Neil Young, Roxy- Tonight's the Night Live (Reprise Records, 2018) ★★★★
Nella
ferrigna città di Los Angeles si consuma con Neil Young, a metà
degli anni Settanta del secolo scorso, un'effimera e intensa avventura di
bellezza, canto e dolore. E' il 1973, il rock sta morendo (o almeno così voleva certa critica), la tequila e la cocaina si insinuano contro
l'erba e i frutti della terra, una fervida e rinnovata libertà individuale e sentimentale si dispiega a contrasto coi rigori della disciplina comunitaria post-hippie. I canyon notturni, placati nel sonno
inerte del mondo e nel silenzio degli esseri umani (Borrowed
Tune), si
riscuotono di una vibrante ebrezza, rischiariti solo dalla veglia
funebre celebrata in nome di Danny Whitten e Bruce Berry, “che
vissero e morirono per il rock&roll”. Le forze umane in
Tonight's the Night sembrano
venire meno, l'operosità campagnola di Harvest
è solo un ricordo immerso nella nebbia (Come On Baby Let's
Go Downtown): l'estensione
vocale di Young e dei suoi compagni, corrotta com'è da alcool,
insonnia e pillole, finisce col tendere a operazioni stupefacenti
(Tired Eyes). Così,
in seguito alla sacra veglia, una instant-band
denominata Santa Monica Flyers attraversa la strada senza neanche
aver cambiato vesti, strumenti, accordatura per inaugurare un nuovo locale chiamato Roxy, e fra il 20 e il 22 settembre del 1973 ripropone quasi tutto Tonight's the Night.
La pedal steel di Ben Keith muove le ombre di un uditorio di volti
che faticano a riconoscere il capellone di qualche anno fa. La
batteria di Ralph Molina colma gli spazi di canzoni esclusivamente ritmate da una sottile
semplicità. E poi c'è Neil Young, strappato dalla vita alla
solitudine della natura e tornato nel mondo per porre ancora di più al centro della propria
poetica il dolore, l'oscurità e la Notte, di continuo invocata come
una divinità, come una musa lusingata dal palpito della Telecaster del canadese e dai cori dei Santa Monica Flyers. Un recital di autocoscienza che stupirà non poco gli appassionati, convinti che il Loner di quel periodo somigliasse soltanto allo spettro di sè e avesse fatto, come unico sforzo, quello di togliersi gli stivali per sostituirli con scarpe laccate da gangster. In questo Roxy non sarà possibile avvertire l'insolito vigore di Time Fades Away (per chi se lo fosse perso, è finalmente uscito in cd nel 2017, molto in sordina e solo nel secondo cofanetto della Original Release Series), e l'assioma classico di "musica in studio più pulita che in concerto" viene completamente ribaltato. L'accoglienza che il pubblico del Roxy destina a un repertorio inedito come questo ha molto da insegnare in tempi in cui un buon cinquanta percento dei concerti sono uno la copia dell'altro e la parola live fa spesso rima con karaoke. Che poi quel pubblico fosse (parte de) lo stesso a cui Young avrebbe tenuto "nascosto" Tonight's the Night fino all'estate del 1975 (impedendone e rimandandone l'uscita perchè poco convinto, sulle prime, dal missaggio approntato dall'impagabile David Briggs e da una tracklist incongruente che sarebbe stata poi ultimata e riorganizzata da Eliot Roberts) è un'altra storia. E Young- plurisettantenne felicemente immerso in un marasma composto da battaglie eco-chic a metà fra il tenero e il fallimentare, decine di progetti abortiti, un imminente tour coi Crazy Horse annunciato di fresco, dischi rimandati, film orribili e colonne sonore invero piacevoli -non rinuncia a presentare l'ennesima, grande pagina live della sua carriera e a riconfermare- semmai ce ne fosse stato bisogno -che la Performance Series avviata ormai dodici anni fa è ancora la più generosa e la meglio gestita delle sue tante miniere.
E' paradossale come il Record Store Day- creato nel 2007 per tentare di rivitalizzare un'industria in crisi e per offrire, almeno nelle intenzioni, maggior supporto a un commercio già all'epoca in via d'estinzione (i negozi di dischi indipendenti) -abbia finito col tradire ogni sua aspettativa, divenendo solo l'ennesima montatura mediatica destinata a un pubblico di nostalgici. La lista delle uscite è barzellettistica, i prezzi sono offensivi. Ogni tentativo di aggirare anche l'appassionato più serio obbligandolo ad acquistare un formato che di norma neanche rientrerebbe fra i suoi desideri è risolto da una precisa filosofia di vendita: <<Vuoi la rarità del tuo gruppo del cuore? Bene, la prendi in vinile, limited edition e al prezzo che dico io>>. Nel frattempo, negli USA ha chiuso l'ultima fabbrica dove si producevano cd, per ogni negozio indipendente aperto (mi viene in mente Vinyl Room, una realtà "fighetta" appena inaugurata in pieno centro a Roma dai figli di De Gregori) ce ne sono dieci ad abbassare la saracinesca per sempre, e la riflessione sui meccanismi del consumo della musica odierni non è mai stata così prossima allo zero. Sembra superato, ormai, perfino il dibattito attorno alle diversità "relazionali" che intercorrono fra ascoltatore e musica, sia quando quest'ultima è veicolata da qualsiasi forma di supporto materiale, sia quando questa passa attraverso un computer o uno smartphone divenendo- per usare un termine caro a Bauman -"liquida".
Ormai la colossale distribuzione online fa parlare di sè solo quando esce fuori l'ennesima pagina di cronaca che racconta dell'operaio di uno stabilimento x è costretto a urinare in una bottiglietta di plastica per non interrompere il flusso dei tempi record e dei costi ridotti. Seguono indignazione e sgomento generici, poi si torna a comprare quanto e più di prima, mentre viene fatta passare l'informazione (errata) secondo cui, tanto per fare un esempio, Amazon e il Record Store Day nel 2018 possano convivere placidamente. Bene, non siamo mai stati così tanto lontani dalla verità: come succede nei più barbari modelli di società, Amazon ha metaforicamente comprato il Record Store Day, ribadendo, di fatto, la superiorità ormai incontrollata della grettezza sulla cultura, dell'egoismo sulla socialità, del commercio virtuale su quello fisico. In effetti, all'inizio, lo chiamavano e-commerce: una realtà aliena, roba che sembrava adattarsi bene alle sterminate periferie americane, ma non al mio paesello. La rete globale avrebbe cambiato le cose. Anche io iniziai a fare sporadici acquisti in contrassegno laddove eBay lo permetteva:perlopiù si trattava di oggetti sparpagliati per lo Stivale ma che non erano di certo nè facilmente reperibili nè a portata di mano. Dischi rari, libri di cui si avevo solo sentito parlare, fumetti mai approdati in edicola e fuori dai cataloghi delle fumetterie. In qualche modo, questa rarità costituiva un valore aggiunto per questi oggetti. Trovarsi in un'altra città- non necessariamente New York o Roma, a me bastava pure Firenze -significava la possibilità di accesso a un maggior numero di negozi locali in cui poter frugare fra riviste, libri, dischi, rendendo il tutto più divertente.
