IL PRE-CONCERTO.
Bob Dylan @ Pala Malaguti, Bologna, 10/11/2005 |
Bob Dylan @ Pistoia Blues, Pistoia, 15/7/2006 |
Copertina del bootleg fiorentino Return to Me, Bella Mia (2009) |
Dylan & The Dead (qualche anno dopo...) |
IL CONCERTO.
Scelgo una maglietta dei Grateful Dead per il concerto. Non amo le etichette, ma so che Jerry Garcia approverebbe e quindi agisco di conseguenza. Se si ama Dylan, è impossibile prescindere dal filo rosso che lo collega ai Dead e viceversa. Data la vicinanza e le condizioni di organizzazione "umane" del Mandela Forum, abbiamo deciso di rinunciare a farci spedire i biglietti a casa e optato per la formula del ritiro sul posto. Ragion per cui, appena parcheggiato Ginetta lungo viale Manfredo Fanti- sul lato di fronte al palasport -ci mettiamo subito in cerca di due cose: la biglietteria che sulla mail viene indicata come "ingresso B" e un paio di birre gelate. Facciamo il giro del palazzetto, ci imbattiamo in un inserviente che ci spiega che di ingressi ce ne è uno solo e che di conseguenza anche la biglietteria è unica. A parte questo dettaglio, la scelta si rivela vincente: la biglietteria ha sei sportelli di cui quattro liberi e sorge dirimpetto a quei chioschini dove una birra e un panino costano più di un week-end a Ortisei in alta stagione. Come ho scritto all'inizio, non sono un novellino e questo è il mio quarto concerto al Mandela. Mostro un documento e i biglietti sono in mano nostra: ordiniamo due birre e brindiamo a loro, a Bob, alla serata, alla vita. Sofi mi scatta una foto di fronte alla cancellata. Butto un occhio all'unica bancarella installata fuori, mentre tutto attorno a noi inizia a stringersi un pubblico che per certi versi trovo perfino più eterogeneo (e senza ombra di dubbio meno caciarone) di quello presente a Lucca per i Rolling Stones. Adocchio una maglietta della Triumph Motorcycles che altro non è che la replica di quella che Bob indossa nella copertina di Highway 61 Revisited, ma poi penso a quanto in realtà le Triumph mi facciano cacare e torno sui miei passi. La compagine bikers del pubblico è bella nutrita: tutti membri di alcuni Harley Davidson Club del centro-nord. Nessun fracasso: si tratta perlopiù di padri di famiglia o pensionati che amano stare fra di loro, "in branco". Anfetamine, stecche da biliardo, coltelli e altra roba sono rimasti sul set di Sons of Anarchy, ma vederli in un numero così nutrito fuori dalla cancellata di un concerto di Bob dà tutto un altro sapore alla vicenda.
Verso le 20:00 ci presentiamo al gate che conduce alla balconata e alla sopraelevata. Una ragazza che arriva a fatica a diciotto anni chiede a Sofi di porgerle la borsetta: una rapida controllata, mentre il mio giubbino di ecopelle nera neanche viene considerato. Nessun metal detector, nessuna perquisizione mirata alla sottrazione di acqua e cibo (tutto per farteli ricomprare dieci metri dopo i cancelli a un prezzo cinque volte superiore). Totale rilassatezza, con l'eccezione di un dettaglio che chi è un po' ferrato su ciò che ruota attorno al NET conosce bene: l'assoluto divieto di fare fotografie e video all'interno. Nessuno, specie negli ultimi anni, è mai stato così stupido da andare a vedere Dylan portandosi dietro attrezzatura professionale o semi-professionale (a che scopo poi, quando il divieto viene esteso perfino ai giornalisti e agli addetti del settore e nessuna telecamera può avere accesso negli ambienti in cui si tiene il concerto), ma la leggenda vuole che, sia in USA che nel resto del mondo, continuino a presentarsi, talvolta, degli sprovveduti con reflex a tracolla e obiettivi di ricambio e che le discussioni per lasciare quel materiale nelle mani della security possano protrarsi fino a concerto concluso. Da parte mia, ho un telefono senza fotocamera e nessuna macchinetta nascosta nelle tasche dei jeans, ma non nego che una foto o un video della serata mi piacerebbero molto. Un lungo corridoio ci conduce fino al settore 1, dove si trovano la balconata e i nostri posti. Ci accompagna una maschera del palazzetto. Tanta professionalità mi mette a disagio. Mi sembra di essere in Scandinavia: tutto perfetto, tutto fila liscio, pochissime file e quelle poche ordinate. Ovviamente, non faccio paragoni con le grandi arene estive bazzicate lo scorso anno: qua i posti (esclusivamente a sedere) sono risicati, la deontologia dylaniana non è per tutte le bocche, ecc., ma devo ammettere che l'organizzazione risulta vincente e i nostri posti- prima fila, mica lapislazzuli! -quanto di più bello potessimo ottenere.
