Jake Gyllenhaal è il protagonista di uno dei thriller più belli e meno considerati degli ultimi anni, e cioè Source Code (2011) di Duncan Jones. Sempre pensado a lui, mi viene in mente anche un altro thriller notevole, ossia Zodiac (2006) di Fincher. Insomma, il nome di Gyllenhaal è indissolubilmente legato al thriller d'autore di questi vuoti anni duemila, dove il cinema americano- all'infuori di nomi che stanno sulle dita di una mano -sta veramente attraversando un brutto periodo.
La domanda è: quanti thriller americani escono durante una stagione cinematografica? Centinaia. Quanti rimangono impressi nel cervello di un cinefilo? Meno di dieci. Ecco, Prisoners di Denis Villeneuve è e resterà uno di quelli (forse proprio perchè non è l'americanata e che l'autore è canadese). Anzi, è di più: è uno dei film più belli in circolazione nelle ultime settimane. Trovatelo, vedetelo, rivedetelo (una volta non basta). Tanto per cominciare, è girato magistralmente (fotografia del "britishissimo" Roger Deakins), interpretato da un Gyllenhaal più bravo del solito e da un Hugh Jackman sotto le righe e dunque sopportabile. Siamo davanti all'ennesimo film dove rapiscono una bambina e il padre violento e reazionario fa trionfare la giustizia privata? Assolutamente no. Siamo su un altro pianeta, un pianeta dove un problema come la pedofilia è affrontato come forse nessun'altra pellicola prima di Prisoners aveva osato. Il dolore, lo strazio, le difficoltà sfondano lo schermo, si riversano sotto la pelle di chi assiste, impotente, alla tragedia(un po' come accadeva già in Changeling di Eastwood). Da una parte, dunque, la denuncia sociale senza filtro; dall'altra, un ritmo da thriller di alto, altissimo livello. Purtroppo non sento parlare abbastanza di questo film (tolto dai cartelloni a tempo record): ma il pubblico smania di vedere Jennifer Lawrence con l'arco infuocato in mano, e allora fanculo!
Concludo lodando la colonna sonora di Jòhann Jòhannsson, conosciuto dagli appassionati di elettronica come fondatore degli Apparat Organ Quartett: a riconferma che la migliore musica al mondo ormai viene dall'Islanda, anche quella per il cinema.
VS.
Per una serie di "sfortunati eventi", non amo il cinema di denuncia italiano: lo trovo piagnone, sterile, vittimista, inutile, politicizzato male, ruffiano. Forse è per questo che, contro ogni mia previsione, mi sono goduto e ho apprezzato La mafia uccide solo d'estate di Pierfrancesco Diliberto (meglio conosciuto come Pif), noto per la trasmissione Il testimone, in onda su MTV da diversi anni. L'idea alla base di questo esordio cinematografico è semplice: prendere il proprio bagaglio di esperienze legate alla mafia (e Pif, da palermitano, qualcosa da raccontare ce l'ha) e intrecciarlo con una commedia popolare ricca di personaggi eccentrici e battute folgoranti. E il gioco riesce bene, anche perchè sembra che Pif sappia esattamente cosa dire e come dirlo, senza freni e censure. Per questo motivo il film, quando vuole, sa essere divertente, e un attimo dopo imprevedibilmente crudo, realista e- perchè no -anche commovente. Inoltre, gli va dato atto di portare sullo schermo interpreti (soprattutto i bambini che occupano tre quarti della durata) bravissimi e di occuparsi di un tema scomodo senza risultare un film "comodo", gentile e politicamente corretto. Dimenticatevi Johnny Stecchino e dimenticatevi di quei pagliacci che, nel tempo di un battere di ciglia, passano dalla televisione al cinema senza alcun merito e per parlare solo di baggianate (mi riferisco a Fabio Volo come ad una miriade di altri mentecatti): Pif è il primo che compie questo passaggio con onestà, modestia e sobrietà. E non lo avrei mai detto, da spettatore che diffida da sempre di questo genere di cose.
Cercate la commedia pre-natalizia leccaculo e democristiana? State alla larga da La mafia uccide solo d'estate: nulla è più lontano dall'imperante democristianità culturale di questi anni.
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