La temibile globalizzazione, con le sue rassicuranti strade commerciali tutte identiche, da Poggibonsi a Buenos Aires, aveva già iniziato a mietere vittime, e il web iniziava a dimostrarsi l'arma preferenziale di questa nuova, moderna incarnazione del libero mercato. Di Amazon parlò anche la farlocca e finto-alternativa trasmissione Report, che all'impero commerciale di Seattle dedicò un accurato servizio in cui Jeff Bezos veniva definito come un genio del bene e la sua creatura prediletta uno strumento rivoluzionario ed ecologico (e, diciamolo, certa sinistra liberal 2.0 è ormai avvezza a chiudere gli occhi di fronte ai soprusi sulla classe operaia, ma quando c'è di mezzo l'ecologia è sempre pronta a regalare il culo a qualsiasi guru del momento). La conduttrice chiosava auspicando la prossima apertura di una simile realtà anche nella paralitica Italia bottegaia, e in effetti, di lì a poco, le sue speranze si sarebbero concretizzate (oggi, ovviamente, Report non manca di dedicare i suoi servizi "d'assalto" alle ingiustizie perpetrate da Amazon ai danni dei dipendenti nei suoi magazzini). Dopo che mezzo paese si era registrato su Amazon UK, il tricolore iniziò a svettare anche nella homepage del sito e di lì a poco Amazon.it prese forma: i prezzi erano molto bassi, le spese di spedizione azzerate, le consegne veloci. Ai più sembrava di aver trovato il Sacro Graal, ma, come si sarebbe scoperto poco dopo, c'era un prezzo da pagare. C'era la libreria abbandonata e il rivenditore di dischi tradito: negozietti che avevano ospitato fino a quel momento appassionati di questa e quella materia andavano chiusi, lasciando sopravvivere solo le grandi catene, tutte uguali, tutte svuotate della loro umanità. Le problematiche- tanto gravi quanto facenti parte del gioco -della distribuzione, dei corrieri, di una concorrenza sempre proiettata su chi andava a guidare quei camioncini di vari colori e dimensioni (un argomento che non affronterò in questa sede, ma che esiste e può portare a conseguenze nefaste).
Oltre a questi effetti collaterali (imprevisti per noi consumatori, ampiamente pianificati dalle sovranità del Capitale), a me non sembra che sia rimasto molto da cercare. Il mondo è diventato più piccolo, ma assai meno interessante, e io continuo a non avere unaccount su Amazon. Credo di averci comprato (tramite Sofi, che è pure clienteprime) non più di due volte e di non averci mai trovato nulla (contrariamente a eBay, IBS, Libraccio.it, ecc.). Da tre anni e mezzo posseggo un Kindle su cui ho accumulato cinque ebook (tre originali regolarmente acquistati e due .pdf scaricati illegalmente). Vedo queste cose come una magia nera non facile da gestire e i cui utenti dovrebbero darsi delle regole che puntualmente non si danno. Non vedo il bisogno di comprare i libri di carta su Amazon quando nel centro del paese hai un libraio di fiducia con cui fare due parole e che, se non ha in negozio quello che cerchi, può ordinarti il 98% dello scibile umano e fartelo avere in pochi giorni. Per i dischi poi faccio il contrario dell'utente medio: invece di cercarli e ascoltarli (e farli ascoltare anche agli sfortunati avventori) in negozio, cerco le anteprimeonline (non ascolto la radio), controllo disponibilità e date di uscita su Amazon (il loro catalogo globale, con tanto di recensioni e consigli, è molto ben fatto e comodissimo per la consultazione) e infine li compro al negozio. Non penso di acquistare "feticci" o di venerare totem fuori dal tempo, e neanche sono concorde con quelle teorie secondo cui la musica nell'era delweb 2.0 si sia liberata del contenitore e scorra eterea tutto intorno a noi. La musica è qualcosa di troppo nobile, importante e intimo per essere relegata all'esclusiva fruizione instreaming. Come Amazon non mi convince in quanto lettore di libri, Spotify non mi gratifica affatto come ascoltatore: la musica liquida è un frutto prefabbricato del marketing, quella fisica (e con essa i negozi di dischi e la loro umanità variegata) somiglia maggiormente a un prodotto dotato di anima e per questo la preferisco.
I dischi non vendono più, è vero, e se vendono, vendono sotto forma di quei costosi vinili per collezionisti di cui parlavo all'inizio del post (e il collezionismo, essendo unhobby non necessariamente finalizzato all'ascolto, non fa per nienterock). Non mi considero un tipo da centro commerciale, e potessi permettermelo eviterei di comprare da mangiare perfino al supermercato. Per la tecnologia è un po' più complicato: negozi non ce ne sono praticamente più, e persino i grandi distributori come Trony chiudono (il che, non avendo mai fornito alcun valore aggiunto alla rete di vendita, non dovrebbe destare stupore). E per quanto il mondo del hi-fi possa essere cambiato diventando- in maniera direttamente proporzionale al successo dello streaming e al conseguente svilimento della qualità del suono -un microcosmo accessibile solo ai carbonari, i negozi di elettronica specializzati, di strumenti musicali e di impiantistica audio-video stanno gradualmente scomparendo e con loro, spesso, se ne va un personale competente e prezioso. Non traggo alcun giovamento dal fare tendenza e sono fiero di vedere il baricentro del mondo nell'essere umano e non nelbusiness. A lungo, approdare in una città diversa dalla mia (da Cecina a Parigi, intendo), per me ha significato cercare il miglior negozio di musica, passarlo al setaccio, comprare un disco (ma quasi sempre, complici i pretesti più disparati, ho finito col comprarne più di uno) e, una volta tornato a casa, farlo risuonare come la più vitale delle testimonianze di un viaggio, un'esperienza, un ricordo. Finora, tutto questo non mi è stato tolto da niente e da nessuno. Però, ecco: le prospettive nell'immediato futuro non è che siano delle migliori.
Domenica di Pasqua. Della resurrezione mi è sempre importato un bene amato, ma il periodo pasquale per me- che amo rivendicare le radici pagane di tutte le festività -è sinonimo di rinascita e speranza. Le ore di buio vengono superate da quelle di luce, complice anche la temuta ora legale. Non è questo il luogo per stilare una compilation delle stagioni, ma con ogni probabilità la primavera è quella più desiderata (e, ineluttabilmente, più rimpianta) per ognuno di noi, e il bello è che ritorna ogni anno: esattamente come alla notte segue sempre un'alba, o come a questa vita- chissà -ne seguirà un'altra.
