare veloce, con l'odioso narratore (Ryan Gosling) che emula il Jordan Belfort/Di Caprio e il regista che si appropria di uno stile e un linguaggio che davvero non è il suo mi ha dato noia. Poi compare Christian Bale nei panni di un neurologo sociopatico con l'occhio di vetro, un gran fiuto negli affari e Blood And Thunder dei Mastodon sparata nelle cuffiette e subito arriva il primo Personaggio, la prima idea degna McKay. Egli è Michael Burry, l'uomo che già nel 2005 aveva fatto (bene) i conti e aveva scommesso più di un miliardo di dollari contro il sistema economico americano. Ma non è finita, perchè di lì a poco compare pure quel camaleonte umano di Steve Carell nei panni di Mark Baum, ebreo devoto al dio denaro e al Capitale piuttosto che alla Torah, tanto furbo nel proprio mestiere quanto mediocre come marito (grande Marisa Tomei, confinata nell'angolo della moglie insofferente). Il film subisce poi più di un arresto brusco, specie quando tenta di approfondire la materia economica di cui si burla: sigle, numeri, percentuali, swamp, subprime, tutte queste formule con cui una discreta fetta di mondo civilizzato è stata e viene sonoramente presa per il culo. Geniale e apprezzabilissima l'idea di farle spiegare, inizialmente, dalla Margot Robbie nuda dentro una vasca da bagno e intenta a bere Dom Perignon, ma quando la scenetta inizia a ripetersi e la splendida Margot viene rimpiazzata da chef, filosofi e perfino pop-star disneyane (Selena Gomez) il meccanismo annoia e rischia di far andare tutto in vacca. D'altro canto, però, arriva quel fenomeno di Brad Pitt (co-produttore della pellicola) che è un vero mago, soprattutto quando si tratta di interpretare se stesso (anche in 12 anni schiavo interpretava se stesso a metà Ottocento) e di piazzare il miglior personaggio del film dopo quello di Bale: un ex-banchiere che ha lasciato Wall Street per il Colorado, coltiva verdure insieme alla moglie, giudica i sementi più importanti dei bond e rincorre il sogno americano al contrario, "senza applausi o fischi".
Ci sono parti spassose (lo spezzone del team di Baum in Florida) e altre davvero mal congegnate (la fase della convention di Las Vegas), fattori che fanno di La grande scommessa un film che rischia di passare dal geniale al superfluo in due inquadrature. Criticabile, troppo lungo (130' di cui 20 tagliabili) e con attori da strangolare (lo stesso Ryan Gosling torna alla recitazione dopo anni in un ruolo scopiazzato e assai poco adatto alle sue corde). Eppure, se ci si limita a penderlo come una grandiosa farsa su una società autologorata che vanta almeno due personaggi da Oscar, una colonna sonora assemblata come poche altre in circolazione (è stato bello risentire Money Maker di Ludacris e Pharrell Williams o Crazy degli Gnars Barkley, o i Gorillaz di Feel Good, inc., per non parlare dei Metallica di Eye Of The Beholder, senza contare il fatto che qua dentro trovano spazio anche Sweet Child O'Mine dei Guns N'Roses , By Demons Be Driven dei Pantera, Rockin'In The Free World di Neil Young e, dulcis in fundo, quel granitico capolavoro che è When The Leeve Breaks dei Led Zeppelin) e uno script equamente diviso fra grasse risate e nozionismo, beh, se ne può ragionare.
E' un film strano La grande scommessa, di quelli che fanno ridere e riflettere allo stesso tempo (una materia a cui ormai siamo tendenzialmente poco abituati). Ad esempio, per il primo quarto d'ora mi è rimasto sulle palle. Quel modo di girare veloce, con l'odioso narratore (Ryan Gosling) che emula il Jordan Belfort/Di Caprio e il regista che si appropria di uno stile e un linguaggio che davvero non è il suo mi ha dato noia. Poi compare Christian Bale nei panni di un neurologo sociopatico con l'occhio di vetro, un gran fiuto negli affari e Blood And Thunder dei Mastodon sparata nelle cuffiette e subito arriva il primo Personaggio, la prima idea degna McKay. Egli è Michael Burry, l'uomo che già nel 2005 aveva fatto (bene) i conti e aveva scommesso più di un miliardo di dollari contro il sistema economico americano. Ma non è finita, perchè di lì a poco compare pure quel camaleonte umano di Steve Carell nei panni di Mark Baum, ebreo devoto al dio denaro e al Capitale piuttosto che alla Torah, tanto furbo nel proprio mestiere quanto mediocre come marito (grande Marisa Tomei, confinata nell'angolo della moglie insofferente). Il film subisce poi più di un arresto brusco, specie quando tenta di approfondire la materia economica di cui si burla: sigle, numeri, percentuali, swamp, subprime, tutte queste formule con cui una discreta fetta di mondo civilizzato è stata e viene sonoramente presa per il culo. Geniale e apprezzabilissima l'idea di farle spiegare, inizialmente, dalla Margot Robbie nuda dentro una vasca da bagno e intenta a bere Dom Perignon, ma quando la scenetta inizia a ripetersi e la splendida Margot viene rimpiazzata da chef, filosofi e perfino pop-star disneyane (Selena Gomez) il meccanismo annoia e rischia di far andare tutto in vacca. D'altro canto, però, arriva quel fenomeno di Brad Pitt (co-produttore della pellicola) che è un vero mago, soprattutto quando si tratta di interpretare se stesso (anche in 12 anni schiavo interpretava se stesso a metà Ottocento) e di piazzare il miglior personaggio del film dopo quello di Bale: un ex-banchiere che ha lasciato Wall Street per il Colorado, coltiva verdure insieme alla moglie, giudica i sementi più importanti dei bond e rincorre il sogno americano al contrario, "senza applausi o fischi".
Ci sono parti spassose (lo spezzone del team di Baum in Florida) e altre davvero mal congegnate (la fase della convention di Las Vegas), fattori che fanno di La grande scommessa un film che rischia di passare dal geniale al superfluo in due inquadrature. Criticabile, troppo lungo (130' di cui 20 tagliabili) e con attori da strangolare (lo stesso Ryan Gosling torna alla recitazione dopo anni in un ruolo scopiazzato e assai poco adatto alle sue corde). Eppure, se ci si limita a penderlo come una grandiosa farsa su una società autologorata che vanta almeno due personaggi da Oscar, una colonna sonora assemblata come poche altre in circolazione (è stato bello risentire Money Maker di Ludacris e Pharrell Williams o Crazy degli Gnars Barkley, o i Gorillaz di Feel Good, inc., per non parlare dei Metallica di Eye Of The Beholder, senza contare il fatto che qua dentro trovano spazio anche Sweet Child O'Mine dei Guns N'Roses , By Demons Be Driven dei Pantera, Rockin'In The Free World di Neil Young e, dulcis in fundo, quel granitico capolavoro che è When The Leeve Breaks dei Led Zeppelin) e uno script equamente diviso fra grasse risate e nozionismo, beh, se ne può ragionare.
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