C'è una discreta fetta di critica specializzata (per altro di origine dylaniana controllata e garantita) che ha bocciato inesorabilmente i concerti romani, il che mi dà da pensare: <<Stai a vedere che vengo io e Dylan è alla frutta, fa un concerto di merda e mi becco un anno funesto per tutto il NET!>>. Venerdì sera, fuori con gli amici, viene rivolto a me e Sofi il seguente discorso: <<A me Dylan piace, gli voglio bene, ma posso dirvi che dal vivo fa cacare>>. Chi parla lo ha visto nel 2011, sempre al Mandela, con Mark Knopfler in apertura e poi in un duetto frutto, all'epoca, di non poche contestazioni critiche. Inizio a sudare freddo. Migliaia di domande iniziano a tempestarmi il cervello, ma alla fine un quesito lo fanno a me, tranquillizzandomi su attendibilità e consistenza di quanto è stato sostenuto poco prima: <<No... ma che poi lo vedete con la Band, ossia con The Band! Giusto? E' ancora The Band la Band di Dylan, vero?>>. In pratica, è come se io, di fronte a una tavola imbandita, stessi ascoltando degli amici parlare di calcio e dell'andamento della campagna acquisti effettuata dalla dirigenza della Fiorentina e decidessi di intervenire dicendo <<No... ma ora è così, ma poi vedete che Cecchi Gori qualche cannoniere lo compra! Giusto? E' sempre Cecchi Gori il presidente della Fiorentina, vero?>>. Il paragone può rendere l'idea?* Ad ogni modo, sono le 20:30 e l'attesa si fa spasmodica. Dietro di noi una simpatica comitiva di genovesi, capitanata da un signore con occhialini tondi e maglietta col logo della serie di documentari The Blues prodotta da Martin Scorsese (a fine serata ci daremo la mano e ci complimenteremo a vicenda per le t-shirt e, sì, sarò un narcisista di merda, ma a certi concerti vado anche per queste soddisfazioni) sta prendendo posto e gioisce della severità riguardo l'impossibilità di immortalare i momenti salienti della serata. Effettivamente, questi smartphones pronti a filtrare ogni momento e ogni emozione, il semplicistico, allarmante concetto secondo cui tutto ciò che ormai non è "immortalabile" non esiste e questo presenzialismo volgare e avvilente, beh, hanno davvero stancato. Scarico parte dell'adrenalina facendo una corsetta lungo il corridoio e spingendomi fino all'estremità della balconata, da cui scatto una fotografia badando a non farmi vedere dalla sicurezza, già sul piede di guerra con chiunque osi anche solo azzardarsi a puntare il telefono in direzione del palco.