Domenica di Pasqua. Mi immagino di dover fare un ragionamento minimamente logico-razionale con chi, quarantotto ore fa, si è nutrito di baccalà col preciso scopo di compiacere il creatore dell'universo e mi metto a ridere. Ascolto gli auguri, li ricevo, penso a quanti ne ho fatti anche io la scorsa settimana a lavoro e basisco. Lo so, è sbagliato pensare queste cose: si passa da maleducati, da irrispettosi, da guastafeste, eppure non ce la faccio a esimermi dal pensarle. In questo momento, mi trovo a Cetona, in piazza Garibaldi, una piazza splendida, sempre piena di gente e di sole. Io e Sofi stiamo aspettando il resto della sua famiglia per andare a pranzo e nell'attesa consumiamo un aperitivo in piedi: spritz per lei, Campari con una spruzzata di vino bianco per me. Non c'è mezza mattonella libera, ogni sedia è già stata occupata precedentemente e i camerieri hanno parecchio lavoro da portare avanti. La volgarità, complice una ricorrenza vetusta e comandata come quella pasquale, è tangibile metro dopo metro: uomini e donne bolsi e costretti in vestiti ridicoli come i costumi di una strip di Flash Gordon si baciano, si sorridono, si sfottono, urlano, bevono, sgranocchiano. I bimbi più piccoli vengono subito dotati di smartphones per essere ridotti a un'inquietante forma di silenzio preventivo, mentre ragazzi e ragazze ormai adolescenti si squadrano con un certo distacco. Il messaggio va di pari passo col pensiero unico (e inequivocabile): la gente che sta bene- o che almeno dà una vaga parvenza di starci -è qui, e il resto del mondo può anche esplodere, in questo santo giorno. I ricchi non crepano mai, gli stronzi tanto meno. Alla luce di questa profondissima analisi, vado strutturando una teoria secondo la quale uno stronzo e pure ricco può ambire senza problemi all'immortalità. Le campane della chiesa rintoccano una sola volta. Una madre vestita uguale alla propria figlia immortala due Bellini lasciando, in secondo piano, una coppia di borse griffate. Se fotografare aperitivi per scaraventarli su Instagram è arte, mi domando perchè fare lo stesso ad un bicchiere d'acqua possa sembrare stupido. Per fortuna il resto della comitiva arriva a distrarmi. Scendiamo lungo una discesa bella ripida e arriviamo all'osteria del Merlo. Pochi coperti, bell'ambiente ricavato in una torre medievale, menù a rotazione (quello di oggi è il 78esimo da quando la gestione del ristorante è passata in nuove mani) ma molto incentrato sul pesce. La cantina- ci spiegano -è molto più curata rispetto al passato perchè i proprietari non appena hanno un po' di tempo libero, se ne vanno in giro a scoprire vini e comprare bottiglie. Ne consegue una scelta variegatissima e per niente banale, specie considerando che, per quanto al confine, siamo sempre nella Toscana delle lobbies viticole. Scatto una foto-ricordo di questa pasqua nella quale cerco di far convergere due miei grandi amori:
Giuseppe Vitale Trio, Juttin't Out
(Emme Record Label, 2018)
Per chi non avesse avuto ancora la fortuna di vederlo esibirsi dal vivo, questa prima produzione discografica del trio di Giuseppe Vitale (classe 1999 e originario di Vigevano) è sufficiente a dare un’idea della distanza che la separa da certa antipatia programmata cui ormai il jazz nostrano viene troppo spesso ricondotto e accostato. Juttin’Out (uscito per Emme Record Label lo scorso 30 marzo), fin dal titolo, ha l’ambizione di... continua a leggere su Free Fall Jazz.
Vivendo ho imparato una grande lezione, ossia che al mondo esistono solo due cose inossidabili: l'oro e Bob Dylan. Io, generalmente, investo sul secondo e così, appena quindici giorni prima del suo quarto concerto italiano in questa primavera, prendo due posti numerati in balconata al Mandela Forum e mi metto in attesa del 7 aprile. Non ho fatto i soldi, nè mi sono rimborghesito, nè miro a diventare uno di quei signorotti con la buzzetta che in vita loro hanno comprato quattro cd e che anche ad agosto si presentano col golfino sulle spalle ai concerti. Intanto- trattandosi del regalo di compleanno per Sofi -ho voluto scegliere personalmente dei buoni posti, e poi, vantando delle precedenti esperienze in questo palazzetto, ho preferito la balconata sia alla semplice tribuna (prezzo pressoché identico) che ai più economici secondo e terzo settore.
Il primo concerto di Dylan a cui ho desiderato prendere parte fu quello al Pala Malaguti (oggi si chiama Unipol Arena) di Bologna: si sarebbe tenuto il 10 novembre 2005. Con Nikke avevamo perfino fatto un sommo studio degli orari dei treni ed era andato delineandosi un piano secondo cui l'occasione per l'acquisto dei biglietti- troppo cari per le tasche di due sedicenni traviati da tutti i vizi di questo mondo -sarebbe stata fornita dalla vicinanza dei nostri compleanni (31 ottobre lui, 11 novembre il sottoscritto). L'impavida trasferta bolognese venne opportunamente bocciata dal parentado: inizialmente, sembrava che fossimo riusciti a barattare Dylan al Pala Malaguti per Robert Plant al più vicino Sasch Hall una quindicina di giorni dopo, ma poi i brutti voti, gli screzi familiari e altri tumulti interiori fecero il resto.
Bob Dylan @ Pala Malaguti, Bologna, 10/11/2005
L'estate successiva, forte anche della promozione del fortunatissimo Modern Times, Dylan tornò per una serie di concerti in località che oggi verrebbero ritenute "insolite": infatti, con l'eccezione di Roma (16 luglio), il NET toccò Pistoia, Paestum, Foggia e Cosenza. Va anche detto che il Pistoia Blues di quell'anno (il 27esimo) avrebbe fatto gola a chiunque (solo nella settimana precedente ci avevano suonato Ivano Fossati, Vinicio Capossela, Caetano Veloso e i Gov't Mule), ma io, in quelli stessi giorni, partivo per il mare e l'idea di organizzarmi o anche solo di provare a chiedere i soldi per il biglietto mi angosciava. Gino Castaldo, dalle colonne de la Repubblica del 17 luglio 2006, avrebbe definito il Dylan di Pistoia "sbilenco, vecchio e stonato".
Bob Dylan @ Pistoia Blues, Pistoia, 15/7/2006
Il biennio 2007-2008 rappresentò per me un netto stop da tutto ciò che ruotava attorno a Bob Dylan. Non ascoltai la sua musica, non comprai nè masterizzai alcun suo album, non mi curai di leggere la rassegna stampa che lo riguardava. Ascoltai, in generale, molto poco rock, presi le distanze dal dylanismo, non andai a vedere I'm Not There nè ne acquistai la colonna sonora (che ho riscoperto, anni dopo, anche grazie a Sofia). Le date di Torino e Milano prima, e di Trento, Bergamo e Aosta dopo non intaccarono minimamente la mia curiosità. Con lo stesso disinteresse finii le scuole superiori e di Bob Dylan non mi curai fino alla primavera del 2009, quando, inaspettatamente, un videoclip di MTV attirò la mia attenzione. Si vedeva un tizio sulla mezza età stempiato, pallido, col volto solcato da pesanti occhiaie, che camminava per strada, saliva le scale di questo motel di infima categoria (Astro Motel si chiamava) e con una busta di plastica rientrava in camera, andava per versarsi un dito di whiskey ma di colpo si arrestava. Fino a quel momento era stato un personaggio più che anonimo, triste, privo di rispetto per la sua persona ma non antipatico: tuttavia, il suo atteggiamento, la sua espressione (come accade in molti buoni film) cambiavano dopo aver udito un rumore insolito. Indugiava, afferrava un coltello dal piano cottura per poi gettarlo sulla moquette quasi subito, si muoveva nello squallore della sua stessa camera fino a trovarsi di fronte a una porta dipinta di bianco. Tirato il chiavistello, sembrava quasi di poterlo sentir trattenere un'imprecazione: una camera da letto con un cuscino macchiato di sangue e una catena a cui- ormai era chiaro -avrebbe dovuto esser stretto qualcosa che però non c'era. Il tipo, a questo punto, passava di diritto al ruolo dello stronzo: da dietro la porta bianca sbucava la protagonista, l'eroina di questa storia, una bella ragazza bionda, magra, col viso distrutto da lacrime e trucco sbavato e i vestiti