Si può fare tutto, se si sa come farlo. Ad esempio si può iniziare a scrivere un romanzo un po' giallo, un po' nero, un po' southern-gothic, arrivare a cento pagine e accorgersi che si presta meglio a divenire una sceneggiatura. Magari per un film. Magari per un film lungo otto ore, e a quel punto si realizza che una serie televisiva antologica- che però somigli di più a un lungo film (dunque tecnicamente curatissima, difficilmente riassumibile, lontana dai ritmi standard della serialità) -sia la soluzione migliore. La si chiama True Detective e il gioco è fatto. L'autore del miracolo si chiama Nic Pizzolatto, scrittore nato in Louisiana nel 1975. La producono e interpretano per HBO due grandi divi di Hollywood (Matthew McConaughey e Woody Harrelson) e diventa un instant-cult.
La prima stagione- leggendaria -si conclue nel marzo del 2014 e di acqua sotto i ponti ne passa tanta prima dell'arrivo della seconda, ma quando l'hype è alto, è alto.
Non faccio paragoni con la stagione precedente, perchè mi pare che non ce ne sia bisogno, nè sento la necessità di scrivere la listina delle cose che "mancano" di Rust Cohle e Marty Hart. Il perchè è presto detto: la prima puntata della seconda stagione- che si fregia dell'eloquente e meraviglioso titolo di The Western Book Of The Dead -è bella. Non carina, discreta o buona, ma bella. L'universo in cui è ambientata risponde ad una California fittizia e profondamente personalizzata, per quanto chi vuole non potrà esimersi dal notare reminescenze che vanno dai romanzi di Chandler alle atmosfere del Lynch di Strade perdute e Mulholland Drive. Attenzione, non sto parlando di citazioni, omaggi e indizi: True Detective si riconferma, al cento percento, un'opera (letteraria, prima ancora che televisiva) di Nic Pizzolatto.
La struttura, per fortuna, è totalmente cambiata rispetto alla prima stagione. A parte alcuni momenti, il flashback non è la colonna portante della serie, ma si va avanti orizzontalmente, con un numero di personaggi maggiore e di conseguenza una massiccia quantità di storie da raccontare. Lo sbirro tormentato e corrotto Ray Velcoro (Colin Farrell, che è di nuovo fra noi e promette benone) ha in comune ben poco con il ligio sceriffo Antigone Bezzerides (Rachel McAdams, ad ora il mio preferito fra i "quattro protagonisti"), e preferisce tessere rapporti col boss Frank Semyon (Vince Vaughn, che con tre primi piani fuga ogni dubbio sulle sue capacità di vestire i panni del villain), bere come una spugna, fumare incessantemente, difendere- con qualunque mezzo -il bimbo obeso nato dallo stupro della sua ex-moglie. Tanto per non farsi mancare niente.
Va da sè che il personaggio della McAdams, fuorchè fare lo sceriffo al meglio delle sue potenzialità e riversare ogni energia nel proprio lavoro, ha un matrimonio fallito alle spalle, una preoccupante propensione al gioco d'azzardo, una sorella ben inserita nel mondo delle webcam porno e un padre santone che non impone scelte a nessuno dal 1978 e, placidamente, cita Allen Ginsberg e annuncia l'estinzione della razza umana.
Ben più difficile da inquadrare, a conti fatti, è Paul Woodrugh (Taylor Kitsch), ex-marine, biker pieno di cicatrici, agente della polizia stradale momentaneamente congedato. Dei quattro è quello a cui, almeno in questa prima puntata, è stato dedicato meno spazio, ed è indubbiamente quello che parla meno (anche se, va detto, si chiacchiera relativamente poco rispetto alla prima stagione): tuttavia, a lui Pizzolatto riserva l'onere e l'onore di scoprire- in maniera forse fin troppo casuale, perfino per un serial -il cadavere di Ben Casper, funzionario pubblico morto male assai.
Ora, alla luce del fatto che l'atmosfera della prima stagione- nonostante le 1827 miglia che intercorrono fra la Louisiana e Los Angeles -è rimasta intatta (complice il fatto che l'apparato tecnico della HBO ha ricompiuto il miracolo), che Justin Lin ha appena firmato il suo capolavoro registico (dispiace un po' sapere che dalla terza puntata non sarà più lui a dirigere i giochi), che i titoli di testa più belli della storia della televisione fanno ancora parte di tutto questo (e tocca a Nevermind di Leonard Cohen il compito di rimpiazzare Far From Any Road degli Handsome Family), che ci sono il cast, il bar, la Valley, l'eros, il cadavere, Nick Cave, le limousine, il Pacifico, le ville e le lampade da Nighthawks At The Diner, io corro a riguardare tutto questo e a chiederne ancora.
