Autore di grande spessore, spesso trascurato ma mai trascurabile, il texano Richard Linklater è uno dei pochi registi americani contemporanei a vantare un curriculum composto quasi e soltanto da film meravigliosi: il bellissimo La vita è un sogno (1993), la trilogia Prima dell'alba (1995), Prima del tramonto (2004) e Before Midnight (2013), l'istruttivo cult School Of Rock (2003), il polemico finto-documentario Fast Food Nation (2006) o il magnifico e inosservato Bernie (2011) rappresentano solo una minima parte della carriera di questo instancabile, ardito, eccezionale regista, che è tornato al cinema con Boyhood, opera che gli è costata letteralmente 12 anni di lavoro. Di fatti, le riprese sono partite nel 2002 e si sono concuse solo nel 2014, e tutti gli attori del cast- attenzione -sono cresciuti di pari passo col film. Questo è quello che troverete scritto su tutti i giornali e questo è il motivo per cui tutti quei giornali vi consiglieranno di andarlo a vedere.
Ma c'è dell'altro. Perchè Boyhood non è solo un ambizioso esperimento formale che sta vivendo forse un momento di eccessiva sopravvalutazione (non che sia un male, visto che preferisco di gran lunga sapere sopravvalutato Linklater rispetto ad un episodio qualsiasi della saga Fast And Furious), ma un vero e proprio bildungsroman, narrato da e con gli occhi di Mason (E. Coltrane), un bambino che diventa ragazzo e che finisce col raccontarci non solo le (dis)avventure sue, di sua madre (una Patricia Arquette brava e affettuosa che ingrassa a vista d'occhio), di sua sorella (L. Linklater, figlia del regista) e di suo padre (il grande Ethan Hawke), ma una sorta di unico, grande saggio sull'America degli ultimi dodici anni, e non di certo simile a come la racconterebbero tutti. Un film dove si sbagliano mariti, ci si lascia e non ci si riprende; un film che insegna che in certi posti nel mondo la società ci suggerisce di essere comunisti a vent'anni, anarchici a trenta, conservatori a cinquanta e che fino a quando bambini di sette anni giureranno fedeltà ad una certa bandiera e ad un certo Dio il mondo non sarà poi il posto migliore dell'universo dove vivere; un film che parla di vita e amore e che insegna quanto possano risultare effimeri il tempo, l'amore, la felicità e, per fortuna, anche il dolore: e i personaggi di Boyhood, sorprendentemente simili a personaggi della vita reale, questo sembrano impararlo bene, ed è forse l'insegnamento più grande che Mason trae quando il film finisce, anzi, si interrompe, con una persona nuova di cui innamorarsi e un tramonto del Sud talmente bello da sembrare eterno. I detestabili Arcade Fire intonano Deep Blue, una delle loro nenie tutte uguali, ma a me torna in mente un'altra canzone del film, quella in cui Dylan dice "Beyond the horizon, behind the sun/ At the end of the rainbow life has only begun/ In the long hours of twilight ‘neath the stardust above/ Beyond the horizon it is easy to love". Ed è proprio quello che penso: Linklater ci ha portati, per quasi tre ore, ben oltre gli orizzonti emotivi (e anche artistici) a cui la nostra epoca ci ha abituati e se è vero che non necessariamente la verità aiuta a capire meglio le cose, quella presente in Boyhood, anche se solo per un momento, sembra potercela fare.
Nessun commento:
Posta un commento