logori. Una bottiglia di vetro esplodeva sulla testa del tizio con una violenza inaudita (non a caso, nel riquadro dove trovava spazio il titolo del clip, svettava, fra parentesi, la dicitura "explicit") e lui cadeva a terra, apparentemente svenuto. La ragazza tentava di fuggire dall'appartamento, mentre io mi domandavo chi fosse e cosa le avesse fatto il merdone e Dylan- ormai uno splendido sottofondo -cantava cose come "Continueremo ad amarci, graziosa piccola/ per tutto il tempo che durerà l'amore/ Oltre qui non c'è niente/ se non le montagne del passato". Poi il tipo si riprendeva e tornava alla carica, più rabbioso e incazzato di prima. Schiaffi, cazzotti, la ragazza che volava sul televisore distruggendolo e facendo venir meno la corrente in tutto il motel. Dio, sembrava l'incipit del primo Kill Bill, con lui che però si stufava, andava per metter mano a una siringa di narcotico e si vedeva infliggere una coltellata alla milza. "Giù per ogni strada c'è una finestra/ e ogni finestra è fatta di vetro/ Continueremo ad amarci, graziosa piccola/ per tutto il tempo che durerà l'amore". Stacco. La ragazza correva giù per le scale dell'Astro Motel con delle chiavi in mano e con un sorriso febbrile, disperato che le si delineava in volto metro dopo metro. Apriva una vecchia auto bianca ferma nel parcheggio e si sforzava di non guardare indietro: se lo avesse fatto, avrebbe visto il suo carceriere affacciarsi sulla balconata con passo incerto e la canottiera intrisa di sangue. La chiave da principio non entrava nel quadro, anzi, le cadeva proprio di mano. Arrivati fin qui veniva spontaneo urlarle <<Dai, cretina! Muoviti a partire, che lui torna!>>, e lui, puntualmente, tornava. Spiaccicava la propria mano sul finestrino, come lo zombie di un horror, proprio mentre la ragazza aveva trovato il modo di accendere il motore. Dettaglio del cambio, che veniva prontamente impostato in modalità guida. Alcuni metri in avanti, con il coglione che, in un ultimo disperato tentativo, sembrava perfino disposto a spendere le energie finali all'inseguimento dell'auto: un accenno di corsetta prima di fermarsi. La macchina faceva solo qualche metro, poi la ragazza si fermava, osservava la sagoma dello scemo nello specchietto retrovisore e, con un colpo deciso di cambio, accelerava a tutto gas in retromarcia centrandolo col paraurti posteriore. "Bene, la mia barca è nella baia/ e le vele sono spiegate./ Ascoltami, piccola, poni la tua mano sulla mia testa. / Oltre qui non c'è niente/ niente che non sia già stato fatto e niente che non sia già stato detto". Lui era riverso a terra con un buco nella pancia, frastornato da quell'ultima botta, presumibilmente moribondo. Lei scendeva dall'auto, gli girava attorno, si accovacciava e, alla fine, lo baciava appassionatamente. Incredibile, no?
Le tre date italiane del NET previste per un paio di settimane dopo erano state dichiarate sold-out da tempo. Forse era merito di Beyond Here Lies Nothin' o forse no, ma a me parve che una canzone di Dylan- per di più nuova, scatenata e moderna -avesse rinfocolato non di poco gli animi di noi ventenni. All'Università c'era chi aveva i biglietti da settimane: domandai a Lorenzo, uno dei pochi studenti con cui chiacchieravo (e chiacchieravamo principalmente di musica), se c'erano delle possibilità di ottenerli tramite alcuni suoi "canali" e a che prezzi, ma mi spiegò che era dura. Forse era vero, ma resta il fatto che lui al Mandela Forum finì con l'andare, mentre io me ne stetti a casa e mi sarei dovuto accontentare di scaricare un bootleg (qualità audience), di leggere qualche striminzito articoletto online e di contare i dodici giorni che mi separavano dall'uscita di Together Through Life, un disco che su una rivista del gruppo editoriale L'Espresso venne anticipato come "controverso" a causa di una (presunta) "copertina omosessuale". Ovviamente, anche in quell'occasione, nulla di più falso e travisato.
Copertina del bootleg fiorentino Return to Me, Bella Mia (2009)
Da allora è stato tutto un mentire a me stesso. Me ne uscivo dicendo di avere voglia di mettermi in strada per Dylan e poi, magari all'ultimo, adducevo scuse ridicole per non andare a vederlo: è successo a giugno del 2010 per una strampalata data viareggina, in vista del mio 22esimo compleanno (suonò di nuovo al Mandela l'11 novembre 2011) e infine per quella che, almeno sulla carta, prometteva essere una gran serata ma che da ultimo venne "spostata" dal Comunale di Firenze al Gran Teatro Geox di Padova (succedeva appena cinque anni fa). Nel frattempo, era anche uscito Tempest, uno dei pochi grandi dischi ad aver visto la luce in questo XXI Secolo, Dylan aveva rilasciato un'intervista all'edizione americana di Rolling Stone che era pura e impareggiabile letteratura e le cronache del NET parlavano di scalette mozzafiato e concerti straordinari. Poi, a fila, sono piovuti dal cielo i cover-albumsShadow in the Night e Fallen Angels, intervallati dai blindatissimi concerti nei teatri (Manzoni a Bologna, Arcimboldi a Milano). Il Nobel (e con esso il conseguente, insensato dibattito le cui scorie continuano a essere sparpagliate nell'aria tutt'oggi) e la pubblicazione di quel "telefonato" triplo omaggio all'American Songbook che risponde al nome di Triplicate hanno fatto il resto, accentuando in me e in moltissimi altri la curiosità, se non la smania, di poter avere un data del NET a portata di mano e- magari più difficile -di portafoglio. Tuttavia, Bob Dylan non si è visto in Italia nè nel 2016, nè nel 2017, ragion per cui le serate previste in questa primavera sono risultate essere ben nove, divise in due segmenti (3-9 e 25-27 aprile).
Dylan & The Dead (qualche anno dopo...)
IL CONCERTO.
Scelgo una maglietta dei Grateful Dead per il concerto. Non amo le etichette, ma so che Jerry Garcia approverebbe e quindi agisco di conseguenza. Se si ama Dylan, è impossibile prescindere dal filo rosso che lo collega ai Dead e viceversa. Data la vicinanza e le condizioni di organizzazione "umane" del Mandela Forum, abbiamo deciso di rinunciare a farci spedire i biglietti a casa e optato per la formula del ritiro sul posto. Ragion per cui, appena parcheggiato Ginetta lungo viale Manfredo Fanti- sul lato di fronte al palasport -ci mettiamo subito in cerca di due cose: la biglietteria che sulla mail viene indicata come "ingresso B" e un paio di birre gelate. Facciamo il giro del palazzetto, ci imbattiamo in un inserviente che ci spiega che di ingressi ce ne è uno solo e che di conseguenza anche la biglietteria è unica. A parte questo dettaglio, la scelta si rivela vincente: la biglietteria ha sei sportelli di cui quattro liberi e sorge dirimpetto a quei chioschini dove una birra e un panino costano più di un week-end a Ortisei in alta stagione. Come ho scritto all'inizio, non sono un novellino e questo è il mio quarto concerto al Mandela. Mostro un documento e i biglietti sono in mano nostra: ordiniamo due birre e brindiamo a loro, a Bob, alla serata, alla vita. Sofi mi scatta una foto di fronte alla cancellata. Butto un occhio all'unica bancarella installata fuori, mentre tutto attorno a noi inizia a stringersi un pubblico che per certi versi trovo perfino più eterogeneo (e senza ombra di dubbio meno caciarone) di quello presente a Lucca per i Rolling Stones. Adocchio una maglietta della Triumph Motorcycles che altro non è che la replica di quella che Bob indossa nella copertina di Highway 61 Revisited, ma poi penso a quanto in realtà le Triumph mi facciano cacare e torno sui miei passi. La compagine bikers del pubblico è bella nutrita: tutti membri di alcuni Harley Davidson Club del centro-nord. Nessun fracasso: si tratta perlopiù di padri di famiglia o pensionati che amano stare fra di loro, "in branco". Anfetamine, stecche da biliardo, coltelli e altra roba sono rimasti sul set di Sons of Anarchy, ma vederli in un numero così nutrito fuori dalla cancellata di un concerto di Bob dà tutto un altro sapore alla vicenda.