La prima stagione- leggendaria -si conclue nel marzo del 2014 e di acqua sotto i ponti ne passa tanta prima dell'arrivo della seconda, ma quando l'hype è alto, è alto.
Non faccio paragoni con la stagione precedente, perchè mi pare che non ce ne sia bisogno, nè sento la necessità di scrivere la listina delle cose che "mancano" di Rust Cohle e Marty Hart. Il perchè è presto detto: la prima puntata della seconda stagione- che si fregia dell'eloquente e meraviglioso titolo di The Western Book Of The Dead -è bella. Non carina, discreta o buona, ma bella. L'universo in cui è ambientata risponde ad una California fittizia e profondamente personalizzata, per quanto chi vuole non potrà esimersi dal notare reminescenze che vanno dai romanzi di Chandler alle atmosfere del Lynch di Strade perdute e Mulholland Drive. Attenzione, non sto parlando di citazioni, omaggi e indizi: True Detective si riconferma, al cento percento, un'opera (letteraria, prima ancora che televisiva) di Nic Pizzolatto.
La struttura, per fortuna, è totalmente cambiata rispetto alla prima stagione. A parte alcuni momenti, il flashback non è la colonna portante della serie, ma si va avanti orizzontalmente, con un numero di personaggi maggiore e di conseguenza una massiccia quantità di storie da raccontare. Lo sbirro tormentato e corrotto Ray Velcoro (Colin Farrell, che è di nuovo fra noi e promette benone) ha in comune ben poco con il ligio sceriffo Antigone Bezzerides (Rachel McAdams, ad ora il mio preferito fra i "quattro protagonisti"), e preferisce tessere rapporti col boss Frank Semyon (Vince Vaughn, che con tre primi piani fuga ogni dubbio sulle sue capacità di vestire i panni del villain), bere come una spugna, fumare incessantemente, difendere- con qualunque mezzo -il bimbo obeso nato dallo stupro della sua ex-moglie. Tanto per non farsi mancare niente.
Va da sè che il personaggio della McAdams, fuorchè fare lo sceriffo al meglio delle sue potenzialità e riversare ogni energia nel proprio lavoro, ha un matrimonio fallito alle spalle, una preoccupante propensione al gioco d'azzardo, una sorella ben inserita nel mondo delle webcam porno e un padre santone che non impone scelte a nessuno dal 1978 e, placidamente, cita Allen Ginsberg e annuncia l'estinzione della razza umana.
Ben più difficile da inquadrare, a conti fatti, è Paul Woodrugh (Taylor Kitsch), ex-marine, biker pieno di cicatrici, agente della polizia stradale momentaneamente congedato. Dei quattro è quello a cui, almeno in questa prima puntata, è stato dedicato meno spazio, ed è indubbiamente quello che parla meno (anche se, va detto, si chiacchiera relativamente poco rispetto alla prima stagione): tuttavia, a lui Pizzolatto riserva l'onere e l'onore di scoprire- in maniera forse fin troppo casuale, perfino per un serial -il cadavere di Ben Casper, funzionario pubblico morto male assai.
Ora, alla luce del fatto che l'atmosfera della prima stagione- nonostante le 1827 miglia che intercorrono fra la Louisiana e Los Angeles -è rimasta intatta (complice il fatto che l'apparato tecnico della HBO ha ricompiuto il miracolo), che Justin Lin ha appena firmato il suo capolavoro registico (dispiace un po' sapere che dalla terza puntata non sarà più lui a dirigere i giochi), che i titoli di testa più belli della storia della televisione fanno ancora parte di tutto questo (e tocca a Nevermind di Leonard Cohen il compito di rimpiazzare Far From Any Road degli Handsome Family), che ci sono il cast, il bar, la Valley, l'eros, il cadavere, Nick Cave, le limousine, il Pacifico, le ville e le lampade da Nighthawks At The Diner, io corro a riguardare tutto questo e a chiederne ancora.
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