PREMESSA
Visto che mi sono promesso di pubblicare almeno un racconto al mese, ho pensato a qualcosa di carattere natalizio, ma mi sono accorto di non avere mai scritto nulla a riguardo. Così, ho rovistato fra le cartelle più "polverose" del Mac, ripescando Il manipolatore dell'anima, presentato in occasione del concorso letterario Don Muzzi, indetto dalla Banca di Monteriggioni (ora Banca del Chianti o qualcosa del genere) nel 2008. Il tema del concorso di quell'anno era Io e gli altri. Lo scrissi in un paio d'ore in classe, in una mattina fredda come questa e con molta più rabbia in corpo. E vinsi.
Buona lettura.
IL MANIPOLATORE DELL'ANIMA
All’ultimo piano
dell’ultimo palazzo dell’ultimo quartiere, nell’ultimo, estremo
lembo del mondo conosciuto, la luce settembrina si rifletteva sulle
finestre, chiuse a tutto ciò che potesse, in qualche modo,
rassomigliare alla vita. Lucidai quattro bicchieri e li posai sul
tavolo di noce al centro del salotto, sicuro che, di lì a poco,
avrei ricevuto visite. La visita era per me un concetto piuttosto
sbiadito, giacché i pochi amici di cui avevo deciso di circondarmi
si erano trasferiti da tempo, alla ricerca della fortuna e della
vita, nelle grandi città, lontano dalla costa sulla quale io
risiedevo. I contatti con loro erano andati quasi totalmente persi,
ma, ogni tanto, qualcuno si rifaceva vivo, fintamente desideroso di
aggiornamenti sul mio stato emotivo e sul mio lavoro. Quasi sempre li
sentivo ansiosi, preoccupati per me, che, in tutta franchezza, non
avevo problemi di alcun tipo, né provavo invidia nei confronti di
nessuno, essendo quasi privo di termini di paragone e di modelli
migliori in cui potermi specchiare: semplicemente, ero voluto tornare
nella casa che mi aveva visto nascere, alla ricerca dei suoni
dell’infanzia, intimamente nascosti tra i flutti del Mediterraneo.
Altrove non ero mai stato felice: lo dimostrava quell’atroce
sensazione di smarrimento sociale in cui mi ero imbattuto sin dagli
anni della scuola superiore e che, all’università, era andata
accrescendosi in maniera preoccupante.
Allora
frequentavo una facoltà di elettronica, scelta a causa dei miei
istinti di manipolatore di suoni, e vivevo quotidianamente in bilico
fra euforia e insofferenza, rifiutando ogni rapporto con i miei
compagni. Quando mi accorsi che non potevo convivere neanche con me
stesso, decisi di andarmene. Non mi ero neanche sforzato di legare
con altri esseri umani, anche perché relazionarmi con cose o persone
nuove significava alimentare sospetti troppo dannosi alla psiche.
Scettico lo ero sempre stato, sin da bambino. Per il mio decimo
compleanno ricevetti in regalo un pianoforte a coda, poiché i miei
avevano già notato la mia predilezione per la musica; e non
dimenticherò mai le loro facce mentre mi osservavano battere non sui
tasti, ma direttamente sulle corde, apprezzando notevolmente il suono
emesso: ora potevo fidarmi di lui. Un evento simile si verificò per
i miei sedici anni, quando comperai il primo sintetizzatore, che non
volli nemmeno provare, preferendo afferrare un cacciavite in garage
per smontarlo e manomettere la sua logica interna. Come avevo fatto
con questi strumenti, così mi piaceva comportarmi con la gente: la
aprivo, tentando di adattarla perfettamente ai miei gusti, di
manomettere la sua anima e il suo cervello. Quando capii di aver
fallito in questi miei propositi, allora decisi che avevo chiuso con
la socialità e che potevo ritirarmi, solo e senza alcun titolo di
studio, a registrare suoni. Coloro che erano definibili miei amici
risultavano essere, in realtà, delle splendide radio o televisioni,
che mi tenevano aggiornato su quanto stava accadendo nel mondo
intorno a me. Catalogavo in un archivio i loro nomi, i loro dati, una
breve nota biografica e alcune foto; poi, quando ne avevo voglia,
aprivo queste cartelle e davo dei voti da 1 a 5, congetturando su
quale sarebbe stata la loro residenza ultramondana: Inferno,
Purgatorio o Paradiso?
Scrissi
su un’agenda i nomi dei miei ospiti di quella sera: persone di
modesta levatura umana, ma ben piazzate nella società dalla quale
ero fuggito. Provai una strana sensazione, come se stessi aspettando
da anni questo momento. Mi sedetti, rigirandomi fra le mani l’Anabasi
di Senofonte, sfogliai quel volume che avevo letto più volte in
gioventù e mi accorsi, in quel preciso istante, che era da
moltissimo tempo che non sentivo la mia voce. Socchiusi le labbra e
iniziai a leggere: l’attenzione si posò interamente sul mio tono,
sulla mia stessa voce, ignara di ciò che stavo dicendo. Il suono che
emettevo mi stava entusiasmando, poiché avevo capito che, pur stando
da solo, riuscivo a fare qualcosa che, solitamente, avevo sempre
eseguito in compagnia. Ero felice e mi dimenticai quasi dell’impegno
preso con gli amici. Misi da parte i nastri registrati che andavano
accumulandosi nello studio, spolverai il piccolo busto in marmo di
Bach, raddrizzai il ritratto di Peter Bruegel appeso alla parete del
salotto e ordinai simmetricamente le sedie intorno al tavolo,
dopodiché riposi sulle mensole i molti volumi sparsi per tutta la
casa: mi passarono di fronte agli occhi Pascoli, Pasolini,
Wittgenstein, Pennac, Musil, Sartre, Joyce, Ariosto e Petrarca, e li
amai tutti, considerandoli i miei soli e veri amici. Per tre volte
udii sonori battiti sulla porta e capii che gli ospiti erano
arrivati. Per un attimo tornai alla realtà ma subito ripresi a
immaginare: immaginai queste tre persone che mi tenevano compagnia
per un tè, che mi pregavano di far loro visitare l’appartamento,
che mi interrogavano sul perché di certi miei indumenti, che mi
criticavano come un artista disturbato e disturbante, che mi
definivano un eremita, che mi tempestavano di domande sul mio attuale
lavoro, che mi raccontavano dei loro affari cittadini, che mi
riferivano con pervertito divertimento dei loro esperimenti sessuali,
che mi chiedevano come mai non trovassi una moglie, che mi
consigliavano l’ultimo libro o l’ultima canzone. Allora mi
accorsi che non avrei mai sopportato tutto questo. Preferii così
fare finta di non esistere e non aprii.
Non
avevo nulla contro di loro e non mi ero mai ritenuto un misantropo,
ma semplicemente un individuo scontento di se stesso. Essi, invece,
mi avrebbero parlato di una vita felice, calata per me in una società
malsana, sbagliata, da rifare. Bevvi un po’ di vino bianco, sicuro
che i miei ospiti non si sarebbero offesi per non essere stati
ricevuti e che a casa avrebbero mangiato meglio che da me, per poi
raccontare alle mogli quanto secondo loro fossi folle, perso,
scontento, infelice. Andai a letto, cercando di capire cosa gli altri
potessero provare pensando a me. Affiorarono idee troppo profonde da
analizzare per un uomo che stava sprofondando nel mondo dei sogni.
Liquidai la giornata, la vita e le amicizie con un terribile
pensiero, ossia che l’universo è solo una
casualità moralmente vuota e di inimmaginabile violenza.
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