Verso le 20:00 ci presentiamo al gate che conduce alla balconata e alla sopraelevata. Una ragazza che arriva a fatica a diciotto anni chiede a Sofi di porgerle la borsetta: una rapida controllata, mentre il mio giubbino di ecopelle nera neanche viene considerato. Nessun metal detector, nessuna perquisizione mirata alla sottrazione di acqua e cibo (tutto per farteli ricomprare dieci metri dopo i cancelli a un prezzo cinque volte superiore). Totale rilassatezza, con l'eccezione di un dettaglio che chi è un po' ferrato su ciò che ruota attorno al NET conosce bene: l'assoluto divieto di fare fotografie e video all'interno. Nessuno, specie negli ultimi anni, è mai stato così stupido da andare a vedere Dylan portandosi dietro attrezzatura professionale o semi-professionale (a che scopo poi, quando il divieto viene esteso perfino ai giornalisti e agli addetti del settore e nessuna telecamera può avere accesso negli ambienti in cui si tiene il concerto), ma la leggenda vuole che, sia in USA che nel resto del mondo, continuino a presentarsi, talvolta, degli sprovveduti con reflex a tracolla e obiettivi di ricambio e che le discussioni per lasciare quel materiale nelle mani della security possano protrarsi fino a concerto concluso. Da parte mia, ho un telefono senza fotocamera e nessuna macchinetta nascosta nelle tasche dei jeans, ma non nego che una foto o un video della serata mi piacerebbero molto. Un lungo corridoio ci conduce fino al settore 1, dove si trovano la balconata e i nostri posti. Ci accompagna una maschera del palazzetto. Tanta professionalità mi mette a disagio. Mi sembra di essere in Scandinavia: tutto perfetto, tutto fila liscio, pochissime file e quelle poche ordinate. Ovviamente, non faccio paragoni con le grandi arene estive bazzicate lo scorso anno: qua i posti (esclusivamente a sedere) sono risicati, la deontologia dylaniana non è per tutte le bocche, ecc., ma devo ammettere che l'organizzazione risulta vincente e i nostri posti- prima fila, mica lapislazzuli! -quanto di più bello potessimo ottenere.
C'è una discreta fetta di critica specializzata (per altro di origine dylaniana controllata e garantita) che ha bocciato inesorabilmente i concerti romani, il che mi dà da pensare: <<Stai a vedere che vengo io e Dylan è alla frutta, fa un concerto di merda e mi becco un anno funesto per tutto il NET!>>. Venerdì sera, fuori con gli amici, viene rivolto a me e Sofi il seguente discorso: <<A me Dylan piace, gli voglio bene, ma posso dirvi che dal vivo fa cacare>>. Chi parla lo ha visto nel 2011, sempre al Mandela, con Mark Knopfler in apertura e poi in un duetto frutto, all'epoca, di non poche contestazioni critiche. Inizio a sudare freddo. Migliaia di domande iniziano a tempestarmi il cervello, ma alla fine un quesito lo fanno a me, tranquillizzandomi su attendibilità e consistenza di quanto è stato sostenuto poco prima: <<No... ma che poi lo vedete con la Band, ossia con The Band! Giusto? E' ancora The Band la Band di Dylan, vero?>>. In pratica, è come se io, di fronte a una tavola imbandita, stessi ascoltando degli amici parlare di calcio e dell'andamento della campagna acquisti effettuata dalla dirigenza della Fiorentina e decidessi di intervenire dicendo <<No... ma ora è così, ma poi vedete che Cecchi Gori qualche cannoniere lo compra! Giusto? E' sempre Cecchi Gori il presidente della Fiorentina, vero?>>. Il paragone può rendere l'idea?* Ad ogni modo, sono le 20:30 e l'attesa si fa spasmodica. Dietro di noi una simpatica comitiva di genovesi, capitanata da un signore con occhialini tondi e maglietta col logo della serie di documentari The Blues prodotta da Martin Scorsese (a fine serata ci daremo la mano e ci complimenteremo a vicenda per le t-shirt e, sì, sarò un narcisista di merda, ma a certi concerti vado anche per queste soddisfazioni) sta prendendo posto e gioisce della severità riguardo l'impossibilità di immortalare i momenti salienti della serata. Effettivamente, questi smartphones pronti a filtrare ogni momento e ogni emozione, il semplicistico, allarmante concetto secondo cui tutto ciò che ormai non è "immortalabile" non esiste e questo presenzialismo volgare e avvilente, beh, hanno davvero stancato. Scarico parte dell'adrenalina facendo una corsetta lungo il corridoio e spingendomi fino all'estremità della balconata, da cui scatto una fotografia badando a non farmi vedere dalla sicurezza, già sul piede di guerra con chiunque osi anche solo azzardarsi a puntare il telefono in direzione del palco.
Raccontato così, potrebbe sembrare un eccesso di accanimento, ma stare due ore senza preoccuparsi della selva di cellulari che illumina una platea o, peggio, che ostruisce la visuale è una lezione di civiltà non di poco conto in un mondo di oscenità social senza fine. I faretti della security non risparmiano nessuno, la gente si lamenta (<<Eh, ma io ho speso...>> è l'angosciante filastrocca che in molti non mancano di ripetere, come se un dispendio di denaro bastasse a comprare la libertà di fare ciò che si vuole sbattendosene delle regole più elementari). E poi, se ci si pensa bene, in ogni concerto sarebbe vietato documentare con audio, video o immagini ciò che succede sul palco. Poi sta tutto alla discrezione del management o dell'artista decidere di utilizzare o no il pugno di ferro. Dylan tiene sotto scacco il proprio management esattamente come- da oltre quarant'anni -tratta al proprio pari la più autorevole casa discografica al mondo: di conseguenza, le leggi del NET le detta lui. Torno al mio posto che il palazzetto è quasi del tutto riempito. Alla mia destra, due motociclisti inglesi con un secchiello di plastica contenente quattro grossi boccali di birra alla spina, due per ciascuno di loro. Li saluto, prima in italiano, poi in britannico. Anche loro sono sulla strada: fanno il tour italiano. Mancano meno di dieci minuti alle nove. Inizio a spiegare a Sofi che il pianoforte Yamaha è lo stesso che, dal 30 giugno 2012, è stato scelto per mandare in pensione il mitologico organo Korg CX3, a sua volta entrato nell'armeria del NET nel 2006, col preciso scopo di sostituire l'atroce pianola che, illo tempore, qualche giornalista aveva definito un perfetto "strumento di tortura" e che Bob aveva sadicamente imposto al proprio pubblico e ai suoi musicisti per ben tre anni. Potrei proseguire raccontandole che la chitarra è scomparsa dalla strumentazione di Dylan da molto tempo, e che anche l'armonica (il cui supporto è stato dato per disperso nel novembre 1994) non salta fuori dalle sue tasche più tanto spesso, ma le luci di colpo si spengono e lo stomaco mi si contrae. Gli orologi segnano le 21, diverse sedie sono vuote: qualcuno non ha ancora preso posto, ma Lui i ritardatari li tratta così e il "quarto d'ora accademico" forse è un ricordo del tour europeo con Mick Taylor e Santana (1984), ma è un'altra epoca, un altro mondo, un altro Dylan. I sette fari cinematografici che sovrastano il palco sembrano esser stati spenti da qualche tecnico malandrino, quando Stu Kimball sbuca da dietro una tenda e improvvisa un giro di accordi con l'acustica. In platea qualcuno si alza in piedi, noi applaudiamo composti. Delle sagome oscure, da film western, fanno il loro ingresso sulla scena: una di loro è senza cappello, somiglia a una shilouette di capelli a cespuglio venuta ad attirare su di sè tutti gli applausi. George Recell inizia a percuotere la batteria (per tutta la sera manterrà un suono incredibile, mai sentito nulla del genere in concerto prima d'ora, e non ho davvero idea di cosa possa conferirglielo), la band si compatta, una musica grandiosa prende forma e nove lampadine aumentano di intensità. "Un uomo preoccupato con un animo preoccupato" inizia a pestare i tasti del pianoforte (per tutta la sera verranno prediletti- non chiedetemi perchè -i tasti neri) e Things Have Changed (canzone Premio Oscar nel 2001) irrompe dentro al Mandela. Devono succedersi Don't Think Twice It's Allright, Highway 61 Revisited e Simple Twist of Fate prima che io realizzi veramente chi ho di fronte e a che razza di spettacolo stia assistendo. Ho passato i 28 anni, vedo concerti rock da quando ne ho 14 (dunque, ormai posso dirlo, metà della mia vita) ed è come trovarsi costretti a fare un reset completo di ciò a cui si è assistito fino a questo momento: nulla a che spartire con le mie precedenti esperienze, nessun termine di paragone, nessun collegamento.