Raccontato così, potrebbe sembrare un eccesso di accanimento, ma stare due ore senza preoccuparsi della selva di cellulari che illumina una platea o, peggio, che ostruisce la visuale è una lezione di civiltà non di poco conto in un mondo di oscenità social senza fine. I faretti della security non risparmiano nessuno, la gente si lamenta (<<Eh, ma io ho speso...>> è l'angosciante filastrocca che in molti non mancano di ripetere, come se un dispendio di denaro bastasse a comprare la libertà di fare ciò che si vuole sbattendosene delle regole più elementari). E poi, se ci si pensa bene, in ogni concerto sarebbe vietato documentare con audio, video o immagini ciò che succede sul palco. Poi sta tutto alla discrezione del management o dell'artista decidere di utilizzare o no il pugno di ferro. Dylan tiene sotto scacco il proprio management esattamente come- da oltre quarant'anni -tratta al proprio pari la più autorevole casa discografica al mondo: di conseguenza, le leggi del NET le detta lui. Torno al mio posto che il palazzetto è quasi del tutto riempito. Alla mia destra, due motociclisti inglesi con un secchiello di plastica contenente quattro grossi boccali di birra alla spina, due per ciascuno di loro. Li saluto, prima in italiano, poi in britannico. Anche loro sono sulla strada: fanno il tour italiano. Mancano meno di dieci minuti alle nove. Inizio a spiegare a Sofi che il pianoforte Yamaha è lo stesso che, dal 30 giugno 2012, è stato scelto per mandare in pensione il mitologico organo Korg CX3, a sua volta entrato nell'armeria del NET nel 2006, col preciso scopo di sostituire l'atroce pianola che, illo tempore, qualche giornalista aveva definito un perfetto "strumento di tortura" e che Bob aveva sadicamente imposto al proprio pubblico e ai suoi musicisti per ben tre anni. Potrei proseguire raccontandole che la chitarra è scomparsa dalla strumentazione di Dylan da molto tempo, e che anche l'armonica (il cui supporto è stato dato per disperso nel novembre 1994) non salta fuori dalle sue tasche più tanto spesso, ma le luci di colpo si spengono e lo stomaco mi si contrae. Gli orologi segnano le 21, diverse sedie sono vuote: qualcuno non ha ancora preso posto, ma Lui i ritardatari li tratta così e il "quarto d'ora accademico" forse è un ricordo del tour europeo con Mick Taylor e Santana (1984), ma è un'altra epoca, un altro mondo, un altro Dylan. I sette fari cinematografici che sovrastano il palco sembrano esser stati spenti da qualche tecnico malandrino, quando Stu Kimball sbuca da dietro una tenda e improvvisa un giro di accordi con l'acustica. In platea qualcuno si alza in piedi, noi applaudiamo composti. Delle sagome oscure, da film western, fanno il loro ingresso sulla scena: una di loro è senza cappello, somiglia a una shilouette di capelli a cespuglio venuta ad attirare su di sè tutti gli applausi. George Recell inizia a percuotere la batteria (per tutta la sera manterrà un suono incredibile, mai sentito nulla del genere in concerto prima d'ora, e non ho davvero idea di cosa possa conferirglielo), la band si compatta, una musica grandiosa prende forma e nove lampadine aumentano di intensità. "Un uomo preoccupato con un animo preoccupato" inizia a pestare i tasti del pianoforte (per tutta la sera verranno prediletti- non chiedetemi perchè -i tasti neri) e Things Have Changed (canzone Premio Oscar nel 2001) irrompe dentro al Mandela. Devono succedersi Don't Think Twice It's Allright, Highway 61 Revisited e Simple Twist of Fate prima che io realizzi veramente chi ho di fronte e a che razza di spettacolo stia assistendo. Ho passato i 28 anni, vedo concerti rock da quando ne ho 14 (dunque, ormai posso dirlo, metà della mia vita) ed è come trovarsi costretti a fare un reset completo di ciò a cui si è assistito fino a questo momento: nulla a che spartire con le mie precedenti esperienze, nessun termine di paragone, nessun collegamento.
