★★★★
Negli ultimi anni, il pubblico dei Sigur Ròs si è notevolmente intamarrito. Ulula, urla, brandisce gli smartphone al posto degli accendini: è sintomo di frustrazione, una frustrazione dettata anche solo dal fatto che ventenni immersi in magliette di dubbio gusto e con Camper puzzolenti ai piedi non sanno cantare in islandese. Chi sogna un palco dove Chris Martin finisce la voce dopo quattro canzoni ed è il pubblico a dover intonare stornelli britannici di bassa lega non ha speranze di comprendere l'essenza del rock contemporaneo, e può dunque saltare a pie' pari questa recensione. Perchè i Sigur Ròs sono il rock contemporaneo.
Partiamo subito col dire che l'Islanda è attualmente il paese da cui arriva la migliore concentrazione di musica del mondo. Mentre la triste retrograda middle-class musicale nostrana sbava pensando al ritorno in studio dei Black Sabbath e sostiene che il vero rock d'autore del momento lo facciano i Muse, i Sigur Ròs pubblicano Kveikur, loro settimo album in studio. Ad un anno esatto dal più recente capolavoro Valtari, a cinque dal passo falso (che tuttavia scalò le classifiche meglio di tutti gli altri) Með suð í eyrum við spilum endalaust, e a quattordici dall'esordio Vonn, la band capitanata dal cantante e chitarrista Birgisson è ancora in grado di meravigliare e, soprattutto, di evolversi. Infatti, con i nove brani di Kveikur (che si distingue, con i suoi 48 minuti di durata, per la sua brevitas) la band torna ad affrontare- anche se partendo da spunti differenti e a undici anni da () (è il loro disco più bello nonchè l'album rock più importante degli ultimi vent'anni, e se non lo conoscete potete solo vergognarvi) -quel continente inesplorato che noi siguròsiani definiremo "del Post". Tutto, già nel singolo Brennistein pubblicato a marzo, è pienamente "post-": musica post-rock, post-ambient, ma anche, grande novità, post-metal. Così, la durata media dei brani si abbassa, aggirandosi sui quattro, cinque minuti, e il suono diventa più cattivo, più pesante, più oscuro (a momenti, fin troppo). Se () era il manifesto di una terra misteriosa dove, a momenti, si aprivano scenari di inattesa e rilassata bellezza, Kveikur esplora il lato oscuro di quella stessa terra, spalando detriti sotto cui si celano segreti inquietanti e orrorifici. La copertina fa paura, le canzoni fanno paura, annullando tutto quello che fanno questi gruppetti deathblackfuckingsatanickillingmetal scandinavi che da vent'anni fanno casino e, detto in tutta sincerità da uno che non ha problemi di mente, hanno rotto il cazzo. E anche se i Sigur Ròs migliori rimangono quelli più meditativi di Valtari e che ai concerti pretendono ancora un religioso silenzio nonostante il pubblico peggiori di anno in anno, Kveikur convince, trovando in Brennistein, Yfirboro, Rafstaumur e nella title-track dei meravigliosi punti di forza, che danno ulteriore lustro a quello che è sound sempre avanti e che non trova ancora la dovuta comprensione non tanto per colpa della band, quanto per colpa di ascoltatori bovini, prigionieri di ascolti ormai sbagliati.
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