Mentre Donnie Herron si trastulla con uno dei tanti intermezzi strumentali che ci regalerà stasera con la pedal steel e Charlie Sexton lo segue a ruota, Dylan muove la testa pian piano, la scenografia muta di nuovo- fino a poco fa il gioco di luci e panneggi mostrava una foresta, mentre adesso si delineano delle geometrie meno nitide -e quell'ipnotico, disinvolto swing ferroviario che apre Duquesne Whistle inizia a permeare ogni centimetro quadrato del palazzetto. Il genovese dietro di noi, tranquillo e pacato fino a un attimo prima, scatta in piedi travolto da quell'incredibile amalgama di generi e inizia a gorgheggiare dei lunghi <<Yeaaah! Yeaaah!>>: Tempest è uscito da quasi sei anni, ma le sue canzoni continuano a destare meraviglia anche in chi Dylan lo conosce bene e sa quanto in alto possa arrivare. A conclusione del pezzo, le luci vengono abbassate di nuovo fino quasi all'impercettibile: seguiamo, in silenzio, la sagoma del vecchio Bob aggirarsi nel buio e, quando i fari si riaccendono a mostrare solo le tende sullo sfondo, lui se ne sta al centro del palco, in piedi, le gambe divaricate di fronte a un microfono ad asta lunga. Una Melancholy Mood così ormai non sarebbe in grado di cantarla nemmeno Tom Waits: Donnie Herron e Tony Garnier ci mettono del loro, ma tutti gli occhi sono per Dylan, la cui voce risuona in mezzo all'uditorio ed è bellissima, migliore perfino rispetto a quello stile clean che ha conquistato tanto successo negli ultimi album. Quest'uomo di 77 anni (ma che potrebbe avere qualsiasi età, perchè, come cantava in My Back Pages, "I was so much older then/I'm Younger that then now") che dondola l'asta del suo microfono come un divo del rock&roll anni '50 stasera è proprio venuto a mostrarci l'anima badando bene, però, di farci tirar fuori le nostre. Segue una triade di pezzi opinabili: Honest With Me (unico brano che in tutta la sera non riconoscerò nè dal testo, nè dalla melodia) non mi fa impazzire neanche su "Love and Theft", mentre Tryin'to Get Heaven è solo uno dei picchi di quell'opera maxima anche detta Time Out of Mind e a cui Dylan, ventuno anni dopo la sua pubblicazione, continua ad attingere e a rifarsi (si dica quello che si vuole, ma, in termini musicali, tutto il NET post-1997 guarda a Time Out of Mind molto più che a qualsiasi altra pubblicazione dylaniana precedente). Pura epica che però- in questo arrangiamento live in tutto e per tutto simile a una brutta copia di quello incluso nel terzo cd di Tell Tale Signs -non decolla nè emoziona. Once Upon a Time resterà l'unico estratto da Triplicate: suonato bene e cantato meglio, ma terribilmente freddo, costruito, poco convincente: senza dubbio, l'unica canzone che potrebbe giustificare le feroci e puerili critiche intentate alle serate romane da una stampa o ignorante o semplicemente impreparata.
Prima dell'ultima strofa vado a pisciare ed è allora, di fronte al cesso, che realizzo che Bob Dylan esiste davvero, non me lo sono inventato. Non è solo una voce che da tanti anni risuona nel mio impianto, nelle mie cuffie, nella mia macchina e che mi aiuta a interpretare, accrescere e vivere meglio la vita. Se ne sta di là, a qualche metro da me, dietro il muro del bagno. Una stratosferica Pay in Blood- che, a mio avviso, è anche una delle cinque più belle canzoni scritte da Dylan nel nuovo millennio -restituisce la serata agli annali migliori del NET, Tangled Up in Blue (che da sempre sgomita per stare sul mio personale podio delle tre canzoni più belle di sempre) oscilla fra l'irriconoscibile e il recitativo: ecco, se c'è una critica da muovere alla scaletta (scaletta "fissa" ma di sacrosanta bellezza), è che i pezzi degli anni '70, in questa fase della carriera di Bob, sembrano fare più fatica rispetto a tutti gli altri. Ma da questo momento in poi il concerto risulterà solo perfetto, brano dopo brano: Soon After Midnight è addirittura più bella dal vivo che in studio, Early Roman Kings- fra i tanti blues lenti o veloci suonati stasera -è in assoluto il miglior dodici battute del repertorio, Desolation Row, semplicemente definitiva nel suo incedere jerrygarciano, mi fa inorgoglire di aver scelto la maglietta dei Dead. Il pubblico batte le mani a tempo, Dylan sembra divertirsi come un bambino, i ragazzi dietro di lui pure. Love Sick è una canzone tosta e difficile, eppure con quale violenta disinvoltura e con che classe viene gettata in pasto a un pubblico che, magari, da troppi anni ne ascoltava solo la versione dei White Stripes. Thunder on the Mountain potrebbe seriamente competere come miglior brano della serata: arrangiamento al fulmicotone, chitarre talmente tirate che sembra quasi di scorgere il fantasma di Chuck Berry intento ad aggirarsi sul palco, assolo di batteria che toglie il fiato. Con Autumn Leaves si torna dalle parti diTom Waits: sul finale- cantato però con un piglio virtuosistico da talent show immaginario -il Mandela viene giù e tributa a Dylan il più colossale scroscio di applausi della serata.