Mentre Donnie Herron si trastulla con uno dei tanti intermezzi strumentali che ci regalerà stasera con la pedal steel e Charlie Sexton lo segue a ruota, Dylan muove la testa pian piano, la scenografia muta di nuovo- fino a poco fa il gioco di luci e panneggi mostrava una foresta, mentre adesso si delineano delle geometrie meno nitide -e quell'ipnotico, disinvolto swing ferroviario che apre Duquesne Whistle inizia a permeare ogni centimetro quadrato del palazzetto. Il genovese dietro di noi, tranquillo e pacato fino a un attimo prima, scatta in piedi travolto da quell'incredibile amalgama di generi e inizia a gorgheggiare dei lunghi <<Yeaaah! Yeaaah!>>: Tempest è uscito da quasi sei anni, ma le sue canzoni continuano a destare meraviglia anche in chi Dylan lo conosce bene e sa quanto in alto possa arrivare. A conclusione del pezzo, le luci vengono abbassate di nuovo fino quasi all'impercettibile: seguiamo, in silenzio, la sagoma del vecchio Bob aggirarsi nel buio e, quando i fari si riaccendono a mostrare solo le tende sullo sfondo, lui se ne sta al centro del palco, in piedi, le gambe divaricate di fronte a un microfono ad asta lunga. Una Melancholy Mood così ormai non sarebbe in grado di cantarla nemmeno Tom Waits: Donnie Herron e Tony Garnier ci mettono del loro, ma tutti gli occhi sono per Dylan, la cui voce risuona in mezzo all'uditorio ed è bellissima, migliore perfino rispetto a quello stile clean che ha conquistato tanto successo negli ultimi album. Quest'uomo di 77 anni (ma che potrebbe avere qualsiasi età, perchè, come cantava in My Back Pages, "I was so much older then/I'm Younger that then now") che dondola l'asta del suo microfono come un divo del rock&roll anni '50 stasera è proprio venuto a mostrarci l'anima badando bene, però, di farci tirar fuori le nostre. Segue una triade di pezzi opinabili: Honest With Me (unico brano che in tutta la sera non riconoscerò nè dal testo, nè dalla melodia) non mi fa impazzire neanche su "Love and Theft", mentre Tryin'to Get Heaven è solo uno dei picchi di quell'opera maxima anche detta Time Out of Mind e a cui Dylan, ventuno anni dopo la sua pubblicazione, continua ad attingere e a rifarsi (si dica quello che si vuole, ma, in termini musicali, tutto il NET post-1997 guarda a Time Out of Mind molto più che a qualsiasi altra pubblicazione dylaniana precedente). Pura epica che però- in questo arrangiamento live in tutto e per tutto simile a una brutta copia di quello incluso nel terzo cd di Tell Tale Signs -non decolla nè emoziona. Once Upon a Time resterà l'unico estratto da Triplicate: suonato bene e cantato meglio, ma terribilmente freddo, costruito, poco convincente: senza dubbio, l'unica canzone che potrebbe giustificare le feroci e puerili critiche intentate alle serate romane da una stampa o ignorante o semplicemente impreparata.