E poi è il momento di Long and Wasted Years, la canzone che aspettavo, quella che da anni ambivo a sentire "in diretta", il mio brano preferito di Tempest. Perfetto esempio di sintesi carveriana e brano monumentale sin dal suo apparire nei concerti del NET a cavallo fra 2012 e 2013. Ogni secondo della Long and Wasted Years di questo 7 aprile 2018 fa accapponare la pelle: è un sussulto d'artista senza eguali, suonata alla perfezione e cantata in maniera abbagliante. Dylan canta, anzi, racconta il viale del tramonto, dà volume a un brano di neanche quattro minuti che da sei anni sta crescendo, giorno dopo giorno, caricandosi di ulteriori significati. Quest'ultima performance ruba applausi a scena aperta, ulteriormente amplificati dall'uscita di scena del gruppo. Ritornano tutti dopo pochi secondi. E' il momento degli encores. Donnie Herron impugna un violino (suona davvero di tutto questo tizio!) e inizia la ricostruzione totale della più famosa fra le più famose canzoni del repertorio di Dylan: ancora non possiamo saperlo, ma stasera Blowin'in the Wind, l'innocua canzoncina pacifista che ormai troviamo tradotta fra le pagine di ogni sussidiario di scuole elementari e superiori, sarà roba da primo amore. Come si fa a mantenere vivo e fresco uno dei pezzi di musica più famosi del Novecento? Semplice: basta chiamarsi Bob Dylan. Quasi un minuto di sola musica prima del fatidico "How many Roads...", un minuto durante cui non smetto di commuovermi mandando a memoria il monologo con cui si chiude- sempre sulle note di una Blowin'in the Wind del NET -Masked and Anonymous: "Che senso ha sapere di che cosa è capace la persona che ami? Tutto va a pezzi, specialmente l'accurato ordine delle regole e delle leggi. Noi guardiamo il mondo nello stesso modo in cui siamo fatti. Guardalo da un bel giardino, e tutto ti sembrerà allegro, sali su un altopiano, e vedrai devastazione e assassinii. Verità e bellezza sono negli occhi di chi guarda. Ho smesso di cercare di capire tutto molto tempo fa".
Perfino dopo un'ipotetica chiusura di quest livello, non viene meno il potere di Dylan di avvincere lo spettatore. E lo fa senza bisogno di conquistare niente e nessuno, ma mettendo in coda un'avventurosa, toccante e unica Ballad of a Thin Man, magistralmente orchestrata dal capobanda Tony Garnier (bassista della NET band da alcuni mesi prima della mia nascita, pensate un po'!) e da Charlie Sexton. Una piccola folla sfida, proprio da ultimo, la security e la platea si riempie di monitor luminosi. Alcuni temerari scattano pure col flash, ma ormai quei mastini dei bodyguards hanno gettato la spugna. L'ultimo, rallentato "Do You, Mister Jones?" sfuma in una standing ovation assoluta. I moticiclisti inglesi alla mia destra scalpitano urlando <<Like a Rolling Stoneeeeeeeeeee!>>, mentre il genovese dietro di noi riprende il suo mantra di incontrollati <<Yeeeeeeeeeeah! Uaaaaaargh!>>. I sette fari sono ora tutti accesi al massimo della potenza. Bob accenna un inchino, solleva lievemente un braccio in direzione dei suoi musicisti- che, per inciso, sono davvero la più grande backing band che io abbia mai avuto modo di vedere in azione su un palcoscenico -e controlla, con morigeratezza, uno dei suoi sorrisi enigmatici. Poi le luci si abbassano, tutti scompaiono lasciando il posto a un paio di tecnici che iniziano a scollegare cavi e microfoni. La luce torna a splendere dentro il Mandela Forum. Sofi è entusiasta, a tratti commossa. Provo un grande piacere, perchè tutti i luoghi comuni perpetrati dalla stampa italica e ulteriormente fomentati da conoscenti a cui mancano- e alla luce di quanto ho visto e sentito, mi pare ormai evidente -i mezzi e le conoscenze più rudimentali per criticare Dylan sono stati spazzati via da un eclettismo, una varietà, una bravura, una mutevolezza e un'inventiva che non hanno epigoni e, con ogni probabilità, non ne hanno mai avuti (almeno in ambito di rock e derivati). Il Nobel, il Pulitzer, l'Oscar, la legion d'onore, tutti i premi e i gossip di questo mondo, tutti i pregiudizi e le minchiate lette e sentite sino al pomeriggio stesso del concerto sull'artista e la sua opera vengono meno di fronte alla portata reale di cosa quest'uomo- non un fossile, nè un sopravvissuto, nè una "vecchia gloria" (tre cose che, in ambito musicale, esistono solo nelle terminazioni nervose di qualche mentecatto allo sbaraglio) -porta a giro da oltre cinque decenni: una ricerca della bellezza senza fine.
[*A onor di cronaca, basti pensare che The Band non è più la backing band di Dylan dal 1974 e che la loro ultima esibizione assieme si tenne il 25 novembre 1976, in occasione delle riprese per L'ultimo valzer di Martin Scorsese.]
La settimana prima di pasqua comincia alla grande. Il martedì grasso è un ricordo lontanissimo, così come dal mercoledì delle ceneri sembra passato un anno. La pioggia, la neve, i quaranta giorni di digiuno e penitenze quaresimali (tanto rivendicati da chi la sera guarda Rete4 nella speranza che qualcuno se ne esca con una barzelletta sul ramadam)sono passati alla velocità del vento. E' un martedì pomeriggio, esco di lavoro, torno a casa giusto in tempo per farmi una doccia e alleggerirmi di abito e riparto alla volta di Siena: Martina si laurea in medicina alle 16:00 e io non posso mancare. Rotolo verso la superstrada con The Captain and Me, album di altissimo valore dei Doobie Brothers, a tutto volume nello stereo e mi chiedo come mai nessuno produca più musica così.
Quando ci siamo scritti nella chat di Facebook a metà mattinata, Martina mi ha detto che forse sarebbe venuta anche Luna. Luna lasciò scuola il 24 novembre 2007. Era un sabato ed era stata assente per buona parte della settimana. La aveva accompagnata sua mamma, che però si era dovuta fermare in segreteria a piano terra per sbrigare le pratiche del ritiro, mentre Luna era venuta a salutarci. Allora me ne resi conto solo in parte, ma fu uno dei primi veri fulmini a ciel sereno della mia vita. Avevamo legato molto negli ultimi due anni, e per quanto lei- come il sottoscritto -non sguazzasse in acque troppo limpide su un piano di rendimento scolastico, mai mi sarei aspettato che se ne andasse ad appena due mesi dall'inizio dell'ultimo anno. Non ricordo cosa le dissi, ma provai un gigantesco senso di dispiacere e abbandono. Ecco cosa scrissi allora sul diario: Che orrore e che errore. Non ho molto da dire su questo adieux, ma è un saluto doloroso e come tale non me la sento di accettarlo per niente. Per quanto ne so e per il punto a cui sono arrivate le cose, potrei essere il prossimo. Il problema è che avevo talmente tante idee in testa che ora sono concretizzabili solo a metà. Sono davvero sconcertato: ma non poteva prendere una decisione del genere l'anno scorso? Sarebbe stato meglio. Quest'anno era ricominciato tutto in maniera più intensa, più solida, più bella. Cazzo, un anno fa eravamo legati ma non fino a questo punto! E ora, porca puttana, mi sento strano. Una settimana fa eravamo a giro insieme a congetturare il futuro, a fare acquisti, ecc. e ora? Ora sarà tutto diverso.
Ormai sono abituato a veder progressivamente uscire dalla mia vita persone molto importanti e a decretarne l'assoluta insostituibilità; ho preso coscienza, da tempo, che numerose figure per me essenziali sono divenute poco più di presenze passeggere, spettri che risvegliano per qualche ora o- ad andar bene -per qualche giorno umori e sensazioni che pensavo sepolti fra l'adolescenza e la maturità. Ma all'epoca ero nuovo a questo genere di cose. Sette giorni prima di quel fatidico 24 novembre ero andato con Luna a Firenze. Non lontano dalla stazione c'era un negozio di street-wear, dove lei mi aveva fatto provare una maglietta e me l'aveva regalata per i miei diciotto anni. Poi eravamo tornati a casa sua a Certaldo, avevamo cenato, guardato Blow con Johnny Deep, fumato un paio di sigarette riflettendo sulle cose importanti della vita ed eravamo andati a letto. Dalla mattina in cui mi abbracciò sorridendo e salutandomi, ho rivisto Luna altre due volte: la prima, il 5 agosto 2008 a Siena, quando uscimmo a cena per festeggiare i diciotto anni di Maggie e lei, neopatentata, mi riaccompagnò a casa con una Ypsilon nuova di pacca annunciandomi il suo imminente trasferimento a Roma, e poi il 17 marzo 2017 a un'impegnativa cena di classe dove a fatica riuscimmo a domandarci cosa stessimo facendo di lavoro. Due cose di lei conservo ancora gelosamente: quella t-shirt da raver (che di estate ancora indosso con fierezza e piacere) e la compilation Land di Patti Smith, masterizzata su doppio cd e con le liner notes pazientemente ricopiate a mano. Per il resto, nè una telefonata, nè un messaggio: ma a entrambi deve esser stato bene così.
La discussione di Martina si protrae fino alle 17:30, ma io non smetto di tener d'occhio le due porte di ingresso dell'aula magna. Un altro paio di tesi dopo la sua e la commissione si ritira per discutere sui voti dei laureandi. Ne approfitto per uscire a fare una telefonata e a prendere una boccata d'aria ed ecco che me la vedo venire incontro: Luna, elegante e impeccabile come al solito, capelli più lunghi di come li ricordavo (lei che al liceo non disdegnava rasarsi) e un sorriso smagliante. Ci abbracciamo e iniziamo a parlare come si ci fossimo salutati all'uscita da scuola delle 13:30, poi le indico Martina. Mi domanda se hanno già letto il voto, ma le dico di no, che è arrivata in tempo. Il 110 viene annunciato meno di mezz'ora dopo: seguono l'alloro, gli abbracci, i baci, le strette di mano, lo spumante. Lasciamo Martina al suo momento di gloria (meritatissima), e ci fermiamo a ragionare con Riccardino: noto con piacere che Luna si ricordi di me come di un intenditore di musica e di un fine lettore. Finiamo in un angolo io e lei a parlare dei ching, dello smettere di fumare, della sobrietà, della collezione dei libri Adelphi della sua mamma, di una maglietta regalatale da una militante americana di Greenpeace mentre eravamo in Grecia (luglio 2005) e che tuttora indossa la sera per andare a dormire, delle nostre rispettive relazioni sentimentali e del loro auspicato futuro prossimo, della trilogia marsigliese di Izzo (che io non ho letto ma che mi consiglia), di una zuppa di pesce francese che pare sia molto buona, del fatto che anche lei, prima o poi, dovrebbe andare in Marocco, del prezzo incivile delle case a Firenze, della bellezza di non uscire più fuori la sera, del vuoto pneumatico del clubbing, e infine, per citare Ciccio De Gregori, "degli amici che vanno e ritornano indietro/ e hanno perduto l'anima e le ali". Martina non è mai stata fra questi, mentre Luna temevo che potesse esserlo. L'ho temuto per più di dieci anni. Erroneamente, ci convinciamo che una persona che sparisce o che per molto tempo non si fa vedere e non si fa sentire abbia qualcosa da nascondere, che la sua vita sia una merda, la sua personalità si sia disintegrata in mille pezzi, che i fallimenti abbiano di gran lunga superato i traguardi. Un timore precostituito da anni di malignità e cattivi pensieri (pantano nel quale, ahimè, sono immerso quasi quotidianamente e a livelli diversi) spazzato via in una manciata di minuti. L'anima è intatta, le ali non si vedono, ma sono convinto che sotto quel cappottino grigio, saldamente legate alla sua persona, ci sono ancora e funzionano bene.
The Grateful Dead, The Best of the Grateful Dead Live
(Rhino Records, 2018, 2 Cd) ★★★★★
Nel novanta percento dei casi, non darei spazio a una recensione focalizzata su un greatest hits, per di più contenente solo materiale live. Inoltre, nel novantanove percento dei casi, mi verrebbe anche spontaneo cassare una raccolta simile a quella qua sopra come l'ennesima trappola ordita dagli industriali del music business ai danni degli aficionados. Ma quando si parla di Grateful Dead, si parla di un universo in cui niente accade per caso. David Lemieux ha definito The Best of the Grateful Dead Live come l'altra faccia del doppio best of uscito nel 2015, in occasione dei cinquant'anni del gruppo: un'antologia retrospettiva che farà la gioia di chi i Dead già li venera, ma che è soprattutto rivolta- complice l'allettante prezzo di vendita -a presentare questo doppio biglietto da visita ai neofiti. L'avventura inizia con la St. Stephen presentata al Fillmore West il 27 febbraio 1969 (già in uno dei tre migliori live albums di tutti i tempi, ossia Live/Dead) e si conclude con So Many Roads suonata al Soldier Field di Chicago il 9 luglio 1995 (data indelebile nella mente di ogni deadhead, in quanto ultima esibizione con Jerry Garcia). Nel mezzo, ere geologiche attraversate da una pioggia fittissima di capolavori. Aspetto interessante della raccolta: come nel gemello in studio, nessun brano qui è inedito. Ogni canzone è già apparsa su album e raccolte e la cernita mira dunque a fare il punto sulla carriera live del gruppo appropriandosi del concetto (storicamente tipico della comunità deadheads) della best version ever: ovviamente, cosa dire sulle Bertha e Wharf Rat di Skull&Roses (che per chi scrive è uno dei tre dischi preferiti dei Dead)? E quanto inchiostro vogliamo ancora spendere sulla Morning Dew suonata in Inghilterra il 26 maggio 1972? L'unica, vistosa pecca del primo cd (e, in generale, della raccolta tutta) è che non presenta brani incisi fra 1973 e 1974, quando- almeno a mio avviso -il 1973 ha ben poco da invidiare ai precedenti, fosse anche soltanto per il fatto che il più bel concerto dei Dead è stato inciso a Veneta, Oregon, il 27 agosto di quell'anno. Il buon Lemieux avrebbe potuto estrapolare da qui Truckin', invece di battere, nuovamente, su quella comparsa su Europe '72. Perfetta, invece, la cinquina messa in fila all'inizio del secondo dischetto: tre monumentali brani tratti da Dead Set (fra cui quella Fire on the Mountain che si contende un pezzetto dei nostri cuori con quella, più scarna, presentata a Red Rocks nel maggio 1978) e due dal suo gemello eterozigote Reckoning. Per chi si fosse perso Without a Net (che negli anni non è mai stato ristampato a dovere sul mercato europeo), questa sarà anche l'occasione giusta per ascoltare il duetto con Branford Marsalis su Eyes of the World. Quasi in coda, un pezzo da novanta inaspettato: una Blow Away (Brent Midland firmava la musica e John Perry Barlow i testi) di dodici minuti registrata a Filadelfia nel 1989 e precedentemente inclusa solo nel cofanetto Crimson, White and Indigo. Grandissima assente del cd 2? La Althea suonata al Nassau Coliseum durante il tour di Go to Heaven. Ma per il resto siamo a livelli dionisiaci: apprendimento senza fondo nè fine. Musica che continua a essere e sarà sempre uno specchio rivolto verso l'infinito.