Prima dell'ultima strofa vado a pisciare ed è allora, di fronte al cesso, che realizzo che Bob Dylan esiste davvero, non me lo sono inventato. Non è solo una voce che da tanti anni risuona nel mio impianto, nelle mie cuffie, nella mia macchina e che mi aiuta a interpretare, accrescere e vivere meglio la vita. Se ne sta di là, a qualche metro da me, dietro il muro del bagno. Una stratosferica Pay in Blood- che, a mio avviso, è anche una delle cinque più belle canzoni scritte da Dylan nel nuovo millennio -restituisce la serata agli annali migliori del NET, Tangled Up in Blue (che da sempre sgomita per stare sul mio personale podio delle tre canzoni più belle di sempre) oscilla fra l'irriconoscibile e il recitativo: ecco, se c'è una critica da muovere alla scaletta (scaletta "fissa" ma di sacrosanta bellezza), è che i pezzi degli anni '70, in questa fase della carriera di Bob, sembrano fare più fatica rispetto a tutti gli altri. Ma da questo momento in poi il concerto risulterà solo perfetto, brano dopo brano: Soon After Midnight è addirittura più bella dal vivo che in studio, Early Roman Kings- fra i tanti blues lenti o veloci suonati stasera -è in assoluto il miglior dodici battute del repertorio, Desolation Row, semplicemente definitiva nel suo incedere jerrygarciano, mi fa inorgoglire di aver scelto la maglietta dei Dead. Il pubblico batte le mani a tempo, Dylan sembra divertirsi come un bambino, i ragazzi dietro di lui pure. Love Sick è una canzone tosta e difficile, eppure con quale violenta disinvoltura e con che classe viene gettata in pasto a un pubblico che, magari, da troppi anni ne ascoltava solo la versione dei White Stripes. Thunder on the Mountain potrebbe seriamente competere come miglior brano della serata: arrangiamento al fulmicotone, chitarre talmente tirate che sembra quasi di scorgere il fantasma di Chuck Berry intento ad aggirarsi sul palco, assolo di batteria che toglie il fiato. Con Autumn Leaves si torna dalle parti di Tom Waits: sul finale- cantato però con un piglio virtuosistico da talent show immaginario -il Mandela viene giù e tributa a Dylan il più colossale scroscio di applausi della serata.
E poi è il momento di Long and Wasted Years, la canzone che aspettavo, quella che da anni ambivo a sentire "in diretta", il mio brano preferito di Tempest. Perfetto esempio di sintesi carveriana e brano monumentale sin dal suo apparire nei concerti del NET a cavallo fra 2012 e 2013. Ogni secondo della Long and Wasted Years di questo 7 aprile 2018 fa accapponare la pelle: è un sussulto d'artista senza eguali, suonata alla perfezione e cantata in maniera abbagliante. Dylan canta, anzi, racconta il viale del tramonto, dà volume a un brano di neanche quattro minuti che da sei anni sta crescendo, giorno dopo giorno, caricandosi di ulteriori significati. Quest'ultima performance ruba applausi a scena aperta, ulteriormente amplificati dall'uscita di scena del gruppo. Ritornano tutti dopo pochi secondi. E' il momento degli encores. Donnie Herron impugna un violino (suona davvero di tutto questo tizio!) e inizia la ricostruzione totale della più famosa fra le più famose canzoni del repertorio di Dylan: ancora non possiamo saperlo, ma stasera Blowin'in the Wind, l'innocua canzoncina pacifista che ormai troviamo tradotta fra le pagine di ogni sussidiario di scuole elementari e superiori, sarà roba da primo amore. Come si fa a mantenere vivo e fresco uno dei pezzi di musica più famosi del Novecento? Semplice: basta chiamarsi Bob Dylan. Quasi un minuto di sola musica prima del fatidico "How many Roads...", un minuto durante cui non smetto di commuovermi mandando a memoria il monologo con cui si chiude- sempre sulle note di una Blowin'in the Wind del NET -Masked and Anonymous: "Che senso ha sapere di che cosa è capace la persona che ami? Tutto va a pezzi, specialmente l'accurato ordine delle regole e delle leggi. Noi guardiamo il mondo nello stesso modo in cui siamo fatti. Guardalo da un bel giardino, e tutto ti sembrerà allegro, sali su un altopiano, e vedrai devastazione e assassinii. Verità e bellezza sono negli occhi di chi guarda. Ho smesso di cercare di capire tutto molto tempo fa".
[*A onor di cronaca, basti pensare che The Band non è più la backing band di Dylan dal 1974 e che la loro ultima esibizione assieme si tenne il 25 novembre 1976, in occasione delle riprese per L'ultimo valzer di Martin Scorsese.]
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